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Squarci di settima arte: il cinema classico hollywoodiano

Creato il 20 febbraio 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

SQUARCI DI SETTIMA ARTE: LA STORIA DEL CINEMA IN DODICI EPISODI


II – IL CINEMA CLASSICO HOLLYWOODIANO

Quando si dice cinema classico si pensa al bianco e nero, alla bellezza spiazzante dei primi piani di divi entrati in un immaginario mitico che ci accompagna sin dalla nascita. Vengono in mente le diligenze legnose che corrono impazzite tra le dune della Monumental Valley, inseguite da indiani apache; i tramonti sudisti in cui Rossella O’Hara consuma la sua giovinezza; l’andatura timida e impacciata di Jimmy Stewart che corre per un paese innevato gridando a tutti buon natale.

Quando si parla di cinema classico si naviga verso un oceano quasi mitico di forme, parole, musiche ed emozioni, ci si confronta con un suggestivo universo artistico verso il quale è impossibile non provare un senso di riverenza e fascinazione. Un mondo capace di stregare e commuovere, di inghiottire chi guarda in una sorta di incantesimo affabulatorio, di stregare attraverso le smorfie ombrose di Humprey Bogart e di far brillare gli occhi del pubblico semplicemente con i passi di una danza sgangherata e felice sotto la pioggia.

E a ben guardare, quando si discute di cinema classico si apre un ventaglio di riflessioni, teorie, ipotesi e congetture che investono il campo artistico come quello filosofico, la prospettiva tecnica come quella sociale, il passato, il presente, il futuro.

Quando comincia il classico? E quando finisce (o meglio – alla luce dell’opera di autori contemporanei come Clint Eastwood sarebbe il caso di chiedersi – è davvero finito)? Come inizia e perché prende vita? E, alla base di qualsiasi altra considerazione, cos’è il classico? Quali attributi di quella serie magistrale di opere che dominarono circa trent’anni di cinema statunitense hanno contribuito a coniare quella denominazione?

Semplicemente, il termine rievoca quella secolare concezione delle forme artistiche nate nel territorio lussureggiante dell’antica Grecia e in seguito destinate a fama imperitura.

Classico indicava allora come oggi quei criteri di equilibrio, proporzione, ordine, linearità e armonia su cui un tempo i greci e (molto…ma molto) dopo le case di produzione statunitensi impostarono le proprie opere, i loro percorsi di senso e i modi per trasporli.

Attraverso la macchina da presa, il montaggio e tutto il complesso armamentario di dispositivi tecnici di cui poteva disporre, la Hollywood dell’età d’oro diede forma compiuta a un’arte per le masse in cui tutto era subordinato alla narrazione. Un’arte capace di traslare sullo schermo un’illusione perfetta di realtà, celando agli occhi del pubblico la presenza del regista e dei suoi virtuosismi, garantendo all’intreccio un ritmo serrato, tale da strappare lo spettatore dalla condizione di voyeur in una sala buia per immergerlo in una sorta di allucinazione fantastica, occultando al massimo le tracce della manipolazione cinematografica per trasportare quelle masse sedute in poltrona con il capo appena alzato in un mondo diverso e per garantirgli un’immedesimazione completa nelle storie scritte dalla luce nell’oscurità delle sale di proiezione.

Al disordine quasi anarchico del primo cinema muto, definito ‘delle attrazioni’ per la sua capacità di ammaliare e stregare attraverso un flusso continuo di immagini, spesso svincolate da un ordine logico e gerarchico, il cinema che ebbe genesi a Hollywood nel 1930, per poi esaurirsi intorno ai primi del ’60, oppose una rigida canonizzazione delle forme e dei contenuti del racconto cinematografico.

Il classico si fondava sull’ordine analitico e temporale della narrazione, sul principio causale per cui ogni inquadratura motivava la precedente e chiamava in causa inesorabilmente la successiva, su una grammatica a misura d’uomo per la quale i personaggi – caratterizzati da psicologie piene e determinate, prive di zone oscure – andavano ad occupare il centro del quadro, riempendo le zone calde dello schermo, ovvero quelle verso cui l’attenzione dello spettatore era canalizzata in modo più intenso.

Ma il classico fu soprattutto il trionfo del cosiddetto decoupage o montaggio invisibile, incaricato cioè di legare i singoli quadri in modo da occultare le tracce della messa in scena, governato da una serie di regole imprescindibili, ideali per porre ordine nel caos indistinto delle immagini strappate alla realtà dalla macchina da presa. Regole rigorose in grado di sovrintendere ogni momento del racconto filmico: dalle norme dei 30° e 180°, per cui due inquadrature successive dovevano presentare una differenza di angolazione compresa tra quei due estremi di un ipotetico arco di circonferenza in modo da consentire allo spettatore una facile lettura degli eventi di scena, senza che questa lo spiazzasse con un cambiamento radicale di prospettiva (ciò che accadeva superando i 180°) o lo disorientasse con uno scarto minimo sul medesimo soggetto (il rischio in cui si incorreva montando due inquadrature riprese con una differenza angolare minore di 30°).

Perfino l’ordine di successione delle inquadrature all’interno del tessuto filmico era perfettamente organizzato e scandito, attraverso il sagace e lungimirante utilizzo della cosiddetta scala dei campi e dei piani, ovvero il vasto catalogo delle proporzioni in cui la macchina da presa è in grado di segmentare lo spazio circostante (il repertorio di “tagli” dell’immagine che ci permette di classificare un campo lungo e distinguerlo da un primissimo piano).

Il tipico film classico si apriva con il noto establishing shot, la ripresa totale – solitamente in esterni – del luogo in cui l’azione avrebbe preso avvio. Attraverso un graduale e progressivo avvicinamento alla figura umana, poi, il film passava dall’immensità sterminata di ambienti in cui le tracce antropomorfiche erano irrisorie o indistinguibili agli spazi dominati dall’uomo, giungendo nei momenti di massima intensità alla sublimazione del primo piano (PP), figura fondamentale per la Hollywood classica, data la sua incredibile capacità di esaltare i lineamenti del divo ed alimentare la fascinazione quasi mitica che questo destava nel mondo degli spettatori.

A questi obblighi tecnici, inoltre, il cinema classico aggiunse quello dei raccordi, procedure sintattiche destinate a legare e connettere inquadrature successive, sistemi che oggi possono apparire assolutamente ovvi (tanto sono acquisiti nel bagaglio culturale visivo occidentale), ma che al tempo assunsero una rilevanza praticamente incalcolabile nella genesi di una vera e propria estetica del film narrativo.

