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Stagisti di Stato e metalmeccanici

Da Brunougolini
“Stage all’estero ma solo per i ricchi”. Era il titolo di questa rubrica qualche settimana fa, dedicata  ad un’iniziativa promossa dal ministero degli esteri a favore di 1800 stagisti, con nessun contributo alle spese, spesso assai alte. Alcuni diplomatici operanti all’estero mi hanno scritto, polemici, in forma non ufficiale. Spiegando, ad esempio, l’importanza dei programmi formativi del Mae-Crui. E’ vero, spiegano, a volte i tirocinanti contribuiscono al lavoro complessivo di ambasciate o consolati. Godono però, anche, di vera formazione.E capita, spesso,  che occorra insegnare loro “l'Abc della buona scrittura”. Così come può capitare che sia il personale dell’ambasciata ad aiutarli: dai passaggi in auto alla ricerca di un alloggio. Un altro aspetto che suscita dure polemiche è il passaggio (ripreso da “La repubblica degli stagisti”) circa la differenza tra gli emolumenti riservati ad ambasciatori sessantenni e il mancato rimborso spese per gli stagisti. C’è chi ricorda come il lavoro di un ambasciatore sia senza orari, talvolta in condizioni di rischio personale. Certo “tutti vorremmo che ci fossero i fondi per dare un rimborso spese ai giovani tirocinanti”.  C’è poi chi osserva come esistano gran parte delle agenzie umanitarie e molte ONG che mantengono personale "tirocinante" per ben più di tre mesi. E  s’invoca un inchiesta giornalistica sulle condizioni di lavoro in questo settore.
E’ interessante notare come molti di quelli che scrivono non siano certo cresciuti nella bambagia. La loro “carriera” è fatta di studi, sacrifici, “lacrime e sangue”. L’accusa rivolta alle nuove generazioni è quella di pensare “che tutto debba piovergli dal cielo: tutto dovuto, tutto gratis, tutto pagato dai genitori, dalla scuola, dallo Stato”. Sovente, si scrive,  “sono più interessati a Facebook che a leggere le pagine di esteri sui giornali”.
C’è del vero in queste osservazioni. Esse rimandano ai problemi di un sistema scolastico inadeguato e anche al fatto che i giovani  non accettano più un lavoro purchessia. Vorrebbero trovare nel lavoro spazi di autonomia e creatività.   Spesso è impossibile e non s’adeguano, spesso rifiutano il lavoro manuale, il sacrificio (non sempre: i morti operai alla Tyssen di Torino erano giovani). E’, comunque,  tutta colpa loro? Oppure è una società, una famiglia, un vertice di Stato, che oggi li cova così, insegna il facile guadagno e la facile carriera?  E’ l’esempio che viene dall’alto. Ed è davvero vero che chi ha meriti, chi studia sodo e si sacrifica, chi "sputa sangue" ce la fa sempre? Qualcuno soccombe. Qualcun altro ce la fa, magari non per meriti acquisiti, bensì per spintarelle clientelari. E’ possibile una società diversa, capace di dare valore al lavoro. E’ stato in fondo questo il “leitmotiv” della manifestazione della Fiom a Roma, con per una volta uniti, i Cipputi moderni e i moderni precari.

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