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Sponz Fest : La diaspora diventi risorsa – il turismo delle radici. Rapporto sull’Irpinia

Creato il 26 agosto 2014 da Giovanni Pirri @gioeco

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di Toni Ricciardi

Nell’Italia a più velocità, nel Mezzogiorno differenziato, persiste un elemento che unisce identitariamente tutti: l’emigrazione. Si può discutere e schierarsi pro o contro il revisionismo di Pino Aprile, scegliere di essere neoborbonici o filo sabaudi, padani o leghisti a vario titolo, ma indubbiamente, dalla Valle d’Aosta a Lampedusa, siamo stati e siamo il popolo migrante per eccellenza. Poi si può declinare il concetto in maniera diversa, eliminandone, in base al punto di vista il suffisso “emi” o “immi”, declinarlo in forme diverse – parlando di mobilità, fuga o diaspora – ma in fondo il concetto rimane lo stesso.

In questo quadro, la provincia di Avellino si riconferma inesorabilmente protagonista, insieme ad altre province dell’entroterra meridionale, con i sui oltre 104.000 iscritti all’Aire. In aggiunta, in alcune aree dell’Irpinia, il processo di desertificazione demografica e sociale rischia di diventare irreversibile. D’altronde già nel 2008 il Rapporto elaborato da Confcommercio-Legambiente sul disagio insediativo prevedeva che, a partire dal 2016, molte aree interne, soprattutto quelle del Mezzogiorno del paese, corressero il rischio di diventare “paesi polvere”. Purtroppo le previsioni di questa analisi, che si basa sul ventennio 1996-2016, vengono riconfermate annualmente anche dal Rapporto”Italiani nel mondo” della Fondazione Caritas-Migrantes.

La fotografia che emerge di parte dell’Irpinia riconferma, se non aggrava, quanto già emerso nelle edizioni precedenti. L’Alta Irpinia e con essa quella che ormai è stata ribattezzata l’Irpinia d’Oriente, continua progressivamente a svuotarsi. I dati purtroppo ci confermano in tutta la loro tragicità come in queste aree il processo di desertificazione, legato al disagio insediativo, sociale e occupazionale, sia quasi irreversibile. Mentre altre aree della provincia – la fascia dei Comuni intorno alla città capoluogo ed il baianese – crescono a ritmi da boom economico, anche se le ragioni non sono queste, nel resto della provincia di Avellino, dal 2007 ad oggi, perdiamo un piccolo Comune di 2000 abitanti l’anno. D’altronde non è un caso che nella classifica dei primi 100 Comuni campani, analizzando sia la percentuale d’incidenza (rapporto tra residenti nei Comuni e residenti all’estero) che quella in termini assoluti, l’Irpinia conquisti questo amaro primato regionale. Nel primo caso nelle prime 100 posizioni troviamo ben 44 Comuni della provincia, dei quali 26 hanno un tasso d’incidenza superiore al 50%, con picchi che vanno dal 142,6% di Cairano, al 118,5% di Conza della Campania, al 113,6% di Teora, fino ad arrivare al 100simo posto occupato dal 38,7% di Montemarano. Sull’altro versante, quello delle presenze in termini assoluti, continuano a prevalere i dati di Comuni dell’Alta Irpinia: Sant’Angelo dei Lombardi (3.373), Montella (3.250), Lioni (2.795) e Nusco (2.748); che risultano rispettivamente in 5°, 6°, 12° e 14° posizione.

Il dato complessivo della sola presenza all’estero, oltre ad allarmare – anche se questa è una costante in crescita a partire dalla metà degli anni Novanta che si aggrava progressivamente durante l’arco dell’ultimo decennio – ci fornisce anche un’ulteriore chiave di lettura. Azzardando delle stime, scientificamente accettabili, possiamo affermare che la presenza reale degli irpini nel mondo si aggiri introno al mezzo milione. La cifra si raggiunge sommando agli oltre 100.000 attuali, perlopiù sparsi in Europa, tutti gli oriundi (seconda, terza e quarta generazione), in questo caso, prevalentemente presenti nelle Americhe e in Oceania, dove vige il principio dello ius soli, ovvero, dell’acquisizione di cittadinanza per nascita.