Così il raccordo di sguardo presupponeva che a un personaggio intento a guardare qualcosa seguisse sempre l’immagine dell’oggetto della visione, quello di movimento realizzava finalmente una perfetta continuità nella ripresa del moto di un soggetto, il raccordo sonoro stabilì che l’emergere di un suono fosse motivato dalla successiva ripresa della sua fonte.

Il cinema classico elaborò, a poco a poco, strategie decisamente convenzionali anche per rendere visivamente concetti complessi come lo scorrere del tempo. Il pubblico, ad esempio, imparò presto che la dissolvenza incrociata (ossia il lento svanire di un’immagine nell’altra) realizzava visivamente un’idea di simultaneità o continuità a breve termine, come comprese senza problemi che la dissolvenza in nero materializzava un senso di fine, rappresentava la conclusione di un episodio, di una sequenza, di un frammento e, dunque, rendeva l’idea dello scorrere di un tempo più lungo.

Spesso a questi segni di interpunzione cinematografici, alcuni registi preferivano soluzioni visive più concrete come il rapido susseguirsi dei fogli di un calendario o il ticchettio delle lancette di un orologio.

Tutto era progettato per garantire la perfetta comprensione di uno spettatore guidato per mano nel flusso del racconto, per molti critici ingabbiato in una visione predeterminata che alcuni cineasti americani e, soprattutto, le Nouvelles Vagues degli anni ’60 contribuirono a minare e distruggere per restituire al pubblico la libertà di muoversi a proprio piacimento nel tessuto filmico.

Questa pretesa di ordine e rigore è spesso associata unicamente all’idea di un cinema industriale, una fabbrica di speculazioni fatte di luce e celluloide, attraverso cui le grandi case di produzione (le cosiddette major) riuscirono a creare un nuovo prodotto di massa, caratterizzato da un fascino di cui tutti potevano usufruire e a cui in pochi riuscivano a resistere. Il che in parte è vero.

Ma almeno all’inizio, il cinema classico fu soprattutto la vibrante risposta a quella crisi del sociale che colpì l’America – e con lei tutto il mondo – dopo la Grande Depressione del ’29.

L’ansia di coordinare e organizzare le forme caotiche della nuova arte nata appena trent’anni prima canalizzò quell’esigenza di controllo della realtà che gli Stati Uniti sembravano aver perso dopo la crisi economica che li aveva messi in ginocchio.

Il cinema classico nacque come tentativo – americano – di rivendicare un potere forte sulla realtà quotidiana. A fronte di famiglie bisognose che non sapevano di che vivere e milionari ridotti al lastrico dal rovinoso crollo del ’29, Hollywood impose a quel reale che il cinema riusciva a strappare dalla contingenza del tempo attraverso la cinepresa un controllo imperante e rigoroso.

Questo portò inevitabilmente a una pianificazione organizzata dei contenuti narrativi: il cinema, strabiliante medium capace di parlare a un numero sterminato di persone, diventava un fondamentale cantore dell’ottimismo, della speranza di rigenerazione materiale e sociale di popoli e nazioni. Il che comportava alcuni corollari limitanti ma insostituibili: la sopraffazione del male da parte del bene (e di conseguenza il canonico happy ending), l’esclusione o la stigmatizzazione dei comportamenti immorali, criminali, smodati o comunque estranei a un protocollo canonico di giustizia e ordine sociale.

Questa tendenza si radicalizzò nel 1934 con l’approvazione del Codice Hays, definitiva normativa di regolamentazione dei criteri a cui le sceneggiature hollywoodiane dovevano sottostare per essere trasformate in film. Furono proibiti dallo schermo il turpiloquio, le scene di nudo, la violenza eccessiva, l’offesa e la ridicolizzazione della religione e della bandiera americana. L’omicidio e il sesso furono spinti al di fuori dell’inquadratura: era possibile evocarli ma non mostrarli direttamente.

La censura, così, insieme all’avvenuta canonizzazione della grammatica e della sintassi filmica, contribuì alla creazione di  veri e propri schemi di riferimento all’interno dei quali la narrazione – di volta in volta differente – poteva muoversi secondo strategie simili. Raggiunsero così la loro perfezione i generi, giganteschi calderoni di forme, situazioni, personaggi, contenuti e ideali ricorrenti, all’interno dei quali i registi innestarono i propri film, dando vita a quella che ancora oggi è considerata la stagione di massima fioritura del cinema hollywoodiano, quella in cui l’equilibrio tra il rigore industriale che plasmava le forme e il brio inventivo degli autori che di volta in volta impediva che diventassero stantie e ripetitive toccò il suo vertice più luminoso e insuperato.

 

Il mago di Oz (The wizard of Oz), Victor Fleming, 1939

Il mago di Oz (The wizard of Oz), Victor Fleming, 1939

 

Generi oggi in voga come il fantasy, la fantascienza e l’horror erano allora poco praticati per l’eccessivo dispendio di effetti speciali e risorse visive che richiedevano e perché spesso dominati da elementi che mal si adeguavano alla canonizzazione dei contenuti prevista dal Codice Hays. I risultati di maggior interesse, in questo senso, furono Il Mago di Oz di Victor Fleming, viaggio fantastico di una bambina in un regno abitato da spaventapasseri senza cervello, uomini di latta senza cuore e leoni senza coraggio, il celebre King Kong di Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack, i misconosciuti Ultimatum alla terra di Robert Wise e La cosa da un altro mondo di Howard Hawks, entrambi incentrati sulla figura dell’extraterrestre e sull’incontro-scontro di una civiltà aliena con quella umana. Molti presero a leggere da subito i film di fantascienza made in USA come una metafora dei velenosi terrori che dominavano gli Stati Uniti del dopoguerra , una rappresentazione mascherata della diffusa paura della minaccia atomica in un mondo bipolare.

Ben più praticato era il war movie, che radicava al suo interno due tendenze distinte, due modi lontani, forse paralleli, di intendere l’abominio del conflitto armato. Da un lato il film di guerra era realizzato per celebrare un patriottismo propagandistico, dall’altro scavava in profondità nei terribili retroscena dello scontro a fuoco e nell’interiorità devastata degli uomini costretti a prendervi parte, individuando l’orrore e il disagio di un’umanità alla deriva. Il primo gruppo di film bellici era caratterizzato da una linearità narrativa a cui veniva sottomesso lo scandaglio dell’anima dei protagonisti, il secondo procedeva invece rovesciando l’equilibrio dei film patriottici, dedicandosi più all’individuo che non all’accurata rappresentazione delle battaglie.

