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SOTTO IL VELO NIENTE | SUL VELO ovvero QUANDO SONO I GENITALI A FARE LA SOSTANZA

Creato il 23 settembre 2014 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

velobannerdi Giuseppe Maggiore

 

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Chi indossa il velo non veste nulla ma copre tutto. Salvo poi scoprire nel gran stupore generale che, sotto sotto, dietro quel velo non c’era proprio un bel nulla da nascondere o da preservare, nessuna identità che possa dirsi tale, nessuna vera consapevolezza di sé, della propria dignità come persona; scosta, solleva, svela e scopri che lì sotto c’è soltanto un soggetto oggettualizzato, tanto anonimo quanto interscambiabile, ad uso e consumo di un soggetto altro a cui si è deliberatamente assoggettato. Saresti quasi tentato di rimettere il velo lì dov’era, con buona pace dell’intera questione velo non velo. Ma procediamo con ordine, e cerchiamo di svelare anche l’identità di questo soggetto altro, alias colui che il velo impone. L’uomo (l’individuo di sesso maschile) che veste comodamente come più gli aggrada, seguito tre passi indietro dalla sua donna avvolta come un fagotto da capo a piedi (in nome di una presunta legge dell’appartenenza a una cultura e a un credo), ecco, quest’uomo non può dirsi uomo, e andrebbe piuttosto considerato un soggetto ugualmente inconsistente. Ciò che lo distingue dall’involto che si trascina dietro e che lo ha dispensato dal portare quel velo è semplicemente il fatto di essere fallo-dotato. La differenza tra i due è in definitiva nient’altro che un mero dettaglio anatomico, null’altro che questo, quella cosuccia che sta in mezzo alle gambe. E quando a determinare il ruolo e il destino di una persona è soltanto una questione di pene o vagina, quando sono i genitali a fare la sostanza e non la persona che li detiene, allora non si dovrebbe più parlare di uomo e di donna, ma piuttosto di organismi viventi come ve ne sono infinite altre specie sulla faccia della terra. Siano essi di sesso maschile, siano essi di sesso femminile, questi esemplari sono al contempo fautori e vittime delle loro alienate esistenze. Come darsi una ragione dell’incredibile revival che ha avuto negli ultimi anni l’uso del velo tra le donne dei paesi arabi? Dopo l’11 settembre del 2001 questa riappropriazione ha registrato un’ampia adesione anche da parte delle adolescenti figlie ormai dell’Occidente, di quell’Occidente in cui i loro nonni e i loro genitori fuggirono lasciandosi alle spalle guerra, fame, miseria e ogni genere di violenza e oppressione. La chiamano orgogliosa riaffermazione della propria cultura, della propria religione e dei valori ad esse sottesi. Sarebbe questa una risposta alle ondate xenofobe e alle tante discriminazioni di cui sono state fatte oggetto nei paesi occidentali. Intanto che ci vivono e che continuano a far uso dei tanti benefici che quest’Occidente ha prodotto in termini di leggi, servizi, strutture, prodotti tecnologici ecc. oppongono il velo e i dettami della sharīʿah come superiore modello di moralità e di integrità e ne rivendicano la tutela e il riconoscimento in ogni ambito della vita sociale. Contrapposizioni che hanno luogo a suon di rivendicazioni e ostentazioni. Le religioni, tutte nessuna esclusa (compresi i culti materialistici), plasmano le menti quando queste son ancor fanciulle, le catechizzano già in età prepuberale per assicurarsi che attecchiscano bene e che fruttino abbondantemente a tempo debito, determinando così un danno educativo per la gran parte irreparabile. Facile colpevolizzare la velata o il consorte che le appone il velo prima d’uscir di casa; le responsabilità vanno ricercate nella cultura madre, nella religione misogina e sessuofobica e in quelle convenzioni sociali che ne sono derivate.