Ci riferiamo a persone che nella maggior parte dei casi non parlano nemmeno più l’italiano, ricordano a stento qualche espressione dialettale (ormai in disuso nei minuscoli borghi irpini) e che sono state una o più volte in vacanza in Italia, nelle città d’arte o nelle mete turistiche più famose, ma che non conoscono il paesino dal quale partirono tanti decenni fa i propri avi. Questo dato viene confermato nel 2011 dalla Banca d’Italia, la quale ha ritiene che oltre 70milioni di persone dall’estero (e tra di essi per più della metà sono italiani o oriundi) si sono recati in Italia di passaggio o per trattenersi uno o più giorni. Inoltre, quando si parla di made in Italy o di italian style occorre ricordare come questo si sia affermato durante 150 anni soprattutto attraverso la rete dei consumi degli italiani all’estero. Il dato ci viene confermato, ad esempio, dalle recenti ricerche di Vittorio Daniele e Nicola Ostuni, dove si dimostra come l’export di prodotti alimentari sia cresciuto esponenzialmente all’aumento della presenza degli italiani all’estero. Sul versante invece dei viaggi di ritorno, tema centrale di questa riflessione, già negli anni Novanta l’antropologa italo-australiana, Loretta Baldassar ci dimostra come il “turismo familiare” o delle “radici” attragga sempre crescenti numeri di italiani ed oriundi nel suo Veneto, con ricadute in termini economici non trascurabili. Infatti, non è un caso che le regioni che maggiormente investono in questo segmento di promozione territoriale legato alla riscoperta delle proprie radici familiari, usanze alimentari, tradizioni sociali, siano Veneto, Piemonte, Lombardia e Liguria, tutte regioni di antica emigrazione. Queste, insieme alla Toscana e all’Umbria, sono le stesse dove è da decenni forte la presenza di Musei e centri che si occupano del fenomeno migratorio. Per quanto riguarda il Mezzogiorno, tolto l’esperimento della “Nave della Sila”, progetto di un museo rievocativo nella Sila curato da Gian Antonio Stella e da Mirella Barracco e la rete dei piccoli musei siciliani, nulla è stato fatto, nonostante l’ambizioso progetto del Museo dell’emigrazione che doveva sorgere all’Immacolatella Vecchia, nel cuore del porto di Napoli.

Si comprende facilmente come sia giunto il momento di intervenire e di ribaltare il paradigma di una piaga, quale quella migratoria, in risorsa propulsiva per questo territorio. Le strutture vuote, sia nella città di Avellino che nell’intera provincia non mancano. Come non mancano centri di ricerca e musei a vario titolo, che potrebbero essere facilmente integrati ed arricchiti e visti in una chiave diversa.

Il target al quale noi dovremmo rivolgere la nostra attenzione sono le seconde, terze e quarte generazioni, che hanno, sì, sentito parlare della terra d’origine dei propri avi, ma che di fatto ogniqualvolta vengono a fare un viaggio in Italia, non vanno oltre Roma, Firenze e Napoli o Capri.

Offriamo loro la possibilità di conoscere i luoghi dai quali sono partiti i propri nonni o bisnonni, ed invogliamoli a riscoprine le tradizioni, la gastronomia, la cultura. Insomma, realizziamo non solo un semplice museo, bensì la casa della riscoperta del passato dei tanti che hanno proiettato le nostre radici al di là dell’Oceano e in mezza Europa.

Come si evince, con una semplice idea, si riuscirebbero a rilanciare diversi aspetti sui quali la politica dibatte tanto, ma che non sempre riesce ad inquadrare nella veste giusta. Cos’è questo se non sviluppo territoriale, promozione dei prodotti tipici e delle specificità culturali, connesse alle storie dei tanti e tanti che a stento hanno sentito la parola Avellino, pur essendone a pieno titolo cittadini.

Di seguito la sintesi dell’Emigrazione dalla Provincia di Avellino dall’Unità ai giorni nostri.

Emigrazione. Peculiarità territoriale

La provincia di Avellino, in particolar modo l’Alta Irpinia, non si caratterizza solo per essere un’area ad alto tasso sismico (il più famoso è quello del 1980) bensì, anche come territorio soggetto, nelle diverse fasi della storia dell’emigrazione italiana, ad alti tassi di espatrio.