La distanza tra questi due filoni non è molto netta, ma può essere ravvisata nell’analisi dei protagonisti. In ogni film bellico hollywoodiano il personaggio principale andava incontro a una sorta di beau gest, un atto eroico capace di rovesciare la situazione e salvare di conseguenza un ampio numero di soldati – rappresentazione ristretta dell’America intera.

Nei film patriottici più convenzionali (quelli del primo gruppo, per intenderci) questo gesto eroico era compiuto in modo lineare, quasi spontaneo, come se fosse l’inevitabile conseguenza dell’essere americani. È quello che accade in opere come Iwo Jima, deserto di fuoco di Allan Dwan o All’inferno e ritorno di Jesse Hibbs, in cui i rispettivi protagonisti John Wayne e Audie Murphy (vero eroe americano della seconda guerra mondiale che interpretò le vicende che aveva vissuto in prima persona sul campo di battaglia) assumevano un atteggiamento patriottardo, carico di trionfalismo interpretativo, a tratti retorico. Wayne interpretava un sergente maledetto ma affezionato ai suoi soldati, teso verso una morte affrontata con onore e coraggio; Murphy una marionetta sfocata e auto-celebrativa, impegnato in uno sforzo eroico che troppo sapeva di propaganda.

Nulla in questi film prendeva una direzione inaspettata o incoerente con il codice d’onore che permea la gratificante apparenza del mondo militare.

Ben diversa è la struttura dei film bellici del secondo gruppo, in cui il gesto eroico dei protagonisti si allontana da un’idea tradizionalista e retorica di amor patrio ed è legato invece alla rivalsa, a un’anomalia interiore del personaggio, a un’eccezionalità morbosa dovuta a una problematica intima di solitudine, dolore, negatività. All’obbligo patriottico questo tipo di film bellico sostituisce la nevrosi comportamentale.

Nell’orrore generalizzato della guerra, nel clima di paura che rendeva gli uomini automi, il gesto eroico non era altro che un automatismo dell’uccidere, una reazione incontrollata di una mente impaurita, confusa e annebbiata. Così ne I sacrificati di Bataan di John Ford la solitudine che domina i protagonisti al comando (Robert Montgomery e John Wayne) è il discrimine che dà vita al loro spirito di sacrificio, e ne Il sergente York di Howard Hawks l’eroismo del personaggio interpretato da Gary Cooper non deriva da un nazionalismo patriottico, ma da una nevrosi psicotica e introspettiva. York, eroe statunitense della Prima Guerra Mondiale, viene dipinto come un fanatico religioso e un accanito lettore della Bibbia, tanto che sul campo di battaglia falcia i corpi dei nemici calandosi nel ruolo di un soldato ebraico dell’Antico Testamento. Esemplare di questo secondo gruppo di opere è poi il poco noto The red badge of courage (stupidamente tradotto in italiano come La prova del fuoco) di John Huston, la storia di un soldato scapestrato che prima – terrorizzato – molla il suo reggimento per ritirarsi nei boschi solitari, poi – pentito – torna sui suoi passi e travolge con la sua furia il campo di battaglia: un film che analizza la paura, la codardia e tutta la vasta gamma di sentimenti negativi che la guerra produce nell’uomo.

Dai conflitti armati a quelli del cuore: un altro dei generi più diffusi nella Hollywood dell’epoca d’oro fu il romance, il melodramma, animato da contrasti forti e romanzati, colpi di scena eccessivi e spesso inverosimili, risvolti romantici e orientati alla commozione generalizzata.

Il cantore privilegiato di questo genere fu senza dubbio Douglas Sirk, tedesco emigrato negli USA dopo l’ascesa al potere di Hitler, autore di film strappalacrime molto noti come Magnifica ossessione, Come le foglie al vento, Lo specchio della vita, sempre giocati su amori laceranti e squassanti, ostacolati da conflitti sociali o economici, da manovre oscure del destino impossibili da comprendere e superare, in cui la dinamica amore-morte è una costante imprescindibile.
Il melò fu tuttavia un genere particolarmente versatile ed alcuni suoi elementi, privati della carica eccessiva e stereotipata che rendeva i romance spesso indigesti, trovarono collocazione in altri generi, all’interno di impianti narrativi più ampi e complessi.

 

Via col vento (Gone with the wind), Victor Fleming, 1939

Via col vento (Gone with the wind), Victor Fleming, 1939

 

Basti pensare al film epico, il racconto di gesta, avventure, vite famose, episodi biblici, miti celebri o semplicemente periodi passati, più o meno recenti, ritratti con scrupolo rigoroso (con un dispiegamento di mezzi assolutamente spropositato), spesso nel tentativo di produrre una riflessione distaccata sulla contemporaneità. In questi kolossal il ricorso agli elementi del romance fungeva da chiave di volta per ravvivare un’azione altrimenti troppo legata a tematiche sociali, se non politiche.

Impossibile non pensare a capolavori imprescindibili come Ben Hur di William Wyler, Spartacus di Stanley Kubrick o Via col vento di Victor Fleming. Quest’ultimo in particolare fa dell’amore contrastato della giovane Rossella O’Hara il perno dell’azione stessa. La giovane, forte e orgogliosa sudista partecipa attivamente alle tappe della Grande Storia (dall’invasione di Atlanta da parte dei nordisti alle nuove dinamiche sociali post-Guerra di Secessione che modificarono per sempre il tessuto della popolazione statunitense) proprio rincorrendo il suo sogno d’amore, non scoraggiandosi di fronte alla distanza – fisica ed emotiva – di un sentimento impossibile e attraversato continuamente da vaghi sentori di morte e perdizione.

Lontanissimo dall’apparato dell’epica, ma non meno maestoso e suggestivo, appariva poi uno dei generi più noti e celebrati dell’industria cinematografica hollywoodiana: il musical.

