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Squarci di settima arte: La rivoluzione neorealista

Creato il 07 aprile 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Federico Fellini sosteneva che fosse esistito un solo neorealista: Roberto Rossellini. Il che gli attirò l’antipatia di Vittorio De Sica. La celebre dichiarazione del regista riminese non tendeva in realtà a sminuire l’opera del cineasta romano, escludendolo dall’etichetta neorealista. Fellini lo svincolava soltanto da quella epifanizzazione del reale privo di ricostruzioni secondarie che attribuiva esclusivamente al primo cinema rosselliniano.
Da questo punto di vista, con un’affermazione ancor più estrema -e forse provocatoria- di quella di Federico Fellini, azzardo a dire che il neorealismo puristicamente inteso non è mai esistito. Nemmeno Roma città aperta e Paisà, che di quella nuova poetica sono considerate le quintessenze, sono esuli da una ricostruzione del reale -che invece dai neorealisti pretende di essere rappresentato in modo speculare e fenomenologico- ma anzi contengono quegli elementi di artificio, abbellimento e ricreazione a posteriori del mondo che -come abbiamo già notato nei precedenti episodi di questa rubrica- sono parte ineliminabile e imprescindibile della settima arte.
Ciò che di rivoluzionario la serie di opere comunemente riunite sotto l’etichetta di neorealismo propose davvero fu uno sguardo nuovo, un’indomabile sete di realtà, una tensione calorosa e sentita diretta al vero, al sociale, ai caratteri di una situazione storica d’emergenza come era quella del dopoguerra italiano. Il che fa del neorealismo una corrente -non solo cinematografica- profondamente legata alle radici della nostra nazione, tanto da costituirne uno dei principali vanti a livello internazionale e da influenzare in modo radicale e profondo quell’esperienza di rinnovamento filmico incarnata negli anni ’60 dalla Nouvelle Vague francese.  Una fragorosa esplosione che attraversò come un lampo il panorama cinematografico nazionale (e successivamente internazionale) cambiandolo per sempre attraverso un numero di opere e autori incredibilmente esiguo (molto più di quanto le tradizionali storiografie del cinema vogliano far credere, ammassando sterilmente nomi e titoli che poco o nulla ebbero a che fare con il neorealismo) eppure così imponente nel fondare nuove suggestioni nel sistema estetico del narrare per immagini.