Il periodo in cui per la prima volta si registrano dati di una certa rilevanza numerica rispetto agli espatri, è ascrivibile a dopo il 1880, con scarse 1.000 partenze, le quali cresceranno in media sulle 3-4mila unità all’anno fino a ridosso del 1900. In questo primo ventennio i flussi saranno diretti, prevalentemente, verso il centro America (Messico) e l’America Latina, in particolar modo Brasile e poi Argentina. A partire dal nuovo secolo, e nell’arco di un quindicennio (1900-1915) si avrà una netta prevalenza degli espatri verso gli Stati Uniti, con una media annua che oscillerà tra le 12.000 e le 18.000 partenze l’anno, toccando il picco di oltre 20.000 partenze nel 1902. In definitiva, nel periodo tra il 1880 e il 1915, la provincia di Avellino ha subito oltre 280.000 partenze, equamente suddivise tra i tre circondari di Ariano Irpino, Sant’Angelo dei Lombardi ed Avellino, con rispettivamente un tasso di espatrio del 22%, del 30% e del 40%. La fase tra le due guerre mondiali, oltre ad essere caratterizzata dal blocco e dalla legislazione fascista in materia di emigrazione, non ci offre dati in merito, solo stime. Stando a quest’ultime, si stima che non più di 25.000 irpini modificarono la propria residenza. A partire dal secondo dopoguerra, le partenze riprenderanno con vigore, attestando la provincia di Avellino quale prima provincia campana in termini d’incidenza sulle partenze.

Lo spopolamento dell’entroterra meridionale

Nel 1950, mentre si chiudeva per il Mezzogiorno l’epoca segnata dal dominio dei proprietari terrieri a livello economico, sociale e politico, si aprì una nuova fase nella storia del Sud: essa vedrà definirsi nuovi equilibri sociali e politici che non avranno più al centro la terra, le campagne, i contadini, bensì la voglia di formare una diffusa proprietà coltivatrice. I limiti di tale impostazione riaffioreranno qualche anno dopo, nel 1957, quando l’avvio del Mercato comune europeo (Mec) provocherà un esodo di enormi proporzioni dalle campagne del Sud. Nonostante l’avvio di questa nuova fase, le condizioni nel Mezzogiorno erano disastrose, simili a quelle della fase anteguerra.

Un primo indicatore del divario di sviluppo tra le regioni del Mezzogiorno e quelle del Centro-Nord lo possiamo riscontrare nel principale indicatore economico, il PIL per abitante, il quale offre un’immagine della persistenza e dell’immutabilità del sottosviluppo meridionale. Nel 1951 il PIL corrispondeva al 54% rispetto a quello del Centro-Nord. Inoltre, alcuni dati complessivi ci confermano come, agli inizi degli anni ’50, il divario tra Nord e Sud del Paese fosse tutt’altro che attenuato. In altre parole, mentre gli anni ’50 si aprono nel segno dell’intervento straordinario da parte dello Stato – Cassa per il Mezzogiorno, Ente di riforma agraria e legge sulle aree industriali (1957), la quale puntava nella prima fase alla realizzazione delle infrastrutture e delle opere pubbliche e nella seconda nell’industrializzazione del meridione – il divario resta fortemente presente. Infatti, analizzando alcuni indicatori quali, ad esempio, il consumo di carne, di energia elettrica, il possesso di apparecchiature radiofoniche, la condizione della povertà, notiamo come la spaccatura tra il Sud e il Centro-Nord, sia ancora considerevole. Inoltre, al Sud era notevolmente marcato l’analfabetismo, corrispondente a cinque volte la percentuale del Centro-Nord. Insomma, il Mezzogiorno era ancora prevalentemente agricolo, con ampie sacche di povertà e cospicui tassi di analfabetismo, anche se il problema scolastico non riguardò solo il Sud del Paese. Per quanto concerne quest’ultimo aspetto, basti pensare che, un decennio dopo, nel 1961, soltanto il 18% della popolazione parlava abitualmente l’italiano. Il sistema scolastico continuava ad essere fortemente esclusivo e classista, programmato ad arte per allontanare i figli delle famiglie povere, benché sia da rilevare l’aumento degli studenti. In una simile cornice, si intuisce come un numero molto alto di giovani continui a scoprire il mondo del lavoro a 14 anni e anche prima, al termine delle elementari. Si tratta spesso di ragazzi che provengono dalle campagne e sono destinati a tornarci dopo aver frequentato qualche anno di scuola, malgrado la nuova Costituzione repubblicana preveda l’istruzione obbligatoria sino a 14 anni.

Restando ancora sulla questione meridionale, possiamoindividuare il problema dell’agricoltura del Mezzogiorno, ed in modo particolare nelle terre dell’osso, nella sua sovraoccupazione. Con questo termine non ci riferiamo tanto al peso percentuale degli addetti in agricoltura sul totale dell’occupazione, sebbene questo dato faccia certamente parte del quadro, bensì, ad un eccesso di occupazione tecnicamente necessaria al comparto stesso che generò, insieme alla politica dei “coltivatori diretti”, una produzione tecnicamente inefficiente.