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Veli, burqa, crocifissi… non se ne esce più. Che ne è di quell’uguaglianza tra gli uomini predicata, molto sotto sotto, da ogni religione? Si è divisi in nome di un credo, quando questo travalica la sua dimensione personale per divenire ideologia di un popolo e di una nazione. La religione militante, sempre pronta a nuove crociate, ci rende diversi e divisi davanti a quel Dio che dovrebbe averci fatti tutti uguali, uomini e donne, uguali per dignità almeno. La religione che espande i propri tentacoli ovunque possa guadagnarsi una nuova porzione di controllo sulla persona, appropriandosi anche degli spazi della società civile, lì dove a prevalere dovrebbe essere soltanto la tutela dell’individuo libero di poter compiere le proprie scelte in ogni sfera che lo riguardi. Un esercizio di potere guadagnato attraverso il millenario dominio delle coscienze, e che troverà sempre appoggio e complicità presso i governanti di ogni nazione. Perché si sa che niente si rivela tanto efficace quanto il far leva su certe credenze da cui l’uomo non si è mai definitivamente emancipato, quando c’è da tenere a bada un popolo trasformato in gregge o da inaugurare una nuova guerra. E va da sé che quando una dottrina diventa Legge non promette mai nulla di buono. Sarà sicuramente una legge fatta per un popolo di sudditi, per un gregge, per una massa resa succube del dogma, dell’ideologia, delle convenzioni; un gregge perfettamente omogeneo, passivo, assoggettato e docile ai comandi. Non c’è legge che non debba servire a tutelare ogni persona, uomo o donna che sia, avendo come ineludibile premessa i principi inviolabili di uguaglianza e di parità; non c’è legge che non debba promuovere la piena realizzazione e il maggiore benessere della persona, senza distinzioni di sorta. Ma una legge che stabilisce delle disuguaglianze, che crea discriminazioni e ingiuste esclusioni, non è una buona legge, non è un sistema di valori di cui andar fieri, andrebbe bensì rigettata, in nessun caso tollerata, combattuta con ogni mezzo. Tanto più se una legge civile si serve della religione, traendo da questa la sua forza e la sua piena legittimazione. Il risultato è quasi sempre una minaccia che mina le fondamenta della democrazia, anche quando questa sembra aver raggiunto in un dato paese livelli altissimi e apparentemente ben consolidati, cedendo il posto al fondamentalismo di stampo teocratico e dittatoriale. Il fascismo non è uno spettro del passato, così come non lo è il fondamentalismo religioso che ammorba soprattutto le tre più diffuse religioni monoteiste. Entrambi si affinano, cambiano strategie, concedono qualche zona franca al libero dibattito tra le diverse idee, riuscendo benissimo anche a mascherarsi di democrazia. E intanto si perpetuano, e con astuzia agiscono continuamente attraverso le più subdole strategie. È proprio quando il livello di guardia si abbassa che queste forze operano meglio, preparandosi ben rinvigorite a un nuovo attacco, demolendo ciò che è stato frutto di lunghe e sofferte conquiste civili, arrestando ogni processo di avanzamento della società civile.