Vittorio De Sica e Roberto Rossellini

Vittorio De Sica e Roberto Rossellini

Il contesto in cui il neorealismo pone le sue prime radici, dunque, è l’Italia di fine anni ’30 e successivamente quella devastata e con il capo chino della Seconda Guerra Mondiale. L’Italia regimentata del Fascismo, cinematograficamente dominata da un vasto repertorio di opere di propaganda, da un’attenzione sterile alla bella forma che esalta il Regime e annulla lo scandaglio critico sul reale.
E’ il cinema pieno di formalismo di Alessandro Blasetti o quello dei “telefoni bianchi”, fatto di eroi onnipotenti e invicibili che parlano in modo impostato, prodigandosi in pose retoriche e pompose. Una tradizione scalfita inizialmente solo da Mario Camerini che sceglie un magro e ossuto Vittorio De Sica come protagonista di cinque film che smascherano in chiave comica virtù, vizi e paure della piccola borghesia italica, tentando un approccio più immediato e diretto al reale.
Un lieve ma efficace deragliamento che prelude a una rivoluzione epocale, annunciata in modo prepotente negli anni più infuocati del conflitto armato da una serie di film di enorme interesse.
Nel 1942, Gianni Franciolini realizza Fari nella nebbia mentre Alessandro Blasetti sfocia a un cinema fresco e non contaminato da malsana retorica con Quattro passi fra le nuvole.
In entrambi i casi, la macchina da presa si ritrova ad epifanizzare la vita e le azioni di strati popolari bassi, sottendendo alla narrazione lo scottante tema del tradimento coniugale, la volontà (femminile nel primo, maschile nel secondo) di rinnegare l’asfissia dolorosa dell’ambiente familiare; riflessioni che inevitabilmente si ritrovano a cozzare con quell’immagine sacra della famiglia pretesa dal Fascismo e che -altrettanto inevitabilmente- costituiscono un preludio a quell’ansia di realtà, unita a una critica feroce, scottante e scevra di preconcetti della stessa, tipicamente neorealista.
L’anno successivo, il cambiamento di rotta emerge in tutta la sua potenza nei due capolavori senza tempo di due dei più grandi cineasti italiani: I bambini ci guardano di Vittorio De Sica e Ossessione di Luchino Visconti.
Il primo si discosta dagli ambienti popolari dei primi due film citati e illustra il disfacimento di una famiglia alto-borghese attraverso gli occhi grandi e innocenti di un bambino, testimone muto di una madre che ama un altro uomo e di un padre disperato che prima si rinchiude in un dolore privo di parole, poi tenta di riconquistarla.
Ancora il tradimento, ancora un colpo durissimo alla famiglia, zoccolo duro del regime fascista, ancora una critica sofferta e velenosa, quanto mai lacerante, alle apparenze di una realtà ipocritamente idilliaca. A tutto questo De Sica aggiunge la figura del piccolo Bricò, che indugia alla realtà con occhi spensierati, la filtra senza comprendere lo sfacelo che lo circonda.
Il film si compone allora come un giallo condotto con lo sguardo di un bambino, che intravede l’adulterio solo per frammenti senza essere in grado di capirlo, interpretarlo, interiorizzarlo, privo della capacità e della forza di riconoscere nella madre “l’assassino”, come in una sorta di puzzle non componibile. Da questo momento, il bambino sarà -come vedremo- una sorta di costante dell’opera di De Sica e, in fin dei conti, del neorealismo tout court; insieme simbolo di innocenza perduta, schiacciata e frantumata sotto il peso di una realtà ostile ed emblema più significativo della necessità di uno sguardo nuovo, libero e privo di sovrastrutture, capace di scandagliare il mondo con occhi sinceri.
Di uguale -se non maggiore- rilevanza è l’esordio cinematografico di Luchino Visconti, che s’ispira a Il postino suona sempre due volte, romanzo di James Cain, e ambienta tra Ferrara e Ravenna la sordida storia dell’illecita passione che lega un vagabondo alla moglie di un ristoratore. All’ennesimo tradimento e alla distruzione del nucleo familiare che ne deriva, Visconti connette un tentativo programmatico di abbassamento e diseroicizzazione dell’attore, del maschio, depurato finalmente dai vezzi dei vecchi ruoli di cartapesta.
Il cineasta milanese butta giù l’eroe dal suo piedistallo di perfezione plastica e retorica, lo problematizza, scava nelle sue passioni laceranti e recondite, fino a piegarlo a un atteggiamento masochistico, passivo, quasi servile nei confronti dell’inebriante femme fatale interpretata da Clara Calamai. Ad accentuare questa corruzione della figura maschile, assume una rilevanza emblematica il rapporto ambiguo -leggibile in chiave omoerotica- che proprio il protagonista intreccia con un altro bohemien -dopo la fuga che per qualche tempo lo libera dall’oppressione della sensuale dark lady- che sembra esprimere nei suoi confronti una tenerezza protettiva e gelosa, con il quale condivide una stanza e un letto e verso il quale nutre una sorta di malcelata fascinazione.
Con una simile operazione di degradazione, Visconti mira a far decadere tutti i residui stantii e sclerotizzati di un cinema impostato, fascista, congelato in una becera istanza di esaltazione patriottarda e sessista.
E insieme, il regista lombardo tenta di superare quella ricerca estetica fondata sull’immagine flou, aggraziata, plastica e retorica, icona di un periodo ormai trapassato (e propria di un Blasetti) e ribadisce il suo interesse verso un cinema antropologico, animato dalla fisicità barbarica dei corpi, dal loro contatto, dalla loro lotta. E non a caso Ossessione promana ancora oggi -a distanza di quasi 70 anni- una carica erotica fortissima, rafforzata da annotazioni torbide e note fisiologiche, da un pathos sensuale, disarmonico e ansioso che traspare dalle azioni, dai gesti e dai silenzi dei protagonisti, scandagliati a fondo in quell’animo turbato e violento che dà senso e pienezza al titolo.