Questa altro non è che l’analisi di Rossi-Doria, il quale ritornò spesso sulla questione, attribuendo lo squilibrio di fondo tra popolazione e risorse proprie dell’economia meridionale alla contrapposizione tra le terre della polpa e dell’osso. Se questa era l’analisi, secondo Lilia Costabile, il rimedio da lui proposto consisteva in una duplice manovra, che Rossi-Doria stesso contribuì non solo a definire, ma anche a mettere in atto: rivestì, infatti, un ruolo da protagonista nella formulazione delle linee della Riforma agraria (pur con notevoli riserve rispetto ai modi della definitiva attuazione delle Riforma stessa). Tale manovra comportava, da un lato, il frazionamento del latifondo e la creazione di una piccola e media azienda contadina assistita nella fase del decollo, dal punto di vista tecnologico e, per questa via, messa in grado di funzionare efficientemente; e, dall’altro, contemplava, soprattutto dalla zona dell’osso, l’emigrazione, considerata come un’inevitabile necessità per conseguire lo sfollamento delle campagne. E, dunque, l’emigrazione era funzionale all’alleggerimento del settore agricolo dal peso dell’eccessivo numero di braccia e avrebbe portato al conseguente aumento di produttività. Nel fare un bilancio del fenomeno migratorio a metà degli anni ’60, Rossi-Doria definì l’esodo rurale apertosi nel periodo 1950-55 come un: “[…] processo irreversibile e sostanzialmente liberatore”. Tale giudizio, sostanzialmente positivo, non fu mai smentito, neppure quando a metà degli anni ’70il movimento migratorio toccò quota 5 milioni. Nonostante questo però, Rossi-Doria non si stancò mai di denunciare la condizione “vergognosa” in cui avveniva l’esodo degli emigranti, abbandonati a se stessi e privi del minimo sostegno, sia nei luoghi di origine che in quelli di partenza.

In definitiva, se durante gli anni del boom economico, l’Italia cambiò allineandosi lentamente agli altri paesi europei, ciò avvenne anche nel Mezzogiorno –anche se a velocità totalmente diverse. Infatti, nelle terre dell’osso, ovvero nelle zone di montagna e di collina, come quelle ad esempio dell’entroterra campano, calabrese, lucano e molisano, la riforma agraria stentò, e probabilmente non riuscì mai, a modificarne la caratteristica strutturale: la miseria. Miseria che venne così descritta, in un’indagine del 1959, svolta da Lidia De Rita a Manopello, e riproposta da Guido Crainz nella sua Storia del miracolo economico: “[…] l’acqua scarseggia: non solo quella potabile, che viene distribuita una volta al giorno, sia d’estate sia d’inverno, con un’autobotte […] ma anche quella per gli altri usi domestici […]. Inutile dire che nelle case non c’è corrente elettrica e l’illuminazione è generalmente ad acetilene o ad olio”.

Se le caratteristiche e le peculiarità delle zone interne del meridione furono solo parzialmente scalfite dalla riforma agraria, l’emigrazione, invece, ne decretò il lento e progressivo declino, tanto da farle rientrare oggi, a distanza di un cinquantennio, ancora in cima alle classifiche delle zone ad alto disagio insediativo. In questo lasso di tempo, per il Sud non ci fu solo l’emigrazione all’estero, in particolar modo in Svizzera, Francia, Belgio e Germania. Gli spostamenti interni (1955-70) tra zone di campagna e città, tra Sud e Nord del Paese, interessarono ben 25 milioni di italiani. Di questi, oltre 10 milioni cambiarono regione di residenza1. Inoltre, fra il 1958 e il 1963 i meridionali che si trasferirono al Centro-Nord furono poco meno di un milione. A svuotarsi, in primo luogo, sono le aree di montagna e di collina, le case isolate, le frazioni e i nuclei abitativi sparsi (vi vive 1 italiano su 4 nel 1951, meno di 1 su 5 nel 1961, 1 su 8 nel 1971). Mentre, nel decennio 1951-61, il 70% dei Comuni italiani perde i suoi abitanti ed il grosso degli aumenti di popolazione si registra nelle città del triangolo industriale e nella capitale. Per quanto attiene il meridione, in questi anni reggono, solo parzialmente, il confronto, Napoli ed alcune zone della Puglia, come ci ricorda Danilo Dolci, nelle sue celeberrime inchieste in Sicilia.