Esso conservava una sorta di statuto a parte all’interno del sistema canonico dei generi che contribuiva a renderlo un (più o meno) libero territorio di sperimentazione. Nel musical la linearità narrativa e il principio causale, per cui ogni inquadratura doveva inevitabilmente giustificare la precedente e chiamare in causa la successiva, potevano essere temporaneamente aboliti per dar spazio e rilevanza alle coreografie danzate dei protagonisti. La continuità narrativa poteva essere interrotta, gli attori erano giustificati a guardare verso la macchina da presa, rivolgendosi direttamente al pubblico che assisteva nella sala buia (pratica assolutamente proibita nella restante parte della produzione classica perché colpevole di minare le certezze dello spettatore, interrompendo l’immedesimazione e ricordandogli di essere al cinema), la cinepresa aveva il diritto di liberarsi dell’ingombrante peso di movimenti predeterminati e rigorosi della classicità per lasciarsi andare a carrelli arditi, lunghi, originali e spiazzanti.

Ne nacquero capolavori frizzanti, immersi in scenografie esplosive e multicromatiche, carichi di innovazione, senso della meraviglia, brio stilistico, farciti senza sosta dalle voci e le danze di indimenticabili interpreti come Gene Kelly, Fred Astaire e Ginger Rogers.

 

Cantando sotto la pioggia (Singin' in the rain), Stanley Donen & Gene Kelly, 1952

Cantando sotto la pioggia (Singin’ in the rain), Stanley Donen & Gene Kelly, 1952

 

Proprio di fronte ai balletti eleganti e sinuosi del duo Astaire-Rogers, tra cappelli a cilindro e passi di tip-tap, almeno due generazioni di americani dichiararono amore eterno alla macchina delle meraviglie che aveva permesso loro di assistere a tali spettacoli. E milioni di persone in tutto il mondo tornarono bambini – e continuano a farlo – con occhi carichi di gioia ammirando il mitico Gene Kelly ballare circondato da un nugolo di pargoli in Un americano a Parigi, improvvisare il più bel “buongiorno” cinematografico di tutti i tempi in Singin’ in the rain, o duettare con il piccolo topino animato Jerry (della celebre coppia Tom & Jerry) in Due marinai e una ragazza.

Affine al musical per contenuto – non certo per forma compositiva – fu la commedia, universo tematico più che semplice genere, gigantesco schema di riferimento all’interno del quale l’immaginazione sfrenata di produttori, sceneggiatori e registi poteva trovare ampi margini di manovra.

Tradizionalmente la commedia classica giocava su un “incidente amoroso”: la cotta di un uomo per una donna irraggiungibile o viceversa, la forzata convivenza temporanea di due persone e il loro progressivo innamoramento, l’incontro-scontro di due personalità opposte.

La commedia fu probabilmente il genere più in voga nella Hollywood classica e molti registi si specializzarono in esso, contribuendo di volta in volta a rinnovarne le forme, evitando di farlo scadere nello stereotipo o nel già detto. In alcune occasioni, ad esempio, nella commedia furono inseriti spunti sociali o di attualità, producendo una satira accesa e scottante; in altre si preferì spostare l’azione in una sfera aristocratica, in un tentativo comico ma prepotente di denunciare uno stile di vita sterile e parassitario.

 

Quando la moglie è in vacanza (The seven year itch), Billy Wilder, 1955

Quando la moglie è in vacanza (The seven year itch), Billy Wilder, 1955

 

Uno dei migliori interpreti della commedia hollywoodiana fu Ernst Lubitsch, specializzato in una commedia sofisticata che sotto l’apparato fine, distinto e perfettamente calcolato di giochi di parole e allusioni costruì impietosi ritratti della società americana, del vizio nascosto sotto un’ipocrita identità di facciata (Mancia competente, Partita a quattro), ma anche satire politiche, feroci e innovative come quella diretta contro Hitler e il regime nazista in Vogliamo vivere!

Prossima a quella Lubitsch, ma più tarda cronologicamente, fu l’opera comica del geniale Billy Wilder, animata da note fortemente critiche e amare nei confronti della società che pretendeva di rappresentare. Basti pensare al divertentissimo A qualcuno piace caldo, in cui due musicisti disoccupati e inseguiti dalla mafia sono costretti a travestirsi da donne per guadagnare qualche dollaro con un’orchestra diretta in Florida; al sottile e sottovalutato Quando la moglie è in vacanza, che racconta di un marito rimasto solo nel caldo della metropoli, attratto irresistibilmente dalla sua provocante vicina (Marylin Monroe), tra passeggiate notturne e viaggi di fantasia, o ad Arianna, sprezzante ritratto del miliardario dongiovanni che colleziona donne come figurine.

L’altro grande esponente della commedia hollywoodiana fu Howard Hawks, metodico e leggendario regista “dalla mano invisibile”, talmente esperto di quell’estetica canonizzata del classico da scomparire nelle immagini filmate, trasformate in specchi di realtà all’apparenza privi di filtri cinematografici (come poteva essere la segmentazione delle inquadrature attraverso la pratica di montaggio). Hawks portò al suo livello più alto la screwball comedy, letteralmente ‘commedia svitata’, frizzante, in cui la tematica principale dello scontro tra sessi e classi sociali opposti veniva animata attraverso un ritmo incredibilmente dinamico, sketch comici, dialoghi brillanti. Con la sua freschezza e l’incredibile capacità di narrare il quotidiano senza intellettualismi di sorta, Hawks diede vita a capolavori assoluti come Susanna, storia d’amore strampalata tra una ragazza capricciosa e dinamica e un paleontologo sbadato e sulla soglia di un matrimonio che si prospetta infelice, e La ragazza del venerdì, film scoppiettante e divertentissimo, dotato dei dialoghi più veloci della storia del cinema, organizzato quasi tutto nello spazio angusto ma incredibilmente espressivo di una redazione in cui ne capitano di tutti i colori.

 

Arsenico e vecchi merletti (Arsenic and old lace), Frank Capra, 1944

Arsenico e vecchi merletti (Arsenic and old lace), Frank Capra, 1944

 

Capace di attraversare tutti i registri della commedia, fino a spingersi fin sulla soglia dei suoi limiti fu, infine, Frank Capra, autore di vere e proprie pietre miliari, creatore di personaggi sempre in bilico tra tradizione e modernità, perdizione e riconquista di sé; narratore eccezionale di storie dominate da un anelito disperato e pessimista, solitamente risolto nel finale da un colpo di scena risolutore e miracoloso, quasi irrealistico.