Ossessione, Luchino Visconti (1943)

Ossessione, Luchino Visconti (1943)

Ma la vera svolta arriva nel 1945.
A guerra finita, in una capitale semi-distrutta e ridotta a una condizione spaventosa di penuria di mezzi tecnici, Roberto Rossellini gira Roma città aperta. Per sopperire alla distruzione quasi totale di Cinecittà, il cineasta trasforma un piccolo teatrino in Via degli Avignonesi in un teatro di posa e si barcamena tra questo spazio, alcuni interni reali e l’aria aperta di una Roma irriconoscibile, per girare il film che avrebbe cambiato drasticamente il modo di fare e pensare il cinema.
La necessità materiale diventa così una componente estetica preminente nella fondazione della poetica neorealista. Al posto delle costosissime luci di scena, Rossellini utilizza lampadine domestiche capaci di illuminare il set in modo più vero e vivo. E allo stesso modo, essendo difficile reperire grosse quantità di pellicola, il cineasta romano decide di acquistarne un po’ alla volta, impegnandosi in una scuola di volontaria auto-restrizione che lo obbliga a realizzare sequenze brevi, quasi frammentate, immerse in un montaggio convulso e veloce.
L’altra novità rivoluzionaria introdotta da Rossellini, per quanto in realtà già suggerita dai film di cui sopra, riguarda l’attore, ben distante da quella concezione eroicistica, retorica, falsa e distaccata tipica del cinema fascista di propaganda e anzi scelto per la sua componente di “verità”, per la sua capacità di dialettizzare con un pubblico.
Per queste ragioni, Rossellini scelse Anna Magnani e Aldo Fabrizi, attori nati nel teatro comico e nel varietà, dotati di una spigliatezza energica assolutamente assente nell’attore di regime, capaci di un contatto reale e potente con lo spettatore.
Ciò che derivò dalla fusione di questi elementi -voluti o resi necessari dalle circostanze storiche non particolarmente favorevoli- fu principalmente il sorgere di uno sguardo nuovo, di una capacità mai sperimentata prima di cogliere ed epifanizzare il reale con occhi diversi, di fissare su pellicola la fluidità serpeggiante di un mondo in ginocchio, la vitalità mai doma dell’essere umano schiacciata dall’inferno generalizzato della guerra, della distruzione di popoli e nazioni.
Il valore universale che il cinema neorealista di Rossellini tenta di veicolare con maggior forza è quello della solidarietà, il concetto di indomita unione tesa a sconfiggere le forze negatrici della vita, l’ideale di lotta comunitaria del bene contro le atroci e torbide aberrazioni del vecchio mondo (dalla droga alla pedofilia) da eliminare per fondare una nuova civiltà che sappia imparare dai propri errori.
Se tale riflessione impregna in modo evidente la struttura narrativa di Roma città aperta, che sotto un titolo ironico racconta i sotterranei movimenti della resistenza romana, celebra la spinta solidale che unisce mondo religioso e mondo partigiano e promette un avvenire carico di speranza con quel poetico e indimenticabile finale che mostra un gruppo sparuto di ragazzini marciare verso l’orizzonte, è con Paisà -realizzato l’anno successivo- che essa viene espressa al grado più alto. Già il titolo rievoca l’espressione che i soldati alleati utilizzavano per farsi riconoscere dagli italiani come amici, dopo lo sbarco in Sicilia e la risalita verso il nord della penisola che il film pretende di raccontare attraverso sei episodi. Al di là del suo significato letterale, comunque, Paisà si erge a paradigma assoluto di una società nuova, democratica, basata sulla solidarietà interrazziale e diametralmente opposta all’ideologia nazifascista del capo unico.
