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Sono tornato per dirti che me ne vado

Creato il 02 aprile 2015 da Leggere A Colori @leggereacolori

Ci sono milioni di posti e passiamo sempre per gli stessi, migliaia di musicisti e torniamo a cercare le stesse tracce, sparse, su dischi impolverati o file catalogati. Ci sono miliardi di possibilità e invece ci ripetiamo, abbiamo i libri di ricette e cuciniamo quei quattro piatti da cui dipendiamo da quasi una vita. Ci viene più comodo, familiare, riconoscere quel che conosciamo, sapere che se non sappiamo fare i granravioli con carciofi al profumo di timo una pasta aglio e olio ci salva sempre. I rischi son pochi, come le nostre vocazioni, come quelli che sanno l’ingrediente segreto. Torniamo in fretta dentro le nostre definizioni, che poi fuori, devi farti un bel po’ di domande e c’è la gente che fa la fila per rispondere prima che tu possa pensarci. Consumiamo confini ma non siamo carcerati, guai a chi lo pensa, stiamo scegliendo di starci dentro. Questa è la nostra libertà. Non si misura mica in metri. La libertà è uno strumento e si giudica come tutti gli strumenti: se funziona, da quanto è esatta, non da come la sai usare.

 

- Come stai?

- Tutto ok.

- Ma io dicevo…

- Era per fare in fretta. Cosa c’è per cena?

 

Ma da quando le piastrelle sopra la cucina son sbiadite? Lei si muove nel suo pigiamone largo. Che è un letargo programmato. Se l’avessi visto prima di innamorarmi, lei non sarebbe entrata in casa. Sorrido. Non ha niente di sexy, se non che da dietro vedo un pezzetto dell’elastico delle mutandine, bianche. E insomma, qualche chilo è finito pure lì, ma è sempre una gran donna. Un po’ grande e un po’ incompresa. A volte proviamo a tradurci ma non son le parole, inesorabili sono i pensieri figli di logiche diverse, abortiti, non riconosciuti. Sono tutti dentro a testamenti silenziosi.

A volte proviamo ad aspettarci, come si aspetta l’ora al passaggio dell’ora legale, per ripartire sincronizzati. Alla pazienza abbiamo più o meno tirato la corda. L’odore dell’amido della pasta che scola mi ricorda che questa è casa. Non è una famiglia ma è casa, l’ultimo avamposto prima del resto del mondo che siccome è dall’altra parte diventa nemico. Sentimenti da trincea, apparecchiati su una tovaglia di plastica a fiori su cui la nonna Pina, che ha solo tovaglie di stoffa sbiadite dal sole imperativo della Sicilia, non mangerebbe.

Traffica con i piatti, il mio stomaco in una morsa. Non riesco a definirci. Cosa-siamo-in-questo-momento. Le definizioni in amore tolgono la magia alle cose, una volta che trovi l’etichetta ti senti a posto, ti senti arrivato, pronto a essere riconosciuto. Ci viene più comodo, familiare, riconoscere quel che conosciamo. Farsi domande significa essere disposti a mettere in discussione, a prendere a calci gli equilibri ad ammettere che fino ad adesso non si è saputo davvero.

 

- Ti è piaciuta la pasta?

- Sempre, amore.

- Quel borsone che ho visto in camera a che ti serve? Hai ripreso a giocare a calcetto?

- No, è che quel. No, è vuoto.

- Ah, e a che ti serve?

- Devo metterci il resto.

- Quale resto? Perché fai il misterioso?

- Tu aspetta, e intanto vieni qui.

 

Diluiamo le tragedie che devono durarci una vita. Tutte sparpagliate nell’oroscopo di oggi e domani di Paolo Fox. Tutto a una velocità così assurda da sembrare immobile e tu alla finestra come un gatto ripeti a voce alta che l’amore ha sempre ragione. Noi siamo quelli che ci crediamo. Noi siamo quelli che non hanno capito niente. Le tende si chiudono con un gesto, il tuo petto è come la pista 6L/24R di Los Ageles, spostata di dieci gradi. Ci atterro, sotto il peso muoiono le tue parole. Mani ventose sul mio petto, scappi di nemmeno un centimetro. Sono tocchi che un pianoforte odierebbe.

Cosa-siamo-in-questo-momento. Nei tuoi occhi devo trovare la risposta.

La tua pelle striscia come una carta di credito, siamo entrambi davanti all’addebito più grande. Hai una Venezia nei suoi giorni peggiori tra le gambe, e io taglio i tuoi canali, ti capovolgo per scambiarli per pioggia. Buttiamo fuori a secchiate le nostre manie di grandezza cercando di ricordare quel sapore intimo che ci ha sempre fatto crollare. Abbordata in un giorno di pioggia asciutta, in una sera alcolica per astemi quella volta che anche Saturno era d’accordo, finita, per sbaglio. Sorrido.

I tuoi occhi si srotolano come carta da parati dietro cui c’è carta da parati pronta a rivelare generazioni di carta da parati. Muori, di piacere, di dolore, controcorrente e non ti interessa niente. Forse è questo che siamo allora, qualcosa che non arriva mai. Ti carezzo il collo.

 

- Quel borsone che hai visto mi servirà per molti anni. Stasera andrò a costituirmi e mi tratterranno lì per un bel po’.

- Ma… che dici? Costituirti per cosa?

- Per averti uccisa.

 

Le mani pesano sul collo. Dio aveva progettato l’amore come un ballo ed invece a volte ci muoviamo nei lavori forzati. Un minuto senza aria. Un velo nero. Non un’unghia smaltata si sbecca. I tocchi di lei sono quelli che un pianoforte amerebbe.

Cade la linea. Saltano gli abbonamenti, gli affitti al numero 235/b non li paga più nessuno. Anche le boccette di Chanel numero 5 sono sotto sequestro ma non è il set di un film americano. Poi solo una metà di ricordi struggenti, un tiro a segno con gli ultimi attimi di quella che ci lanciano in aria come “normalità”. Manca una cosa. Un “devo andare via ora”, ma eri tu.

Nota dell’autore

Perché un marito che torna a casa da lavoro un giorno qualsiasi uccide la moglie? Le risposte sono tante quante le situazioni combinate alle persone in circolazione, forse, e non sono mai banali. Io non le conosco, lascio ai criminologi il compito di analizzare, studiare, comprendere, insegnare. Vi ho voluto parlare di una di queste combinazioni, viva e morta, nella mia fantasia. Ossessione, gelosia, infelicità, presa di coscienza con conseguente rifiuto di una realtà che la donna rappresenta: sono possibilità.

“Tutte le società patriarcali hanno usato –e continuano a usare- il femminicidio come forma di punizione e controllo sociale sulle donne” (Diana Russel, criminologa). C’è qualcosa che cambia, in pochi attimi, nell’uomo che pensa di vantare diritti sulla vita di una donna, e definire questo prodotto violento semi infermità mentale è una spiegazione giuridica che la giustizia delle nostre coscienze non può accettare.

Attraverso il protagonista di questa storia ho voluto ricordare come alcuni uomini soppiantano il coraggio di andare via e di sentirsi sconfitti con la forza fisica.

Dedico questa piccola storia al coraggio delle donne che non son riuscite a lottare, o l’hanno fatto senza che fosse abbastanza.



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