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Sochi 2014, Expo 2015: eventi e controinformazione.

Creato il 02 dicembre 2013 da Sdemetz @stedem
Foto: R. Hornstra-One of the many abandoned houses. Sukhum, Abkhazia, 2010

Foto: R. Hornstra-One of the many abandoned houses. Sukhum, Abkhazia, 2010

I grandi eventi, soprattutto le Olimpiadi, offrono sempre un’occasione per studiare il territorio o la cultura dei luoghi che saranno il centro degli avvenimenti.

In genere, con i mega eventi, molti reportage cercano di raccontare le contraddizioni che i luoghi e le culture esprimono rispetto alla retorica ufficiale, la retorica dei buoni sentimenti e del folklore locale.

E si sa, le Olimpiadi di retorica sono zeppe. Non lo dico solo in senso negativo, al contrario. Credo che molti messaggi che esse diramano a livello globale siano importanti: nazioni in guerra che nonostante tutto partecipano, storie di gloria personale, di sacrifici, storie di lotta e di vittoria, ma anche commoventi modelli su come vivere le sconfitte, su come essere umili, storie di umanità, insomma.

È dunque un terreno molto insidioso quello della comunicazione legata ai mega eventi. Soprattutto se alla base degli stessi c’è ancora oggi la propaganda romantica di un De Coubertin mescolata a interessi miliardari di multinazionali globali.

Si potrebbe però anche aggiungere che rientra nella normalità il fatto che studi, ricerche, reportage controcorrente o di contro-informazione si sviluppino prima dei grandi eventi.

Controinformazione pre-olimpica

Penso a quanta letteratura ha prodotto Pechino, agli studi di Amnesty International alle “levate alle armi” di difensori di diritti civili e ambientalisti contro i Giochi Olimpici in Cina. Penso anche alla diffusione massiccia di articoli sulle stragi di cani randagi in occasione degli Europei di calcio in Ucraina nel 2012. O, ancora, penso alle aspettative che tutti avevano o hanno ancora su Rio 2016, interrotte bruscamente dalle rivolte in piazza che chiedevano di pensare anche ai cittadini e non solo ai potentati.

Per quanto riguarda Sochi, è fin troppo facile fare comunicazione anti-olimpiadi. Insomma, Putin ce la regala su un piatto d’argento: la guerra, la sua potenza, i soldi spesi (le Olimpiadi più costose di tutti i tempi), le speculazioni edilizie per i ricchi della Russia, l’offensiva anti omosessuali e poi la forzatura ambientale di un’area tropicale che diviene centro di giochi invernali.

Tra le inchieste più interessanti che ho trovato ce n’è una segnalata dal New Yorker. Il fotografo olandese Rob Hornstra e Arnold Van Ruggen hanno realizzato un’indagine completa e profonda sull’intera regione caucasica. Lo chiamano “slow journalism”, il loro.  Non c’è nulla di affrettato, di urlato perché attuale o di moda. Il lavoro è iniziato nel 2009 e ha un titolo che esprime con drammatica ironia i paradossi di quella regione: “War and Toursim in the Caucasus”. Da un lato Sochi, meta del turismo d’elite russo e a venti chilometri  l’Abkhazia, una regione fino a pochi anni fa in guerra.  L’ultimo capitolo, “The Sochi Project”, è quello che ci interessa di più, oggi a pochi mesi dalla cerimonia di inaugurazione. Il lavoro è davvero imponente e “bello” per la qualità delle immagini e per la ricchezza delle informazioni.  Una sezione si chiama “Putin’s private project”, ed esordisce cosi:

All the test events and championships in Sochi have been declared successful. The stadiums are finished. Let the Games begin! But with only months to go before the opening ceremony, reports have surfaced that North Caucasian militants in Syria are being urged to return home and continue fighting in Russia and Sochi. Campaigns have been launched around the world in protest against Putin’s repressive government. Human rights activists are calling for demonstrations at the Olympics themselves to protest new Russian laws on homosexuality. Cracks are beginning to appear in Putin’s prestige project.

Contro-informazione:  ordinari effetti collaterali

Si tratta di arte? Giornalismo? Saggistica?  Poco importa.

Immagino però che sia uno di quei lavori che  il prurito lo fa venire e non solo a Putin, ma anche a tutti i comunicatori  istituzionali e forse anche al CIO. Allo stesso tempo, però, nonostante la qualità del lavoro, il prurito non scalfisce le certezze. “The Sochi Project” sarà considerato da molti uno dei previsti effetti collaterali che un evento crea, ma una volta acceso il braciere tutti se ne dimenticheranno. Si tornerà alla retorica olimpica, si farà poi una conferenza stampa di chiusura che esalterà la bravura dei russi e una volta spenti i riflettori si lascerà Sochi e la sua popolazione a smazzarsi da sola, senza più una telecamera accesa, il post olimpiadi.

Controinformazione strategica.

