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Spazio profondo: il nuovo corso di Dylan Dog nasce dall’ultima frontiera

Creato il 03 ottobre 2014 da Lospaziobianco.it @lospaziobianco

dylancopertinadylancopertinaAnnunciato oltre un anno fa, è partito con il numero 337 in edicola a fine settembre il nuovo corso di . Il curatore della testata, , ha lanciato questa “fase due” investito “papalmente” da Tiziano Sclavi in persona, alla conferenza stampa della Sergio Bonelli Editore tenutasi lo scorso 26 settembre, ventottesimo anniversario dell’esordio del primo numero della serie e data della scomparsa, tre anni fa, di Sergio Bonelli.

Spazio Profondo è un albo che ha in sé differenti e molteplici livelli di lettura, partendo fin dalla copertina, frutto della collaborazione tra lo stesso Roberto Recchioni – che ne ha disegnato i primi bozzetti – e Angelo Stano. L’artista ha trasformato le indicazioni e i suggerimenti dello sceneggiatore e di Sclavi in un’immagine definita da un’essenza – quasi assenza – di colori: il corpo nudo di Dylan, adagiato in uno “spazio vuoto” in posizione fetale, rappresenta senza ambiguità l’idea della rinascita del personaggio; rinascita che passa attraverso una “manipolazione genetica” e necessaria per la testata.  Rinnovato è anche il logo al quale Paolo “Ottokin” Campana, già autore della grafica di Orfani, ha aggiunto delle trasparenze, in modo da renderlo più leggero e dare maggiore rilievo ai toni cromatici della copertina.
Un’altra innovazione la troviamo in seconda di copertina dove la tradizionale immagine del Quarto stato “mostruoso” che ci ha accompagnato fin dall’esordio della testata, viene sostituita da un surreale paesaggio golcondiano, popolato da tanti Dylan e Groucho.

Passando al contenuto dell’albo, l’intuizione è stata quella, per introdurre il nuovo corso, di creare uno starting point ideale per eventuali nuovi lettori mediante la realizzazione di una storia completamente fuori dalla (non) continuity del personaggio, una sorta di ideale numero zero che marcasse un reset, anzi per essere espliciti un vero e proprio reboot.

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A ciò si aggiunga che l’ambientazione temporale della vicenda potrebbe essere usata di nuovo successivamente; potrebbe anche diventare una sorta di obiettivo finale della prima nuova stagione dell’indagatore dell’incubo, aprendo le porte, per esempio, a una esplorazione del mondo dal quale gli spettri spaziali provengono, elemento appena accennato in chiusura del numero.
È il 2427, un presente fantascientifico. C’è un’astronave spaziale, un cargo prigione  infestato da spettri da portare in salvo; il compito spetta a Dylan Dog, o meglio a una replica software della sua personalità basata sulle memorie originali del personaggio e impiantata in un organismo androide, che viene sviluppata in cinque modalità diverse. Quattro dei cinque organismi artificiali sono la rappresentazione esasperata di un aspetto specifico della personalità originaria o la sua negazione, vuoi che sia la sua ipersensibilità o la sua non violenza; il quinto clone è il fedele replicante dell’essere umano originale. È questo il più evidente inserto meta narrativo dell’albo: l’esplicita rappresentazione delle caratteristiche fondamentali del personaggio, quelle che lo definivano nelle storie di Sclavi, quelle che ne hanno decretato il successo, quelle che è necessario recuperare.

La dimensione della storia è senza dubbio filmica: sembra di guardare un film di fantascienza, sporcato di splatter con graffiature di distopico. La narrazione per immagini è di kubrickiana memoria (Kubrick, in quanto fotografo teneva particolarmente alla “fotografia” dei suoi film e quindi alla resa dell’immagine):

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come in 2001 Odissea nello spazio, anche in questo albo abbiamo una serie di stati visivi supportati dai dialoghi. Gli autori hanno giocato molto sulla resa delle immagini, sfruttando la luce e il colore, per caricare di tensione i passaggi narrativi, usando numerosi close up, campi lunghi, riprese dal basso e inquadrature di dettagli, come per esempio nella sequenza dell’incontro-scontro con Groucho.