Capra scrisse alcune delle pagine più belle della screwball comedy, mettendo in scena le peripezie di un arguto giornalista sulle tracce di una giovane ereditiera scappata da uno yacht in Accadde una notte, primo film della storia a vincere in tutte le categorie più importanti dei Premi Oscar (film, regia, sceneggiatura, attore, attrice); tracciò il vertice insuperato della commedia nera con Arsenico e vecchi merletti, tra due dolci ziette assassine che avvelenano e seppelliscono gli ospiti in cantina, ladri impacciati che somigliano a Boris Karloff e un buffo Cary Grant che vuole solo partire tranquillo per il suo viaggio di nozze; realizzò il miglior film sentimentale di tutti i tempi nella fiaba natalizia La vita è meravigliosa, itinerario di caduta e redenzione di un uomo disilluso, aiutato da un angelo senza ali a recuperare fede nella vita; e giunse alla perfetta fusione di dramma e commedia nei capolavori della cosiddetta “trilogia sociale” (E’ arrivata la felicità, Mr. Smith va a Washington, Arriva John Doe), imperniata su personaggi semplici e ingenui (interpretati con intensità straordinaria da Gary Cooper e James Stewart), cresciuti nella grazia spensierata di un mondo rurale e improvvisamente catapultati nelle incombenze caotiche e alienanti di una città fatta di interessi perversi e corruzione, ostacoli duri ma non insormontabili in quell’universale percorso di ascesa chiamato american dream.

Dopo aver passato al setaccio alcuni generi di riferimento che costituirono la base d’ancoraggio privilegiata per il consolidamento dei canoni linguistici del cinema classico, andiamo ad analizzare altri due generi estremamente significativi per la Hollywood dell’epoca d’oro, isolabili dagli altri per la loro capacità di attivare dinamiche più complesse all’interno degli schemi rigidamente prefissati dello studio system: il noir e il western, due macrostrutture a prima vista lontanissime, eppure accostabili per la celata pretesa di libertà compositiva che entrambi riuscirono ad attivare in tempi e modi differenti.

Il noir vide la luce come genere altamente codificato, racchiuso nelle tinte fosche di quartieri malfamati o negli interni polverosi dei distretti di polizia e imperniato su un assortito gruppo di personaggi ricorrenti che spaziavano dalla provocante dark lady – quasi sempre causa scatenante del crollo di moralità a cui si assisteva in scena – alle cerchie ristrette di poliziotti corrotti e detective sagaci – spesso e volentieri incarnati dall’ombroso Humprey Bogart. Notevoli erano gli influssi del cinema espressionista tedesco di cui i cineasti più brillanti colsero il fitto senso di mistero, la riflessione sull’abominio in cui si barcamenava la razza umana, la potenza del chiaroscuro, i netti contrasti tra buio e luce, con valore spesso simbolico.

Proprio un genere tanto rigorosamente pianificato giunse a forzare fino ai suoi limiti gli schemi rigorosi dello studio system, attraverso uno stile eccessivo farcito da una debordante profusione di elementi che mal si adattavano ai costrittivi modelli di costruzione dei personaggi e delle trame classiche.

Alle psicologie piene e prive di crisi, il noir sostituì soggetti dall’inconscio ingombrante, protagonisti carichi di nodi irrisolti, perturbanti, capaci di minare la personalità e logorare l’intimo dell’essere umano, riducendolo all’incapacità di agire o di comprendere il mondo.

Gli eroi senza macchia dell’epica cedevano sotto i colpi dell’irrazionalità del reale, i loro percorsi narrativi diventavano slabbrati, sconnessi.

Le trame si adeguavano dal canto loro a questa perdita di linearità attraverso modelli testuali innovativi. Basti pensare alla disordinata mescolanza di piani temporali che domina Casablancaa torto considerato il più classico dei drammi sentimentali e analizzabile invece alla stregua di un sottile racconto poliziesco capace di mescolare senso del mistero, love story e attualità socio-politica; alla complessificazione della diegesi attraverso l’innesto di sottotrame multiple all’interno di quella principale de Il grande sonno di Hawks; all’incerta sovrapposizione delle dinamiche del reale con quelle del sogno e dell’allucinazione attuata da Otto Preminger in Vertigine, la cui seconda parte potrebbe esser letta come un sogno del detective di turno, che sublima nel mondo onirico ciò che in quello reale gli è negato.

Il noir apriva così crepe insanabili nel tessuto della classicità, restituendo libertà agli autori finalmente liberi di narrare il tremendo abisso di meschinità e orrore racchiuso nel cuore degli uomini. Il catalogo è lungo e suggestivo: si passa dall’ossessione per un passato glorioso e ormai scomparso, che porta alla follia la diva del muto Norma Desmond in Viale del tramonto, ai perfidi e orrendamente calcolati tentativi di una giovane fan di strappare a un’acclamata diva teatrale vita e carriera in Eva contro Eva di Joseph Leo Mankiewicz ; dai temibili doppi giochi di una folgorante dark lady capace di pianificare in modo perfetto la morte di suo marito per intascare un’assicurazione redditizia de La fiamma del peccato di Billy Wilder ai contesti mafiosi, perversi e senza scrupoli di film come Scarface di Hawks, Fronte del porto di Elia Kazan, o i capolavori di Huston Il mistero del falco e Giungla d’asfalto, senza dimenticare il cinismo anti-americano di Lang nel suo primo capolavoro statunitense, Furia, racconto della vendetta disperata di un uomo scampato a un linciaggio collettivo e creduto morto, o il definitivo crollo nell’abisso insondabile di corruzione, perversione e iniquità che domina il magistrale Touch of evil di Orson Welles.

E proprio quest’ultimo immenso autore, incapace di piegarsi agli schemi precostituiti dello studio system e teso verso l’esplorazione globale delle potenzialità del cinema, anticipò di vent’anni con il suo primo lavoro la fine del classico, spingendosi con un solo film verso la modernità cinematografica messa in pratica in Europa a partire dagli anni ’60. Si tratta ovviamente di Quarto potere, noir – ma anche potente affresco epico – che nel già 1941 aveva tutto per far esplodere alla radice i canoni precostituiti del cinema classico.