Prodigandosi in un montaggio rapido, che procede per tagli bruschi e repentini, Rossellini si fa strada in un universo fatto di lingue, usi e costumi diversi, descrivendo di regione in regione e attraverso situazioni alternative la lotta di liberazione italiana, alternando al tono etico-sociale, un sottotesto nostalgico, carico di sentimento e passione. Si pensi alla commovente parentesi dell’episodio romano, in cui un soldato ubriaco racconta a una puttana del suo amore per una ragazza perduta che in realtà è lei stessa, o all’amicizia carica di dolore che nasce a Napoli tra un soldato di colore e uno scugnizzo costretto a un esistenza disperata.
L’ultimo capitolo della trilogia neorealista rosselliniana, infine, giunge nel 1948 e sposta l’orizzonte di analisi dall’Italia alla Germania del dopoguerra, ancorandosi a una Berlino desolante e semi-distrutta e alla vita di una famiglia composta da un padre ammalato, una figlia che si cura di lui, un ex-soldato nazista che non esce di casa, nel timore di essere processato, e un bambino costretto a mandare avanti la famiglia, tra furti, baratti e lavoretti occasionali.
Torna qui in modo prepotente il tema dell’infanzia e quello della corruzione dell’innocenza che l’inferno post-bellico produce senza riserve, connesso a quella rifondazione della civiltà che fa da leitmotiv ai capolavori di Rossellini.
Il piccolo Edmund -ispirato da un suo vecchio professore, invischiato nel giro della pedofilia- uccide il padre, somministrandogli una dose eccessiva di medicinali. Immediatamente scappa per le strade di una Berlino lacerata, come in una ricerca di sé stesso, del bambino che in lui è definitivamente morto. Tenta di aggregarsi a un gruppo di ragazzini che giocano a palla e lo respingono, poi prende a dar calci a una lattina e infine sceglie di giocare da solo tra le rovine di un palazzo deserto. Quando prende coscienza dell’orrore che ha commesso, si dà la morte, lasciandosi cadere a terra, distruggendo simbolicamente la propria parte malata, il germe nazista che gli contamina l’anima.
In quest’ultimo magnifico tassello della sua trilogia, il cineasta romano fa di un bambino che è archetipo della razza germanica (biondissimo, slanciato, con gli occhi chiari) l’ultimo capro espiatorio attraverso cui procedere nella ricostruzione di un mondo migliore. Il suo sofferto sacrificio è la presa di coscienza di una nazione intera che ha riconosciuto i propri errori e ha deciso di ricominciare da zero (questo il senso del titolo). Ma perché questo sia possibile, il sangue versato va lavato a prezzo della propria vita.
Dopo aver realizzato questi tre insostituibili tasselli per la storia del cinema moderno (il mitico regista statunitense Otto Preminger sosterrà che “La storia del cinema si divide in due ere: una prima e una dopo Roma città aperta”), Rossellini dà vita a un ciclo di film imperniati sulle figure femminili incarnate da Ingrid Bergman -che sposa nel 1950- traslando lo spettro della sua analisi dall’esterno all’interno, da una dimensione epico-corale a una intima e profondamente individuale, dai problemi etici e sociali di un mondo annientato da anni di abominio e terrore che tenta disperatamente di risollevarsi, alle inquietudini e i laceranti abissi dell’animo femminile, colto in situazioni-limite di crisi esistenziale: dalla sofferta elaborazione del lutto di un figlio di Europa ’51, in cui la Bergman tenta di superare il dolore oscillando tra l’impegno sociale e quello spirituale, optando infine per il primo, ai laceranti scontri di civiltà che dominano Stromboli, terra di dio e soprattutto il capolavoro di stampo forsteriano Viaggio in Italia, in cui l’equilibrio sentimentale di una rigida e formalista coppia inglese esplode a contatto con l’elemento selvaggio e profondamente sensuale che permea gli ambienti italici, trascinandola in una dolorosa ma necessaria riscoperta del sé e dell’altro.

