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Sotto lo sguardo attento del cane dai quattro occhi

Creato il 16 aprile 2015 da Salone Del Lutto @salonedellutto

Alcune di quelle ancora in attività si trovano a Mumbay, sulla collina residenziale di Malabar Hill, ma non è detto che chi abita a poche centinaia di metri da lì ne sia felice. Sto parlando delle torri del silenzio, utilizzate tuttora – ma sempre più raramente – dai parsi. E proprio da queste costruzioni dal fascino perturbante inizieremo oggi un lungo viaggio fra le tradizioni funerarie del mondo. Le torri del silenzio, o meglio le dakhma, vanno ricondotte a una religione antichissima, conosciuta anche col nome di “zoroastrismo”, se come riferimento si prende il nome di colui che l’ha fondata, il profeta Zarathustra o Zoroastro, o di “mazdeismo”, nome che deriva invece da Ahura Mazdā, l’unico dio, il creatore del mondo sensibile e sovrasensibile. Anche in uso, per identificare i fedeli di questa religione monoteista affascinante e complessa è il termine di “magi”. L’origine non è difficile intuirla: Melchiorre, Gaspare e Baldassarre, i tre sacerdoti che fecero visita a Gesù portandogli doni preziosi erano infatti sacerdoti zoroastriani.

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Ma forse, pur avendo speso tutti i nomi che conosco per definirli, parsi, zoroastriani, mazdei e magi continuano a dire poco. Eppure, la storia di questa religione è stata florida e ricca. Nell’antichità, il mazdeismo era una delle religioni più sviluppate e diffuse: i suoi fedeli si trovavano in tutta l’Asia centrale, nell’antica Persia (Iran), in Pakistan, in Arabia Saudita. Poi, in seguito all’invasione islamica dell’Iran, molti di essi fuggirono in India, dove furono accolti, pare, grazie all’abilità di un sacerdote, che persuase il re indiano Jadi Rana semplicemente zuccherando un bicchiere di latte.

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Parlare dei parsi su queste pagine ha senso, da un lato perché si tratta di una religione sempre più votata all’estinzione – secondo le stime attuali sarebbero meno di 200.000 e alla loro sopravvivenza non giovano politiche ortodosse, refrattarie ad accettare le conversioni e i figli di matrimoni misti. Ma soprattutto ha senso se si prendono brevemente in esame i loro riti funebri. Ne ho ancora qualche vago ricordo dall’università, quando frequentai il corso di Storia delle religioni e nel corso monografico mi ritrovai a passare in esame diverse pratiche di inumazione, cremazione, salamoia e via dicendo.

Questi ricordi vaghi mi riportano a un cane con quattro occhi, cioè un cane che abbia due macchioline scure sulla fronte al di sopra degli occhi, che secondo il testo sacro dell’Avesta avrebbe la funzione di sorvegliare il morto e la sua anima. Mi ricordo poi che si usa urina di vacca per purificare le lastre di pietra su cui il corpo è stato riposto e spruzzata sulla strada per cui passano i portatori, che conducono la salma alla sua ultima dimora. Il ricorso a questo particolare elemento, cui è attribuito un grande potere purificatore è dovuto al fatto che il cadavere, proprio come avviene in altre religioni monoteiste, è ritenuto fra le cose più impure.

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Proprio l’impurità del cadavere persuase lo zoroastrismo a volerlo tenere a distanza dagli elementi più puri, che in alcun modo avrebbero dovuto essere contaminati: il fuoco, il che impedisce la pratica della cremazione; la terra, il che impedisce invece la pratica dell’inumazione; l’acqua, il che impedisce che la cerimonia funebre avvenga in un giorno di pioggia. Il sistema escogitato dagli zoroastriani ha dell’incredibile e può affascinare o atterrire per sempre. Dipende dai punti di vista. Il cadavere è trasportato da uomini completamente vestiti di bianco – i nasâsâlâr – che marciano in coppia, in silenzio. Il corteo è guidato da due sacerdoti fino a destinazione, la torre del silenzio, appunto, dove i nasâsâlâr scoprono il volto del cadavere e lo portano in cima alla torre, dove lo spogliano completamente. A quel punto, a occuparsene saranno gli avvoltoi, cibandosi del cadavere addirittura per un anno, finché esso non è completamente scarnificato.

Oltre alle torri ancora in funzione, ne esistono altre inattive da tempo. Si tratta di costruzioni abbastanza uniformi, la cui struttura non ha subìto significative modifiche nel corso del tempo. Sono strutture cilindriche, alte una decina di metri e con la copertura piatta. In alto, il bordo perimetrale è lievemente rialzato, e il tetto è suddiviso in anelli concentrici: su quello esterno si depongono gli uomini, sul mediano le donne, su quello centrale i bambini. Al centro del tetto c’è un’apertura, dove finiscono le ossa una volta che gli avvoltoi, il sole e gli agenti atmosferici non avranno completato la loro funzione. Questa è la fine dei resti mortali.

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Ma gli zoroastriani credono nell’esistenza di un dopo. L’anima (urvan) del morto passerà infatti sopra il Ponte delle anime e si incontrerà con la sua daēnā («la somma dei pensieri, delle parole e delle azioni di un individuo, una sorta di karma che assume le sembianze di una fanciulla splendida o di un’orribile strega secondo quanto questi ha fatto in vita di bene o di male) e, sottoposta al giudizio di un tribunale, sarà destinata al paradiso, all’inferno o al limbo. Poi risorgeranno anche i corpi luminosi e brillanti, in un tempo perfetto che, secondo la dottrina Molé, concederà il perdono anche ai dannati, e in cui uomini e donne potranno unirsi senza procreare e non si ciberanno più di carne, le tenebre saranno dissolte, il fuoco brucerà senza fumo.

di Silvia Ceriani

Fondamentale, per la stesura di questo articolo è stato il mio vecchio testo universitario: Giovanni Filoramo (a cura di), Storia delle religioni, vol. 1, 1994. Altrettanto fondamentale, per recuperare dettagli sui cani a quattro occhi e sull’urina di vacca, il sito www.avesta.org


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