Tornando un momento sui dialoghi – dopo una spiegazione iniziale, sul contesto e sulle vicende, eccessivamente lenta – essi accompagnano con dinamismo l’azione: battute serrate, brevi e dirette, tipiche dello stile dell’autore romano.
L’albo funziona bene proprio nella costruzione dell’impianto narrativo, dove Roberto Recchioni è riuscito a riproporre, senza cadere nella maniera, il classico meccanismo presente nelle storie dell’indagatore dell’incubo di Tiziano Sclavi, che decretarono a suo tempo il successo della testata.
La vicenda si basa dichiaramente su una serie di citazioni (le più evidenti, per non elencarle tutte, il già citato Kubrick di 2001 Odissea nello Spazio e il Ridley Scott di Alien), ma le opere citate vengono disassemblate per raccontare qualcosa con un significato diverso dall’originale. In questo modo lo scrittore strizza l’occhio al lettore, lo invita su un terreno di conoscenza comune, ma gli offre anche significati nuovi e originali.
Nello specifico di questa storia, il lettore può riconoscere, nelle scene a bordo del cargo prigione, la citazione che gli autori fanno della pellicola fanta-horror di Ridley Scott; tuttavia la citazione presente nelle sequenze narrative, nelle inquadrature, nelle atmosfere viene caricata di un significato diverso dall’opera originale.

Bloch
Bloch
Non la snatura, ma semplicemente la destruttura per usarne gli elementi principali, già presenti nell’immaginario collettivo dei lettori, per raccontare una storia diversa.1
Sulla stessa linea si pongono i riferimenti dell’autore al “passato” del personaggio, una sorta di autoreferenzialità comunque efficace che si ritrova nelle citazioni da Il fantasma di Anna Never, come nella presenza, seppur mostruosa, di personaggi quali Bloch, Bree e Groucho.

Anche il finale aperto richiama alla mente alcune delle storie migliori del personaggio; è atteso, ma al tempo stesso spiazzante e ci ribalta in un limbo tra la vita e la morte, che sovverte tutte le leggi spazio-temporali che apparivano certezze della vicenda. È la giusta conclusione, colma di dubbi, che pare essere posta lì a chiudere un ciclo e ad aprirne altri, all’infinito. Dylan Dog che nasce, vive e si distrugge per rinascere nuovamente, in ogni storia, in tutte le storie; nuovo, vecchio, originale, clone: sempre diverso e sempre uguale.

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Di contro, altri aspetti dell’impianto narrativo risultano, se non meno efficaci, certo più scontati, una sorta di cliché automatici che Recchioni tende a riproporre sovente nelle sue storie: ecco che il clone militarizzato di Dylan, con le sue enormi pistole e il suo gergo militare tipico dello stereotipo cinematografico, il generale dell’impero di Albione e la solita assistente asiatica risultano essere tra gli elementi meno riusciti del racconto.

L’inusuale dimensione spazio-temporale della vicenda è resa da Nicola Mari con il suo tipico tratto deciso, marcato e spigoloso, che efficacemente si fonde con i colori pieni, corposi e acquerellati di Lorenzo de Felici.
L’albo ha avuto una gestazione particolare dal punto di vista grafico: pensato da Roberto Recchioni per essere illustrato da Mari, è stato poi assegnato temporaneamente a Massimo Carnevale, per poi fare ritorno alla fine nelle mani dell’artista originario. Da evidenziare soprattutto è la presenza di un’evoluzione dello stile di Nicola Mari: l’utilizzo di retini particolari che permettono di evidenziare i contrasti tonali dati dall’aggiunta del colore.

Spazio profondo dunque è un buon inizio per il nuovo ciclo di Dylan Dog: una dichiarazione d’intenti che regala una lettura piacevole e che sembra promettere al lettore che le nuove storie dell’indagatore dell’incubo potrebbero regalarci di nuovo un personaggio innovativo come quello che debuttò in edicola quasi trent’anni fa.

Abbiamo parlato di:
Dylan Dog#337
Roberto Recchioni, Nicola Mari, Lorenzo De Felice
Sergio Bonelli Editore, Settembre 2014
98 pagine, brossurato, colore – 3,20 €
ISBN: 977112158000940337

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