Roma, città aperta, Roberto Rossellini (1945)

Roma, città aperta, Roberto Rossellini (1945)

Negli stessi anni, Vittorio De Sica fonde la spontaneità affettiva del suo cinema, il calore amoroso che lo spinge ad abbracciare i propri personaggi con movimenti avvolgenti e mai formalisticamente compiaciuti, con quella sete poderosa di realtà che caratterizza il cinema rosselliniano. Come lui, il cineasta romano adotta uno stile rapido, cronachistico e attraverso esso fotografa un reale privato di abbellimenti colto in tutta la crudezza dell’esistere.
Eppure, se l’analisi di Rossellini è condotta a partire da un senso di solidarietà universale che mai viene meno, De Sica costruisce i suoi capolavori attorno a un ideale di unione più intima. Quella che in Rossellini era un progetto -politico- generalizzato di rifondazione del civile, in De Sica si trasforma in solidarietà interpersonale, slancio affettivo non destinato a un sistema globale ma al sostegno amoroso che ogni essere umano merita in quanto tale.
Non è un caso che i protagonisti di tutti i suoi film -storicamente- definiti “neorealisti” siano membri di categorie ai margini, più di altre passibili di maldicenza, rancore, pregiudizio, discredito e per converso di sostegno, amore, devozione.
I due piccoli lustrascapre che in Sciuscià (il film a cui deve la genesi l’onorificenza dell’Oscar al film straniero) coronano il sogno di comprare un cavallo bianco -simbolo di purezza e innocenza pienamente riconducibile alla penna di Zavattini, sceneggiatore e collaboratore fisso di De Sica- prima di finire in carcere, reclusi in un universo eterogeneo e multilingue di creature perdute e alla deriva, portano al massimo grado il leitmotiv neorealista del bambino, inteso come portatore di uno sguardo nuovo e scevro da sovrastrutture limitanti e insieme come capro espiatorio di tutti i mali di una società che rotola. In questo stupendo affresco di anime dannate, il concetto desichiano di solidarietà interpersonale finisce per permeare l’intera pellicola, costruita per tre quarti sulle piccole e -spesso irrilevanti- vicende del carcere, sulla forza trainante costituita dall’innocente unione dei ragazzi (parola chiave che del film è il sottotitolo), senza riuscire però a costituire la chiave di volta per la redenzione finale.
Con Ladri di biciclette -di due anni successivo- il regista trasla questo senso di solidarietà corale, verso una dimensione più familiare e ristretta. Portando a compimento l’ideale zavattiniano di “pedinamento esistenziale”, il cineasta romano racconta la giornata di un attacchino e del suo figlioletto, alla ricerca di un ladro che gli ha sottratto la bicicletta -fondamentale per il suo lavoro- attraverso i rioni romani. Quando nel finale, l’uomo si lancia nel disperato gesto di diventare a sua volta un ladro e, acciuffato da una folla inviperita, rischia di essere arrestato, il bambino gli cinge la mano e si perde con lui nella folla. Un gesto d’amore semplice e paradigmatico, in uno dei più alti momenti di cinema di tutti i tempi.

Ladri di biciclette, Vittorio De Sica (1948)

Ladri di biciclette, Vittorio De Sica (1948)