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È storia di ieri e di oggi; uno sterminato campo di battaglia tra un germogliare di forze progressiste e il ciclico risveglio di forze retrograde e conservatrici sempre pronte a ricorrere al loro antico armamentario di veti e anatemi. Ecco perché la storia non esiste in quanto processo lineare di avanzamento, ma esiste solo il reiterarsi di lezioni mai definitivamente apprese. Non c’è conquista che si sia ottenuta una volta per tutte, non c’è alcun bene che sia trasmissibile per sempre; certe vittorie vanno riconquistate, volta per volta, generazione dopo generazione. La tignola è sempre in agguato, prospera ovunque c’è un bene che viene custodito e per troppo tempo lasciato inutilizzato. Così è di certe conquiste civili, così è di certi diritti acquisiti, così è di certe apparenti certezze. L’accumulo di ricchezze, di conquiste, di riconoscimenti è cosa vana se dopo non se ne fa concreto godimento, materia di reinvestimento costante, generosa elargizione atta a salvarlo dalla stagnazione ed a far spazio a nuove e rigeneranti acquisizioni. Questo è valido per il singolo uomo come lo è per la società nel suo insieme. Quello del riconoscimento dei diritti civili alla persona umana è un processo lungo e faticoso, che anche nei traguardi raggiunti, proclamati e sottoscritti non manca il più delle volte di essere disatteso, rimanendo per molti aspetti una formale dichiarazione di principio, lettera morta. Non sono bastate tante guerre e guerriglie, non è scorso abbastanza sangue, non c’è stata sufficiente sofferenza, affinché si possa finalmente e definitivamente affermare la piena tutela della persona da ogni forma di discriminazione o di sopraffazione. L’evidenza di ciò ci viene offerta dai tanti e frequenti esempi di ritorno – o di permanenza – al passato che possiamo intercettare ovunque vi sia un individuo che si lasci agire da un credo, da un’ideologia, da una tradizione, senza il più delle volte essersi quanto meno sforzato di passarli al vaglio della ragione, ponendoli in giudizio circa la loro portata su un piano prettamente umano. Di questi individui dalla cieca adesione se ne contano a dismisura, interi eserciti, e sembra proprio di trovarsi di fronte a esseri privi di personalità e di autodeterminazione, a dei non-individui, che altro non sono se non un clone del passato, la brutta copia dei loro padri. Se l’uomo e la donna altro non sono che due sessi, due entità separate, se altro non sono che due corpi che ne segnano il discrimine, quale concetto di umanità se ne può desumere? I dati della cronaca nera domestica parlano chiaro, in Oriente come in Occidente (secchiate d’acido, lapidazioni e stupri punitivi da una parte e femminicidio dall’altra).

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Dal velo (inteso in una connotazione più ampia) non si salva neppure la tanto “emancipata” e sofisticata donna in carriera occidentale: togli metri e metri di tessuto e aggiungi litri e litri di silicone (o botox, o collagene, o altre diavolerie), e il risultato non cambia. Non un velo dunque ma una patina, non accessoria e rimovibile ma ormai strutturale, femminile; la prassi cosmetica, insieme a tutto il corredo di protesi ai piedi, alle unghie, alle labbra, ai capelli, ai seni (e l’elenco potrebbe continuare a oltranza) fa della “donna moderna” una mera variante della talebana tout court. Il problema non sta tanto nel velo in sé o nel botox in sé, quanto nel fatto che a subirne le pressioni ideologiche siano solo, per la stragrande maggioranza, gli individui vagino-dotati; ben venga un’intera cultura in burqa, purché le palandrane vestano indiscriminatamente uomini e donne (e magari anche animali domestici compresi), e ben venga un’altra intera cultura che avanza sculettando sui tacchi a spillo, purché sui trampoli ci finiscano anche gli uomini! Se la legge è uguale per tutti, se la follia è condivisa allora il problema paradossalmente non si pone più. Il dramma sorge, prepotente, quando i ruoli della vittima e del carnefice si fanno ben distinti a priori, già decisi a monte, e nelle culture contemporanee, purtroppo, la donna è spesso doppiamente vittima: vittima dell’ideologia dell’uomo fanatico di turno e vittima di se stessa in quanto complice, suo malgrado, delle dinamiche dell’assoggettamento. Più il concetto di donna-femmina si stempererà in quello di persona e più la civiltà potrà realmente definirsi tale. Scoprire, svelare, togliere il velo. Spogliarsi, finalmente, di ogni impostura. Non sono forse i fantasmi ad agitarsi sotto i lenzuoli? Messa a nudo la verità si manifesta in tutta la sua limpida trasparenza. Le religioni rivelate sono mali necessari, e così certe assurde tradizioni e cattive abitudini che si trascinano dietro da secoli, ma i tempi ora forse sono sufficientemente maturi per iniziare la svestizione, nel nome di una Civiltà necessaria, irrinunciabile. La donna, in particolare – così avvolta, appallottolata in una sottocultura che la vuole più femmina-madre che persona – farebbe bene ad affrancarsi sia dai burqa d’Oriente che dai botox d’Occidente. Alla faccia del progresso, dell’uomo sulla Luna e del bosone di Higgs, gli anacronismi sono sempre in agguato, pronti a riconfigurarsi con rinnovata energia.