Accade sempre cosi. E non solo per Olimpiadi. Ora c’è l’attenzione mediatica, poi non interessa più a nessuno. Mi viene in mente un parallelismo che forse sembra bizzarro, ma per me è efficace. Recentemente ho aiutato la figlia di un’amica a sistemare un’abstract sulla sua tesi, che verteva sull’informazione medico-scientifica nei giornali. Analizzava, cioè, come vengono riportate le notizie sulle scoperte mediche, quelle che in genere vengono urlate sui giornali con titoli ad effetto: “I limoni eliminano il cancro”. Leggendo questa tesi ho scoperto che in Germania, per evitare che notizie false o parziali vengano buttate nella mischia dei quotidiani senza dare poi alcun seguito, è stato istituito un premio per i giornalisti scientifici, i quali devono non solo raccontare l’esito di una ricerca citando le fonti ma seguirne anche il follow up garantendo la stessa visibilità sul quotidiano. Se, in parole semplici, si scopre che non è vero che i limoni salvano la vita, il giornalista deve scriverlo. Il giornalista è spinto a farlo, soprattutto perché il premio è molto prestigioso e chi lo prende viene considerato una firma affidabile. E dunque, vale la pensa seguire tutta la storia, anche quando sembra meno interessante. Per lo meno per la propria gloria.

Perché non fare così anche con la controinformazione sui mega eventi? Sarebbe interessante se i riflettori fossero accesi anche nelle analisi post Olimpiade. Ora è “facile” parlare male di Sochi. Il tema è attuale, la stampa è affamata di fonti che diano materia ai propri articoli, i lettori ne sono attratti, e, proprio per la sua attualità, è facile trovare finanziatori per reportage di vario genere.

A Milano un tentativo sul dopo è stato fatto.

Nel 2009 l’Ordine degli architetti di Milano ha organizzato incontri tematici intorno a una mostra in Triennale in cui  5 fotografi, tra cui il recentemente scomparso Gabriele Basilico, hanno esposto  immagini delle tracce lasciate dagli Expo. Il risultato ha spinto gli architetti milanesi a riflettere sull’opportunità di prevedere strutture temporanee a Milano nel 2015 piuttosto che costruire edifici destinati all’abbandono. Trovo questo tentativo molto importante: si è cercato di offrire a Milano materia viva per non ripetere i disastri degli altri. Che ci riesca o meno è ancora da vedere. Ciò che mi piace evidenziare qui è però che si è andati a studiare i post di eventi simili per cercare di non commettere gli stessi errori e lo ha fatto un’istituzione. Meglio ancora sarebbe se queste indagini venissero regolarmente commissionate da chi decide dove si terranno i mega eventi. E non dovrebbero limitarsi a ciò che si vede subito, gli edifici, ma dovrebbero penetrare anche gli effetti economici, culturali e sociali . E andrebbero fatte in modo sistematico ponendo vincoli non solo su cosa deve contenere l’evento, ma anche su cosa deve lasciare.  Questi studi, al di fuori di ogni bella azione di marketing, dovrebbero essere proposti con sincerità e convinzione e usati come modelli di lavoro per gli organizzatori futuri. Ma per davvero.

Controinformazione non stop

Da organizzatrice di eventi, mi piacerebbe che la retorica del “vogliamoci tutti bene” e dell’ “Olimpiade migliore, ever” non fosse l’ultima voce espressa prima del silenzio che accompagna lo spegnimento del braciere olimpico. Le voci contro fanno sempre male, ma gli scheletri post evento sono ancora più dannosi, proprio per noi, che di eventi ci occupiamo.  Per questo vorrei che gli studi di artisti, storici, sociologi, antropologi, umanisti, architetti, fotografi, giornalisti continuasse dopo e con lo stesso vigore del prima. E tutto questo per un semplice motivo: perché il dopo deve avere la stessa forza del prima e del durante. Perché solo in questo modo, solo tenendo viva l’attenzione sugli effetti dei mega eventi si troverebbero antidoti contro la distruzione, la speculazione e contro l’abbandono. Perché solo in questo modo, tenendo la carne al fuoco, anche le istituzioni coinvolte definirebbero con maggiore fermezza i criteri per l’assegnazione di questi  mega eventi. Perché si sentirebbero a disagio nel sentirsi continuamente dire che anche se la festa sportiva è stata bella, quella bellezza è violentata dalla bruttura del dopo. Ma per sentirsi a disagio, è necessario essere pungolati di continuo.

Se Atene dopo le Olimpiadi ha lasciato solo scheletri arrugginiti, non è certo colpa del CIO, ma dei greci. Tuttavia, l’ immagine stessa del CIO ne viene danneggiata, perché il suo evento ha ferito una città. E ciò non ha senso. È eticamente inaccettabile. E questo va raccontato.

Contro il maquillage della pseudo sostenibilità

Io, lo ripeto, lavoro negli eventi. E mi emoziono quando vedo le lacrime di una medaglia d’oro. Io stessa ho pianto di emozioni nelle mie due Olimpiadi. Ma, proprio perché ci ho lavorato, mi sento a disagio quando scopro che quella gioia ha lasciato ferite profonde una volta che anch’io, come tutti gli altri, ho lasciato il luogo.

Tutti parliamo di sostenibilità e i piani di sostenibilità sono obbligatori , ma poi in realtà nessuno ti sta col fiato sul collo per controllare, e allora anche la sostenibilità diventa una bella operazione di packaging. Un semplice maquillage pre-evento.


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