La parabola neorealista di De Sica si chiude -fuori tempo massimo- nel 1952 con un altro titolo imprescindibile: Umberto D, il film a cui il cineasta si dichiarava più legato, forse perché realizzato in memoria del padre (Umberto De Sica). In questo rassegnato saggio sul dolore e la solitudine, il cineasta affronta l’età terminale della vita, descrivendo in meno di 90 minuti i giorni lenti e annoiati di un vecchietto senza quattrini né domicilio che scorge nel suicidio l’unica soluzione alla fine del senso dell’esistere. E’ l’abbaiare scattoso e amorevole del cagnolino domestico a riportarlo alla vita nel finale, in una chiusa di potenza memorabile che forse sta a segnalare un rinnovato idillio dell’uomo col mondo, con la natura madre che lo circonda e lo racchiude.
Precedente a Umberto D ma idealmente slegato dalla dimensione prettamente etica e sociale che fa da filo rosso alla trilogia neorealista desichiana è infine Miracolo a Milano, tratto da Totò il buono, romanzo di Zavattini e in effetti permeato profondamente dalla vena surreale, onirica e fantasiosa propria dello sceneggiatore italiano più internazionalmente noto.
La vicenda si impernia su un giovane orfano che, uscito dall’istituto in cui era stato recluso a seguito della morte dell’anziana signora che l’aveva trovato neonato tra le primizie del suo orto, si aggrega a un piccolo gruppo di senzatetto stanziato fuori Milano, con il quale riesce a costruire una comunità armonica e ben strutturata. Tutto fila per il meglio finché la scoperta del petrolio in quella stessa zona attira le mire di un magnate della finanza, contro il quale gli sfollati organizzano una sorta di battaglia. Questo sottotesto etico-sociale tipicamente neorealista connesso alle figure desichiane degli outsider, si mescola con gli espedienti sognanti e magici di Zavattini e dà vita a un intreccio incredibilmente suggestivo di forme e situazioni narrative che molti critici dell’epoca etichettarono come “neorealismo rosa”, inteso come “annacquamento” -in toni surreali e fantastici- del “neorealismo rosso” marxisteggiante e politicamente impegnato.
Scene come quella della festa di piazza, in cui una statua dalle fattezze femminili prende vita e comincia a ballare tra la gente o quella della guerra tra senzatetto e capitalisti alle cui armi rispondono i miracoli di una colomba bianca, si sedimentarono con potenza nell’immaginario collettivo, contribuendo a quell’internazionalizzazione del cinema italiano che in primis lo stesso De Sica favorì grazie a film successivi come La ciociara e soprattutto Ieri, oggi e domani, primissimo antisegnano di quella fortunata e gloriosa tendenza cinematografica tutta italica ribattezzata più tardi “commedia all’italiana”.
Basti pensare, ad esempio, che la scena finale di Miracolo a Milano, con il celebre volo sulle scope dei senzatetto verso un mondo egualitario e anticlassista “dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno” (Zavattini in realtà voleva una chiusa più “impegnata” in cui ogni tentativo di atterraggio e stanziamento degli sfollati fosse impedito dagli onnipresenti cartelli di proprietà privata) è stata probabilmente la maggiore ispirazione per il volo delle biciclette dell’E.T. spielberghiano.

L’altro grande nome storicamente legato alla stagione neorealista italiana è quello di Luchino Visconti che, come abbiamo accennato, anticipa quella rivoluzionaria istanza di rinnovamento nel ’43 con Ossessione, suo esordio, per poi dedicarsi alla regia teatrale per cinque anni e tornare successivamente al cinema nel ’48 animato da un progetto monumentale e spropositato: narrare le vicende di uomini e donne sconfitti e distrutti dal progresso (lo stesso obbiettivo che si poneva Verga con il suo ciclo dei vinti), descrivendo attraverso tre film idealmente connessi le parabole di redenzione discendenti e catastrofiche di pescatori, minatori e -infine- agricoltori, che in un ostinato tentativo di emancipazione socio-economica venivano sconfitti dalle forze costrittive e innaturali del capitalismo. Le tre pellicole, nell’ideale viscontiano, avrebbero condiviso il titolo La terra trema in riferimento all’epica marcia finale delle varie categorie di oppressi -riunite in un’estrema e definitiva coalizione contro il nemico comune- capace di far vibrare paurosamente il suolo sotto i loro piedi.
Il progetto, incredibilmente ambizioso, non fu mai concluso. Visconti realizzò solo il primo dei tre film, denominato La terra trema – Episodio del mare, rifacendosi a I Malavoglia capolavoro letterario di Giovanni Verga, sostituendo però al tema dell’oscurità di un fato maligno che dominava il romanzo, il motivo fortemente critico del capitalismo come matrice di tutti i mali sociali. Questo prepotente riferimento alla contemporaneità, unito alla scelta di far recitare i veri pescatori di Aci Trezza -ovviamente in dialetto, parzialmente ammorbidito in sede di doppiaggio ma comunque ostico a chi non ha familiarità con il siciliano- e all’utilizzo di ambienti reali, tra i vicoli angolosi di un paese svincolato dallo scorrere del tempo e l’enorme distesa marina, magnificamente trasposti dalla fotografia di Aldò (il mitico Aldo Graziati), riconduce il film all’orizzonte stilistico e tematico del neorealismo per quanto in molti hanno protestato contro una simile attribuzione. Fellini per primo sostenne che a differenza di quella di Rossellini, l’opera viscontiana si allontanava dal neorealismo propriamente detto, per accostarsi di più alle esperienze del realismo e naturalismo ottocentesche. Personalmente mi associo al maestro riminese e ritengo che La terra trema si costituisca più come un paradigma emblematico ed esemplare della poetica viscontiana fondata sull’alternanza, la dialettica e la compenetrazione tra una fisicità erotica, selvaggia e barbarica e una visuale marxista che tenta di analizzare il reale nei termini di una costante lotta di classe, che non come un saggio di neorealismo.