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Questa la triste moda del momento: vestirsi d’ideologia, un’ideologia ripescata dal morto passato, essa stessa morta e priva ormai d’ogni ragion d’essere. Ricorrere al nulla di simboli ormai privi del loro reale significato per travestire il nulla che si è. Vuoti sembianti privi di storia e di consapevolezza; esseri ignari di sé che si rivestono di pseudo-sacre uniformi ben inamidate illudendosi con ciò di star solcando grandi cieli, quando invece stanno semplicemente sguazzando nelle putride acque di un mar morto. Come definire altrimenti certa nostalgia d’un passato che si era obliato di morte naturale e che dista da noi una o più generazioni? Al rispetto di certe tradizioni, alla loro rigida osservanza, non si perviene solo attraverso i dettami impartiti da una generazione all’altra. Può accadere, ed è inquietante, che anche da una famiglia evoluta e guarita da certi estremismi, possa venir fuori una ragazzina desiderosa di riallacciarsi alle vecchie convenzioni dei nonni, magari colpita dall’effetto nostalgia o dal disagio avvertito nei confronti dei coetanei in un Paese comunque percepito come straniero. È questo il caso narrato da Leila Djitli, giornalista di origine algerina trapiantata a Parigi, nel libro Lettera a mia figlia che vuole portare il velo. Ne riportiamo qui un passo molto indicativo: «Il velo ha dunque due funzioni: nascondere gli ornamenti e distinguere la donna dalle altre in modo da non venir offesa. Vuoi portare il velo. Dunque, seguendo la prescrizione del Corano, pensi di dover nascondere i tuoi ornamenti, essere distinta dalle altre e non venir offesa. Innanzitutto, cosa si intende per ornamenti? Gli ornamenti sono i gioielli, gli abiti, gli accessori, tutto ciò che fa parte dell’abbigliamento femminile. Chi ha detto che i capelli, il viso, o qualunque cosa che fa parte del corpo di una donna sono ornamenti? Non lo sono! Il corpo non è un ornamento. La bellezza stessa non lo è! Non ci si può ornare con la bellezza! È il Creatore stesso a farcene dono. D’altronde, nessun versetto, nessuna sura fa menzione del viso o dei capelli. Ti sfido a provarmi il contrario!» La Djitili tocca inoltre un punto importante quando afferma che «Il velo o il tanga non sono che le due facce della stessa medaglia: in entrambi i casi, si chiede alle donne di tenere le fila della sessualità maschile.» Il vero dramma si palesa quando certe manifestazioni di ritorno al passato si concretizzano in riproposizioni più estreme e deleterie tra quanto esso abbia mai prodotto, specie quando ciò avviene non sotto spinte coercitive ma come un deliberato atto volontario. Inutile sottolinearlo che alla base non vi è che una grassa ignoranza, tanto del passato quanto del presente. L’inquietante revival del ritorno al velo, sbandierato da certe donne (invasate, agite da un sistema di pensiero evidentemente più grande delle loro capacità di discernimento) che lo rivendicano fieramente alla stregua di un diritto, sembra prepararci a una sorta di neo-legittimazione della schiavitù, dell’assoggettamento di certi soggetti ad altri soggetti, in una parola: la barbarie.

È importante che il dibattito rimanga acceso e che non si taccia sul presente e sul futuro di queste, più o meno consapevoli, vittime predestinate. Non velare, dunque, ma svelare. Avvicinarsi quanto più possibile alla nuda verità. Laddove per nudità s’intendano non culi e tette, ma la sincerità laica della persona civile. Giù il velo!

Giuseppe Maggiore

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