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“Something Good”, l’incontro con Luca Barbareschi

Creato il 06 novembre 2013 da Oggialcinemanet @oggialcinema

6 novembre 2013 • Speciale Cinema - Eventi, Vetrina Cinema •

Il consiglio di Elisabetta Bartucca

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Sapori contraffatti, alchimie alimentari costruite ad hoc e a prezzi competitivi per soddisfare il fabbisogno di una popolazione in continuo aumento. Tutto a scapito della ‘sicurezza alimentare’ mondiale. La chiamano sofisticazione alimentare: frodi, traffici di cibi ‘infetti’ che avrebbero prodotto un danno planetario stimabile intorno ai 1700 miliardi di dollari. E di contraffazione e ‘food security’ oggi parla anche “Something Good” (in sala dal 7 novembre per 01 Distribution).

Centocinquanta copie per un film fortemente voluto, diretto, scritto, prodotto e interpretato da Luca Barbareschi, pronto ad affrontare il polverone che una storia simile è destinata a sollevare: “Mi assumo la responsabilità di tutto ciò che dico e che ho fatto”. Dito puntato contro le multinazionali, perché non è un caso che “le banche si siano rifiutate di entrare in questo film”.

Luca Barbareschi in Something Good

Una scena di Something Good

L’incontro con Luca Barbareschi

Era un progetto complesso da realizzare sia a livello produttivo che come messa in scena. Ci racconti come è andata?
Tutto è nato da un’intuizione che mi ha dato Carlotto, autore di un libro che ci siamo rimbalzati in molti in Italia, approdando sempre però a un nulla di fatto. L’ho corteggiato a lungo, perché è un libro divertente e grottesco sulla sofisticazione alimentare; il tema affrontato era molto interessante, così abbiamo pensato che dovevamo avere la forza di ricominciare da capo. Non conoscevo lo sceneggiatore Francesco Arlanch, poi ci siamo incontrati e insieme abbiamo deciso di scrivere un film articolato su tre livelli: una redemption story, un racconto di redenzione con un personaggio che affronta le grandi responsabilità della sua vita, una bellissima storia d’amore e un thriller, che però non è l’asse portante della pellicola. Il tutto legato a qualcosa di realmente accaduto come lo scandalo del latte alla ‘melanina’; il problema della sofisticazione alimentare è diventato sempre più toccante e allarmante, quattro giorni fa ad esempio degli insider mi hanno fatto sapere che il pesce di Fukushima, di cui si parla nel film, non sarebbe riuscito ad arrivare in Italia, finendo invece in Iugoslavia. Abbiamo deciso di girarlo in Cina, ma non è un film contro la Cina: la scelta è stata dettata da ragioni numeriche, siamo di fronte a un paese dove anche un ‘piccolo errore’ diventa rilevante. Era quasi naturale ambientarlo a Hong Kong, una città di facciata molto bella ed elegante ma dove in realtà può accadere di tutto, è il porto più grande del mondo dopo Kuala Lampur, era l’ambiente ideale per la costruzione di una storia epica.

Cosa ti ha convinto a raccontare questa storia?

L’aspetto più interessante del film è l’assunzione di responsabilità. Spesso l’uso eccessivo della psicoanalisi per spiegare certi atti criminali ha il potere di trasformare tutto in grottesco sacrificando la dimensione epica del racconto, di quando cioè l’eroe come succede nella tragedia greca, ammette i propri errori, le proprie colpe e ha il coraggio di dire: “Ho sbagliato”, perché in fondo siamo umani e sbagliamo. Mi considero un regista e non un autore, amo molto il cinema americano, perché credo che anche attraverso i film di genere si possano raccontare storie bellissime. Volevo parlare di qualcosa che mi apparteneva e che fosse un passaggio psicologico importante; studiando il mio personaggio ho deciso che doveva essere un suicida, un uomo che vuole farla finita e che quando incontra l’amore si accorge di poter avere una chance, anche se ormai non può più mentire.

Come hai scelto i tuoi collaboratori e come li hai convinti a partecipare a un progetto di un simile sforzo produttivo?

Venendo dal teatro per me è molto importante la scelta di una voce che è come uno strumento musicale, per questo ho voluto che “Somethng Good” oggi venisse presentato in lingua originale; con il doppiaggio, anche se fatto bene, un film perde inevitabilmente qualcosa. Anche l’idea migliore se non realizzata con un team eccellente rischia di non diventare una bella idea, paradossalmente un’idea non eccellente ma con un team capace può trasformarsi in una bellissima cosa.