La terra trema, Luchino Visconti (1948)

La terra trema, Luchino Visconti (1948)

Da questo punto di vista appare ancor più distante da quell’etichetta -nella quale è tuttavia costantemente recluso- il successivo Bellissima, requisitoria struggente e dolorosa sulle illusioni create dal cinema, macchina creatrice di sogni e incubi e soprattutto storia di amore materno, con un’indimenticabile Anna Magnani nelle vesti di una grintosa e vitale infermiera romana che dà anima e corpo per far sì che la figlioletta balbuziente possa diventare una piccola stella del cinema di Alessandro Blasetti, davvero presente nei panni di sé stesso.
Il mondo mostrato da Visconti in questo caso è lontano da quella neorealista ansia di rinascita che animava i film di Rossellini, come quelli di De Sica. Manca l’afflato epico-corale come la disperata ma necessaria spinta a ricostruire e ricostruirsi. Si parla di un mondo che è già ricominciato, in cui l’orrore e lo sfacelo non sono che dolorose cicatrici. Si tratta, in fondo, di un capolavoro fatto di piccoli uomini e soprattutto piccole donne che non lottano più per sopravvivere ma già tentano di vivere (meglio).
Va da sé che anche alcune opere di autori successivi come Fellini e Pasolini (penso a I vitelloni, La strada, Il bidone e Le notti di Cabiria per il primo, ad Accattone e Mamma Roma per il secondo) siano da considerare, a dispetto di una consolidata tradizione critica e interpretativa, rigorosamente al di fuori dell’estetica neorealista, dalla quale magari colgono suggestioni e orientamenti diversi, e alla stregua invece di film pienamente personali, radicati in poetiche fatte estranee a categorizzazione esteriori e non passibili di essere rinchiuse in troppo strette griglie interpretative.
Universi autoriali affascinanti e ricchi di evocazioni quelli di Luchino Visconti, Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini su cui al momento non posso spendere altre parole. Li lascio in sospeso con la promessa di tornare a celebrarli nei prossimi episodi di questo viaggio che abbiamo iniziato insieme.

Stefano Oddi

 

FILMOGRAFIA DI RIFERIMENTO

- Quattro passi fra le nuvole, Alessandro Blasetti (1942)
- Fari nella nebbia, Gianni Franciolini (1942)
- I bambini ci guardano, Vittorio De Sica (1943)
- Gente del Po, Michelangelo Antonioni (1943)
- Ossessione, Luchino Visconti (1943)
- Roma, città aperta, Roberto Rossellini (1945)
- Paisà, Roberto Rossellini (1946)
- Sciuscià, Vittorio De Sica (1946)
- Germania anno zero, Roberto Rossellini (1948)
- La terra trema, Luchino Visconti (1948)
- Ladri di biciclette, Vittorio De Sica (1948)
- Stromboli terra di Dio, Roberto Rossellini (1949)
- Miracolo a Milano, Vittorio De Sica (1951)
- Bellissima, Luchino Visconti (1951)
- Umberto D., Vittorio De Sica (1952)
- Europa ’51, Roberto Rossellini (1951)
- Viaggio in Italia, Roberto Rossellini (1953)


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