In conclusione, nonostante l’intervento straordinario dello Stato, attraverso la Cassa per il Mezzogiorno, la Riforma agraria, i progetti e le leggi per l’industria nel Sud e in “montagna”, la questione meridionale non fu mai risolta: si acuì, ancor di più, il divario tra Nord e Sud del Paese.

In un simile quadro, all’interno dell’elemento territoriale caratteristico ed emblematico dellaterra dell’osso, rientra l’Irpinia, nella quale i risultati della riforma agraria furono totalmente deficitari.

La zona del cratere prima del sisma del 1980

In questo quadro di riferimento, appena brevemente tracciato, come possiamo contestualizzare la provincia di Avellino? Ed, in essa, la zona del cratere nel periodo che va dal 1951 al 1971? In particolare, quali erano le caratteristiche di chi partiva in questo periodo? Analizzando i dati dell’inchiesta sull’occupazione della popolazione campana, negli anni 1951, 1961,1971, è interessante notare come le percentuali degli addetti all’agricoltura in Alta Irpinia subiscano una lenta diminuzione. Nonostante il tasso risulti più alto rispetto alla media nazionale, nel ’71 i coltivatori diretti sono pari al 22%, contro il 33% del ’61 e il 42% del ’51. In linea di massima, possiamo tranquillamente affermare che, per tutto il secondo dopoguerra, l’emigrazione da questa area fu caratterizzata dalle partenze dei poveri contadini. Se si analizzano i tassi di disoccupazione (anni ’51,’61,’71), lo stupore è ancora maggiore. Infatti, mentre gli addetti al settore primario diminuiscono in modo esponenziale, il tasso di disoccupazione segue la tendenza inversa. Si passa dal 47% del ’51, al 49% del ’61, fino ad arrivare al 58% del ’71. In altre parole, l’emigrazione si prospetta quale unica soluzione percorribile. Infatti, analizzando il saldo netto migratorio dei Comuni appartenenti alla fascia A (18 per la provincia di Avellino), per il periodo 1951-71, esso è pari al 29,76% (64.172 unità) con un’incidenza di ben il 133,51% sull’incremento naturale della popolazione. Ciò significa, in pratica, che i flussi migratori, oltre ad assorbire per intero l’incremento demografico, hanno intaccato direttamente lo stesso patrimonio di quei Comuni per il restante 33,51%. In altre parole, il saldo migratorio raggiunse proporzioni allarmanti. Se nel caso della provincia di Avellino esso non supera il 27,74%, per quei pochi paesini delle province di Potenza e Salerno arriva a toccare quasi il 40%. Calcolando che, ad esempio per quanto riguarda il salernitano, i paesi rientranti nella fascia A sono solo 9, si comprende come ci si ritrovi di fronte a veri e propri spopolamenti.

Per quanto attiene alla provincia di Avellino, se si prendono come riferimento i dati dei censimenti del 1961 e del 1971 e ci si sofferma esclusivamente sui Comuni disastrati, ci si rende subito conto di come, nell’arco di un decennio, si siano manifestate esclusivamente variazioni in negativo. Infatti solo il capoluogo (Avellino) e Solofra (0,9%), in maniera irrilevante, hanno subito variazioni in positivo. Escludendo il capoluogo irpino, per lo stesso motivo per il quale nella precedente tabella è stato fatto per Potenza, i dati cambiano totalmente. Si passa dal +1,4% allo sconcertante –12,6%, fino a toccare la punta massima nel caso del Comune di S. Mango sul Calore con il 22,5%.

Analizzando la situazione nel complesso provinciale e distaccandosi dalle classificazioni post-sisma, per il periodo 1961-71, prendendo come limite massimo la perdita del 10% di popolazione nell’arco di un decennio, si nota come ben 77 Comuni su 119 perdono oltre il 10% di popolazione e solo 12 Comuni fanno registrare un segno positivo.

Ad un’analisi dei dati, si nota come, se nel 1961 la popolazione della provincia di Avellino corrispondeva a 465.623 abitanti, dieci anni dopo essa scende al di sotto delle 430.000 unità; per restare pressoché uguale vent’anni dopo, nel 1981.