Posso ammettere con orgoglio che il nostro è un paese ricco di grandissimi talenti e sarebbe ora che nascesse un’industria. Ad occuparsi delle vendite internazionali del film è Raitrade e stiamo ottenendo un successo straordinario. E questo perché l’eccellenza visiva di Catinari ha pagato, come l’eccellenza della Canonero, della scrittura. Avevamo un budget di 5 milioni di euro e abbiamo girato in 4k ottenendo una qualità visiva con cui non gira nessuno;  questa è la prova che si possono fare prodotti eccellenti senza bisogno di spendere sei o sette milioni di euro. Tutto ciò è avvenuto grazie all’esperienza televisiva: si pensa che fare fiction sia deteriore rispetto a fare cinema, in realtà sono due mondi che devono andare di pari passo. Questo film è la prova straordinaria di come anche per noi italiani sia possibile fare un film internazionale con un cast internazionale. Siamo andati in Cina a fare i casting, non è stato facile perché arrivare in Cina è scioccante, è un altro mondo, è grande, è stato come essere catapultati nell’Impero Romano d’Occidente, si sente l’odore del denaro, della potenza.

Il film è già stato venduto in America?
No, abbiamo fatto però un test screening a Los Angeles con un pubblico di eccellenza: c’erano Nancy Meyers, Steven Spielberg che non vedevo da 40 anni, da quando cioè ne avevo 18 e lo incontrai per la prima volta con in testa il sogno di fare il regista. Li ho invitati a vedere il film con un pubblico misto perché volevo sapere come avrebbe reagito l’intellighenzia hollywoodiana. Lo hanno visto anche al consolato cinese e ne sono rimasti entusiasti, ora aspettiamo che la settimana prossima lo veda l’ambasciatore cinese; ci sono buone possibilità che il film esca in Cina, anche se lì il problema è che il mercato americano ha completamente bruciato quello cinese. È un mercato dove non è per nulla facile lanciare un film europeo .

Sei pronto al vespaio che solleverà “Something Good”?
Mi assumo la responsabilità di tutto ciò che dico e che ho fatto. Le banche non sono volute entrare in questo film per delle ragioni specifiche, perché partecipate da gruppi come Nestlé o Philip Morris. Ma il mio non è solo un film di denuncia, alla Michael Moore: racconta una storia reale dentro un tema molto forte.

È stato semplice ottenere i permessi per girare a Hong Kong?
In alcuni casi ci siamo dovuti ingegnare come meglio potevamo. La scena del galoppatoio, ad esempio, è stata girata in un posto inaccessibile perché in mano alla triade della mafia, e solo l’incoscienza e il coraggio di noi italiani poteva venirci in soccorso. Insieme al direttore della fotografia ci siamo incollati tre macchine da presa e di notte abbiamo scavalcato la recinzione; siamo arrivati a bordo campo e abbiamo girato le scene. I dettagli invece sono stati ripresi di giorno con piccolissime telecamere in mezzo al pubblico; abbiamo praticamente rubato tutto. Lì non c’è polizia e se qualcosa va storto sparisci e basta! Ma non potevo rinunciare a dei luoghi che la censura non mi avrebbe mai dato. “Something Good” è un film di una qualità pittorica straordinaria grazie alla rivoluzione digitale che stiamo vivendo, una rivoluzione copernicana per cui i giovani potranno fare dei film con pochissimo: in futuro basteranno la scrittura, la capacità interpretativa e solo quattro o cinque persone.

Hai mai immaginato di affidare il tuo ruolo a una star americana?
Lo avevo proposto a degli attori italiani che però non volevano essere diretti da me, nello stesso tempo non avevo i soldi per permettermi una star americana. Così ho pensato a me. Con me stesso sono il regista più esigente, ho lavorato con Zhang battuta su battuta, sul sottotesto e sulle singole scene con una meticolosità che oggi è andata un po’ persa.

Avevi pensato al festival di Roma?
Certo, ma i festival italiani non mi hanno voluto, forse non eravamo alla loro altezza. All’inizio sembrava che ci dovessimo andare, forse poi hanno cambiato idea ed ora siamo felici di andare in sala. La possibilità di ripresa del nostro cinema deve passare dal genere. Se dovessi pensare a un film al quale mi piacerebbe somigliare e con cui il pubblico potrebbe forse trovare un’assonanza produttiva, è “La migliore offerta” di Tornatore: un film di genere, girato in inglese, con un cast internazionale. Se il pubblico che ha amato Tornatore andrà a vedere il mio film non rimarrà deluso.

di Elisabetta Bartucca per Oggialcinema.net

Luca BarbareschiSomething goodZhang Jingchu


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