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Space worms

Creato il 10 febbraio 2015 da Media Inaf

Questa volta non sono wormholes, come quello di Interstellar: sono worms e basta, insomma i classici vermi. Ma come i cunicoli spaziotemporali imboccati nei film di fantascienza come scorciatoie verso remote zone dell’universo, anche questi umili nematodi potrebbero servire a esplorare nuovi mondi. Non riducendo i tempi di trasporto, purtroppo, ma aiutando gli astronauti a viaggiare più sicuri. E a comprendere meglio le eventuali conseguenze a lungo termine della loro permanenza nello spazio. Conseguenze che potrebbero estendersi anche ai futuri figli.

È infatti per studiare la biofisica della microgravità, e in particolare la trasmissione di alterazioni da una generazione all’altra per via epigenetica, che un team di ricercatori della University of Delaware ha reclutato una squadra di Caenorhabditis elegans (C. elegans per gli amici) – il verme più amato dai biologi, secondo solo, fra gli organismi modello, alla graziosa Drosophila melanogaster – con l’intenzione di spedirli al più presto nello spazio. Entro due anni, questo il loro auspicio.

Per ingannare l’attesa, li hanno messi nel “clinorotatore”. Che non è una versione per vermi della mitica centrifuga del Centro d’addestramento per cosmonauti di Star City, anzi: proprio il contrario. Quella è fatta per allenare gli astronauti ad affrontare situazioni di forte accelerazione. La clinorotazione, invece, serve a simulare la microgravità: i vermi vengono posti in un contenitore rotante e riempito di liquido, così da far loro sperimentare una sorta di caduta libera, un galleggiamento a gravità ridotta. E non di poco: circa un decimo di quella terrestre, più o meno come su Plutone.

Se la scelta d’un verme come “organismo modello” al posto d’un astronauta può stupire, gli scienziati del team garantiscono che C. elegans ha tutte le carte in regola per svolgere il delicato compito. Circa il 70% dei geni presenti nel Dna di un qualunque C. Elegans – che, val la pena sottolineare, ha esattamente 959 cellule, 302 delle quali nervose – li possiamo ritrovare anche nel Dna, per dire, di Samantha Cristoforetti. Ed è proprio ai geni che gli scienziati sono interessati. Perché se è vero che le specie viventi che hanno soggiornato a bordo della ISS non sembrano essere andate incontro a complicazioni fatali dovute alla microgravità (piante, animali e microbi si sono tutti mostrati in grado di sopravvivere), dal punto di vista biologico i cambiamenti registrati sono notevoli.

«Probabilmente ciò è dovuto al fatto che questi organismi si stanno adattando a un nuovo ambiente, e uno fra i possibili meccanismi di adattamento sta nelle alterazioni dell’epigenoma: una combinazione di Dna (genoma) e proteine ​​istoniche associate», spiega Chandran Sabanayagam, del Delaware Biotechnology Institute, «una sorta di impalcatura biologica che mantiene il genoma ben avvolto e compatto. Le proteine ​​istoniche hanno estremità che possono essere marcate chimicamente così da funzionare come interruttori, in grado di ordinare alla cellula se attivare o meno i geni circostanti. E a differenza della sequenza del genoma, che di solito richiede molte generazioni per essere cambiata, la marcatura degli istoni può essere alterata anche nel corso di una sola generazione».

In effetti, i risultati presentati oggi in anteprima, a Baltimora, nel corso del meeting annuale della Biophysical Society, mostrano chiare differenze fra l’epigenoma dei vermi cresciuti in normali piastre di Petri e quello degli individui sottoposti a microgravità. Differenze significative, sottolineano gli scienziati: molti dei geni il cui meccanismo di regolazione è influenzato dalle alterazioni epigenetiche osservate sono coinvolti nello sviluppo della muscolatura e nella riproduzione.

Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Malaspina


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