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L’Irpinia a trent’anni dal terremoto

Sono passati da poco trent’anni dalla tragica sera del 23 novembre 1980. Molte cose sono cambiate, molte speranze sono state deluse e tradite. Non spetta a noi, in questa sede, fare delle valutazioni su come siano state spese le ingenti cifre – oltre 30 miliardi di euro (pari ad una manovra finanziaria) – su quanto alto sia stato il costo di ogni chilometro di asse viario realizzato e non ancora realizzato; su quanto sia costato ogni posto di metalmeccanico creato grazie agli incentivi statali e quanto questi soldi abbiano agevolato l’imprenditoria del Nord del Paese. Non tocca a noi valutare il reale impatto della fiatizzazione e dell’intero indotto in Irpinia, soprattutto oggi che grossa parte di questo indotto vive l’amara realtà della cassa integrazione e delle probabili chiusure (caso Irisbus). Non tocca a noi valutare le ridefinizioni dei tanti piccoli centri storici che in nome di nuovi modelli abitativi e dei tanti soldi che sono arrivati per la ricostruzione, molti amministratori locali non hanno avuto scrupoli nell’abbattere. Non tocca a noi valutare se un reale progresso ci sia stato e se questo sia stato accompagnato da un reale sviluppo. Come non spetta a noi valutare quante e quali generazioni hanno usufruito del miracolo terremoto, oppure, quanto risulti paradossale in zone sismiche come queste correre il rischio di vedersi cancellare ogni presidio ospedaliero di base.

In questa sede a noi spetta il compito di valutare e mettere in correlazione il fenomeno migratorio che ha interessato la realtà territoriale in questione, osservandone in modo criticol’evoluzione, ma soprattutto verificando cosa è accaduto e cosa hanno prodotto tanti sforzi in una pur minuscola realtà territoriale del Mezzogiorno d’Italia. In altre parole, analizzando in rapporto con i dati antecedenti il sisma del 1980, come e se si è arrestato l’ingente flusso migratorio, che fa della provincia di Avellino, appunto, la prima provincia campana come tasso d’incidenza.

Già nel 2010, a distanza di 30 anni dal terremoto dell’80, emergeva chiaramente come 55 Comuni perdessero oltre il 10% di popolazione. Con percentuali che oscillavano dall’oltre 56% di Cairano, al 40% di Montaguto e Morra de Sanctis; inoltre, ben 31 Comuni registravano perdite oltre il 20% rispetto all’immediato post-sisma.

Inoltre, è significativo notare da un lato l’interconnessione con i dati del decennio antecedente il sisma, ma soprattutto come tutti i Comuni della fascia A, ad eccezione di Lioni (+9,4%), Solofra (+24,1%) e S. Michele di Serino (59,4%), continuino a perdere popolazione.

Tracciando sinteticamente un parziale bilancio della vicenda migratoria irpina, possiamo tranquillamente affermare che oramai non si può più parlare di inarrestabile processo emigratorio, bensì risulta più corretto parlare di desertificazione inarrestabile, in particolare per quanto concerne l’Alta Irpinia.

Infatti, negli ultimi cinque anni ci sono state oltre 10.000 nuove iscrizioni all’Aire. Si è passati dai 90.944 iscritti del 2007 ai 100.916 del 31 dicembre 2011. Se di queste, il 30% sono nuove iscrizioni per nascita all’estero e, se aggiungiamo un 10% c.a. di riallineamenti dei dati effettuati dalle anagrafi comunali, la provincia di Avellino ha visto verso l’estero, stando ai dati ufficiali, oltre 6mila partenze nell’ultimo cinquennio. Inoltre, stando a diverse indagini indipendenti, solo 1 italiano su 2 si iscrive, nonostante l’obbligatorietà, all’Aire.

Quindi rispetto al 2010, nel 2011 l’Irpinia vede aumentare il proprio contingente verso l’estero di 1000 unità. Duplicando il dato e aggiungendo ad esso c.a. il 30% di mobilità interna, che di fatto compensa lo stesso dato relativo alle nascite all’estero, possiamo tranquillamente affermare che la provincia di Avellino perde un piccolo Comune di 2mila abitanti l’anno.

Riassumendo, analizzando il trend nell’ultimo decennio della provincia di Avellino – la quale stando a dati (ancora provvisori) dei censimenti 2001 e 2011 passa complessivamente dai 431.179 ai 430.292 – possiamo asserire che il deficit demografico viene interamente assorbito dalla presenza degli stranieri regolari, che sono complessivamente c.a. 12mila e rappresentano il 3% della popolazione residente.

1 Ugo Ascoli, Movimenti migratori in Italia, cit., pp.109-143; Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica, 1943-1988, Einaudi, Torino, 1989, pp. 283-86.



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