Il film è, come noto, il racconto della vita del magnate Charles Forster Kane che -e già in questo c’è una trasgressione incredibilmente provocatoria – muore nella prima scena del film, pronunciando una parola misteriosa a cui un giornalista cercherà di attribuire senso, interrogando – uno dopo l’altro – coloro che avevano conosciuto il defunto più da vicino. Ne escono ritratti differenti e la sola, inappuntabile certezza che “non basta una parola per capire la vita di un uomo”: essa – e per estensione la verità stessa, nel suo statuto ontologico – resta segreta inaccessibile, impossibile da decifrare. Con Quarto potere, la linearità classica, la sua tendenza alla narrazione piena, cronologicamente organizzata in un inizio,uno sviluppo e soprattutto un finale risolutore, viene spazzate spazzate via. E così pure il rigore della composizione che al montaggio invisibile preferisce i piani lunghi, le soluzioni ardite, i virtuosismi che amplificano -invece di occultare – la potenza della macchina cinematografica.

Lontano dagli orizzonti tetri e claustrofobici del noir si situava invece il western, nato come genere eminentemente americano e inizialmente capace di riflettere meglio di qualunque altro la volontà classica di organizzare e pianificare strutture che indirizzassero il gusto del pubblico.

I film riconducibili a questa categoria erano ambientati solitamente nel XIX secolo, quando l’America era una terra di frontiera, un immenso spazio selvaggio in cui i pionieri avevano il dovere di impiantare quella presunta civiltà che avrebbe dato vita ai moderni Stati Uniti.

Il film western aveva quindi il carattere sacrale di descrivere la palingensi di una nazione, anzi della più potente nazione che il mondo avesse mai visto nascere. Doveva dunque mostrare il trionfo della ragione dei colonizzatori sul barbaro istinto degli indiani oppure la vittoria della legge sociale (quasi sempre incarnata dalla figura dello sceriffo) sulla criminalità furiosa tesa a minare l’ordine costituito.

Inizialmente i western classici furono iper-caratterizzati attraverso elementi fissi, rigorosi, sempre uguali a se stessi: dagli spazi immensi e desertici (la Monumental Valley su tutti) ai costumi stereotipati (tra stellette di acciaio, cinturoni e cappelli che fecero un epoca), dagli elementi civilizzatori ricorrenti (il cavallo, la frontiera, il saloon, la diligenza) al conflitto – spesso banalizzato- tra bene e male, rappresentati come entità piene e assolutamente distinte, prive di tensioni interne, di crepe.

Sin dai primi lavori di Ford che, insieme ad Hawks e più tardi Anthony Mann, costituì il cantore privilegiato del genere negli Stati Uniti, il western si caratterizzò come tipologia filmica dell’estroversione, del dinamismo impellente, del movimento.

In Ombre rosse di Ford, considerato quasi all’unanimità l’assoluto del genere, una diligenza diretta a Lordsburg incorre nella minaccia indiana e accoglie con qualche riserva l’evaso Ringo (John Wayne). Al di là dell’intenso affresco antropologico sulla diseguaglianza sociale (la diligenza diventa un microcosmo in grado di accogliere tutte le classi sociali: due borghesi, un medico alcolizzato, una prostituta, un reietto ex-galeotto), che Ford realizza tra le righe della narrazione grazie alla sua inarrivabile maestria, il film si concentra sull’itinerario travagliato dei viandanti, sullo scontro metaforico tra il bene – il gruppo di cittadini civilizzati che viaggiano sulla stagecoach del titolo originale – e il male incarnato dai selvaggi indiani.

Allo stesso modo, Hawks nel suo Fiume rosso racconta con il solito stile perfettamente invisibile l’insediamento nel Texas di un allevatore (ancora John Wayne) in compagnia di un vecchio amico e di un giovane trovatello (Montgomery Clift), la seguente creazione di una fortuna e il successivo esodo verso una città distante 8000 miglia, con tanto di guado del fiume rosso del titolo. Il film mette in scena il ritratto raggiante del self-made man americano, tracciando temi tipici del western come l’amicizia virile e il transfert di responsabilità tra anziani e giovani.

Eppure proprio a causa di questo statuto di specchio glorificante di una nazione e della sua genesi, il western fu il primo genere a vedere incrinate le sue imprescindibili regole costituitive nel momento in cui quell’America di cui voleva illustrare la nascita si avviava verso la perdita della propria purezza, fagocitata dal terrore della Guerra Fredda e dagli orrori delle guerre sporche di Corea e Vietnam. Proprio nel genere più altamente codificato, i registi sfogarono le proprie frustrazioni di americani delusi, lasciando esplodere una sopita pretesa di libertà creativa. Dall’inizio degli anni ’50 le forme canoniche del western presero a sfaldarsi, dando avvio a quel processo che avrebbe condotto alla fine del cinema classico e all’inizio della New Hollywood che, guarda caso, diede avvio a un’intensissima opera di revisione dei generi iniziata proprio col western.

 

Mezzogiorno di fuoco (High Noon), Fred Zinneman, 1952

Mezzogiorno di fuoco (High Noon), Fred Zinneman, 1952

 

Quegli stessi Ford e Hawks che ne avevano scritto le pagine migliori, presero a scavare nei propri eroi senza macchia, in quelle strutture granitiche e movimentate prive di tempi morti, creando voragini e facendo salire in superficie le tensioni seppellite per almeno vent’anni.

Nel celebratissimo Sentieri selvaggi, si racconta la strenua ricerca di una bambina rapita dagli indiani da parte di uno sparuto gruppo di uomini guidati dallo zio della piccola (neanche a dirlo: John Wayne). Ford mise da parte l’epica gloriosa e dilatò a dismisura i tempi, concentrandosi più sulla caratterizzazione psicologica delle anime devastate dei personaggi che non sull’azione potenzialmente avventurosa, ridotta a un viaggio circolare teso a una meta sempre più distante e irraggiungibile, un pretesto per accogliere un itinerario ben diverso: quello dei protagonisti alla ricerca di se stessi.

E sempre Ford in Furore, che non è un western ma racconta – come i western – dell’esodo verso Occidente di alcuni sfrattati speranzosi di trovare in California fortuna e lavoro, rompe i dettami positivistici, ottimisti e chiaramente indirizzati alla ricostruzione di una coscienza nazionale messa in crisi dalla Grande Depressione del cinema classico, penetrando nel cuore di tenebra della sua nazione, scavando nel dolore, nel rancore, nei veleni di odio, razzismo e misantropia che si celano alle sue radici.

In Un dollaro d’onore, invece, Hawks distrugge l’estroversione tipica del western classico, costellando la narrazione di attese, sfocature, momenti morti, nostalgici e riflessivi. Il film, infatti, si apre con l’arresto di un bandito da parte del solito John Wayne nei panni di uno sceriffo, aiutato da un ubriacone e un vecchio sciancato. Di lì in poi si lavora sull’attesa: quella della polizia federale, che entro sei giorni arriverà in paese per condurre il detenuto in un carcere vero e proprio, e quella dei compari dell’omicida, pronti a liberarlo. Nel frattempo i protagonisti si lasciano cullare dall’ozio, dal bere, dal ricordo di un passato che non c’è più, da una quotidianità stantia e ripetitiva.

In modo simile Fred Zinneman costruisce il suo capolavoro Mezzogiorno di fuoco. Mettendo in atto una coincidenza quasi perfetta tra tempo del racconto e tempo della storia, il regista descrive l’ora e mezza che precede l’arrivo in città di alcuni banditi, affidandosi all’insofferenza ansiosa di uno sceriffo neo-sposo che tenta di reclutare gli amici di una vita per combattere il nemico comune, ma che non riceve altro che rifiuti. La grandezza di questo western, in cui il primo sparo si sente a cinque minuti dalla fine – se non è revisionismo questo! – , è la sua potenza introspettiva, tutta racchiusa nei tic nervosi e antieroici di un Gary Cooper eccezionale, la sua capacità di introiettare il senso della narrazione nell’uomo e non nelle sue azioni, come lo studio system imponeva.

A dare l’estremo contributo a questa inquieta ondata di svecchiamento fu però John Huston, autore di pellicole come Il tesoro della Sierra Madre e, soprattutto, Gli spostati, ultimo baluardo della classicità e insieme – forse – primo vero definitivo scavalcamento di quella dimensione.

Nel primo il regista mina la rigida dialettica tra bene e male su cui reggeva il western classico, analizzando la profonda ambiguità della natura umana e l’indistricabile legame che unisce i due opposti. Nel raccontare il viaggio alla ricerca dell’oro di tre disadattati, Huston evidenzia come il potere e il denaro con cui la società civile pretende di seppellire l’anarchico mondo della natura portino alla luce la brutalità selvaggia, l’aberrazione e gli orrori dell’animo umano nascosti da una labile maschera di socialità.

 

Gli spostati (The misfits), John Huston, 1961

Gli spostati (The misfits), John Huston, 1961

 

Ma è con Gli spostati che il mito del West giunge al suo ultimo crocevia. La storia è quella di un gruppo di sbandati in un’America crepuscolare di metà ’900 che ha perso le proprie certezze, di un vecchio cowboy (Clark Gable) che intreccia una relazione con una giovane donna appena divorziata (Marilyn Monroe), di una comitiva di antieroi che per tirare avanti decidono di cacciare cavalli selvaggi per macellarne la carne e rivenderla ai grandi distributori. Ma, nel finale, sotto gli occhi attoniti e disperati della ragazza, atterrita da tale violenza, il cowboy si dimostra capace di un ultimo atto d’amore e ripone il lazo, lasciando libera una bestia catturata. Poi accasciato contro un rottame finisce per affermare amaramente: “Accidenti a tutto. È tutto cambiato, tutto quanto distorto, hanno sporcato tutto di sangue. Io la faccio finita, è come prendere al laccio un sogno ormai!

Un sogno che coincide con quell’american dream naufragato nell’oceano di ipocrisie di un mondo bipolare, con l’idea di un possibile dominio dell’uomo sulla realtà e di riflesso sul cinema. La frase suona come il definitivo epitaffio del cinema classico, specie se si considera che a pronunciarla fu uno dei suoi più popolarmente noti modelli, quel Clark Gable che morì subito dopo la fine delle riprese, destino che toccò in sorte anche a Marilyn Monroe.

A questo punto sarebbe forse doveroso aprire una parentesi sul drastico cambiamento che questo lavoro di scavo e revisione sui generi, riflesso di una precisa inquietudine americana canalizzata nel lavoro dei registi, ebbe sulla generazione di interpreti esplosa intorno alla fine degli anni ’40. Mi sembra opportuno però rimandare questa riflessione all’episodio di questa rubrica che Taxi Drivers dedicherà alla New Hollywood nei mesi avvenire. Basti ricordare per ora che il guado tra la prima e la seconda metà del secolo ebbe una rilevanza enorme sul mondo degli interpreti nella fabbrica dei sogni hollywoodiana, complice anche la fondazione – da parte di Elia Kazan - dell’Actor Studio e del conseguente approdo a una dimensione più stanislavskiana e naturalistica della recitazione.

Si passò in pratica da una concezione di divo sofisticato, astratto, carico di ritualità e simbolismo, con implicazioni riferibili addirittura al metafisico (incarnato da Clark Gable, John Wayne, Greta Garbo, Marlene Dietrich…) a una molto più concreta, materiale, sofferta e spesso segnata da caratteri ludici e infantili (ravvisibile in James Stewart, Marlon Brando, Paul Newman, ma soprattutto in Marilyn Monroe, Montgomery Clift e James Dean). Un passo in avanti che celava in realtà una ben precisa involuzione. Quella dell’America del dopoguerra che aveva smesso i panni di contraltare positivo di un’Europa nazista e appariva al mondo in tutte le sue contraddizioni, della sua purezza stuprata dalle guerre di speculazione, dei divi deputati di incarnarla.

Un passo in avanti che si sostanziava di fatto come un ritorno all’infanzia, una discesa in picchiata dalla dimensione astratta del mito a quella tangibile della natura.

Stefano Oddi

 

FILMOGRAFIA PARZIALE

 

- L’angelo azzurro (Der Blaue Engel), Josef von Sternberg (1930)
- Marocco (Morocco), Josef von Sternberg (1930)
- Scarface – Lo sfregiato (Scarface, Shame of the Nation), Howard Hawks (1932)
- Mancia competente (Trouble in Paradise), Ernst Lubitsch (1932)
- Shanghai Express (id.), Josef von Sternberg (1932)
- Partita a quattro (Design for Living), Ernst Lubitsch (1933)
- King Kong (id.), Merian C. Cooper & Ernest B. Schoedsack (1933)
- La danza di Venere (Dancing Lady), Robert Z. Leonard (1933)
- Accadde una notte (It Happened One Night), Frank Capra (1934)
- L’imperatrice Caterina (The Scarlet Empress), Josef von Sternberg (1934)
- Cappello a cilindro (Top Hat), Mark Sandrich (1935)
- Follie d’inverno (Swing Time), George Stevens (1936)
- È arrivata la felicità (Mr. Deeds Goes to Town), Frank Capra (1936)
- Furia (Fury), Fritz Lang (1936)
- Una magnifica avventura (A Damsel in Distress), George Stevens (1937)
- Orizzonte perduto (Lost Horizon), Frank Capra (1937)
- La figlia del vento (Jezebel), William Wyler (1938)
- L’eterna illusione (You Can’t Take It with You), Frank Capra (1938)
- Susanna! (Bringing Up Baby), Howard Hawks (1938)

- Ombre rosse (Stagecoach), John Ford (1939)
- Mr. Smith va a Washington (Mr. Smith Goes to Washington), Frank Capra (1939)
- Via col vento (Gone with the wind), Victor Fleming (1939)
- Il mago di Oz (The wizard of Oz), Victor Fleming (1939)
- Ombre malesi (The Letter), William Wyler (1940)
- Furore (The Grapes of Wrath), John Ford (1940)
- La signora del venerdì (His Girl Friday), Howard Hawks (1940)
- Scandalo a Filadelfia (The Philadelphia Story), George Cukor (1940)
- Com’era verde la mia valle (How Green Was My Valley), John Ford (1941)
- Il sergente York (Sergeant York), Howard Hawks (1941)

- Il mistero del falco (The Maltese Falcon), John Huston (1941)
- Quarto potere (Citizen Kane), Orson Welles (1941)
-
I dimenticati (Sullivan’s Travels), Preston Sturges (1941)
-
Lady Eva(The Lady Eve), Preston Sturges (1941)
- Arriva John Doe (
Meet John Doe), Frank Capra (1941)

- Piccole volpi (The Little Foxes), William Wyler (1941)
- La signora Miniver (Mrs. Miniver), William Wyler (1942)
- Vogliamo vivere! (To Be or Not to Be), Ernst Lubitsch (1942)
- Casablanca (id.), Michael Curtiz (1942)
- Arcipelago in fiamme (Air Force), Howard Hawks (1943)
- Il cielo può attendere (Heaven Can Wait), Ernst Lubitsch (1943)
- La fiamma del peccato (Double Indemnity), Billy Wilder (1944)
- Arsenico e vecchi merletti (Arsenic and Old Lace), Frank Capra (1944)
- Vertigine (Laura), Otto Preminger (1944)
- I sacrificati di Bataan (They Were Expendable), John Ford (1945)
- Due marinai e una ragazza (Anchors Aweigh), George Sidney (1945)
- Sfida infernale (My Darling Clementine), John Ford (1946)
- Il grande sonno (The Big Sleep), Howard Hawks (1946)
- Duello al sole (Duel in the sun), King Vidor (1946)
- La vita è meravigliosa (It’s a Wonderful Life), Frank Capra (1946)
- I migliori anni della nostra vita (The Best Years of Our Lives), William Wyler (1946)
- Il tesoro della Sierra Madre (The Treasure of the Sierra Madre), John Huston (1947)
- Il massacro di Fort Apache (Fort Apache), John Ford (1948)
- Il fiume rosso (Red River), Howard Hawks (1948)
- Scandalo internazionale (A Foreign Affair), Billy Wilder (1948)
- Il pirata (The Pirate), Vincente Minnelli (1948)
- La costola di Adamo (Adam’s Rib), George Cukor (1949)
- Un giorno a New York (On the Town), Gene Kelly e Stanley Donen (1949)

- Rio Bravo (Rio Grande), John Ford (1950)
- Giungla d’asfalto (The Asphalt Jungle), John Huston (1950)
- Viale del tramonto (Sunset Boulevard), Billy Wilder (1950)
- Eva contro Eva (All about Eve), Joseph Leo Mankiewicz (1950)
- La cosa da un al mondo (The Thing From Another World), Howard Hawks & Christian Niby (1951)
- La prova del fuoco (The Red Badge of Courage), John Huston (1951)
- Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still), Robert Wise (1951)
- Un americano a Parigi (An American in Paris), Vincente Minnelli (1951)
- Un uomo tranquillo (The Quiet Man), John Ford (1952)
- Il grande cielo (The Big Sky), Howard Hawks (1952)
- Il magnifico scherzo (Monkey Business), Howard Hawks (1952)
- Mezzogiorno di fuoco (High noon), Fred Zinneman (1952)
- Cantando sotto la pioggia (Singin’ in the Rain), Gene Kelly e Stanley Donen (1952)
- Mogambo (id.), John Ford (1953)
- Gli uomini preferiscono le bionde (Gentlemen Prefer Blondes), Howard Hawks (1953)

- Vacanze romane (Roman Holiday), William Wyler (1953)
- Magnifica ossessione (Magnificent Obsession), Douglas Sirk (1954)
- Sabrina (id.), Billy Wilder (1954)
- Fronte del porto (On the waterfront), Elia Kazan (1954)
- Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch), Billy Wilder (1955)
- Secondo amore (All That Heaven Allows), Douglas Sirk (1955)
- Sentieri selvaggi (The Searchers), John Ford (1956)
- Come le foglie al vento (Written on the Wind), Douglas Sirk (1956)
- La legge del Signore (Friendly Persuasion), William Wyler (1956)
- Brama di vivere (Lust for Life), Vincente Minnelli (1956)
- Arianna (Love in the Afternoon), Billy Wilder (1957)
- Testimone d’accusa (Witness for the Prosecution), Billy Wilder (1957)
- Tempo di vivere (A Time to Love and a Time to Die), Douglas Sirk (1958)
- Il grande paese (The Big Country), William Wyler (1958)
- L’infernale Quinlan (Touch of evil), Orson Welles (1958)
- A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot), Billy Wilder (1959)
- Lo specchio della vita (Imitation of Life), Douglas Sirk (1959)
- Ben-Hur (id.), William Wyler (1959)
- Gli spostati (The Misfits), John Huston (1960)

- L’appartamento (The Apartment), Billy Wilder (1960)
- Angeli con la pistola (Pocketful of Miracles), Frank Capra (1961)

- L’uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance), John Ford (1962)
- Irma la dolce (
Irma La Douce), Billy Wilder (1963)
- Baciami, stupido (
Kiss Me, Stupid), Billy Wilder (1964)
- Il grande sentiero (
Cheyenne Autumn), John Ford (1964)


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