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Storia del tifo organizzato e del calcio in italia

Creato il 14 marzo 2014 da Postpopuli @PostPopuli

 

di Francesco Gori

Storia del tifo organizzato e del calcio in Italia

Già all’epoca delle Olimpiadi nell’antica Grecia esisteva la pratica del tifo; dopo tutto, il parteggiare per un beniamino o una squadra è radicato nella natura stessa dello sport, quindi anche del calcio.

Nella breve ricostruzione storica seguente sul tifo organizzato, prendo come punto di riferimento l’Italia, per ovvi motivi.

Il calcio negli anni ’20 in Italia tenne a battesimo il “tifo” e, durante questi anni, il sentimento di partecipazione assunse un’intensità senza precedenti. Si verificò l’incontro tra industria, pubblicità e calcio: si diffusero cartelloni pubblicitari, si moltiplicarono le iniziative degli imprenditori, si creò un interesse non più occasionale.

Le tracce più antiche del tifo risalgono al primo dopoguerra, periodo particolarmente turbolento per il pubblico italiano. “Masse entusiaste, anche se digiune di competenza e di fair play andavano riempiendo gli stadi” (Storia sociale del calcio in Italia, Papa-Panico, 1993, p.119), questi ultimi mostravano ancora strutture inadeguate. Nel 1923 sono 10000 gli spettatori della finalissima di campionato Lazio-Genoa, cifra subito superata, in un crescendo spropositato. Gli incontri di calcio iniziano a coinvolgere intere città, costrette a mutare il proprio aspetto in occasione dei grandi matches.  Tra le ragioni dell’aumento del pubblico c’è anche la diffusione territoriale del gioco, presente in questi anni in 83 capoluoghi di provincia ma ben presto anche nei centri minori, superando il solco tra l’Italia sportiva e quella rurale. E così il calcio si innalza anche come espressione delle rivalità locali: numerose squadre di una stessa città si unificano, favorendo la concentrazione delle tifoserie (in alcuni casi, come a Milano e Torino, persistono due grandi fazioni).

La parola tifo nasce in questi anni, è opinione diffusa che sia nata dalla penna dei giornalisti, benché se ne attribuisca anche un’origine colta, dal greco typhos, cioè fumo, vapore. Nel linguaggio parlato inizia a circolare già prima della guerra, quando viene operata la deformazione del termine medico “tifico” in quello sportivo di “tifoso”. Nei dizionari la parola fa la sua comparsa nel 1935, nel Dizionario Moderno di Alfredo Panzini mentre i giornali cominciano ad usarla alcuni anni prima. La notizia calcistica coinvolge un numero sempre crescente di italiani, i tifosi hanno così un abbondante materiale su cui fondare le discussioni e un modo di rendere più emozionante la vigilia delle partite.

La “malattia domenicale” cresce ma il nesso tra tifo e fazione sportiva, tra tifo e violenza non è immediato, anche se si cominciano ad intravedere episodi di intolleranza e presenze minacciose. L’aggressività ed il tifo di quegli anni non hanno strutture, motivazioni o predeterminazione: non c’è un’organizzazione vera e propria. Il tifo ha comunque un’evoluzione nel corso del suo primo decennio di vita e costituisce uno dei nuovi capitoli della storia del “fattore campo”, cominciando a riversarsi anche nelle trasferte.

Negli anni ’30, l’Italia di Pozzo, con le sue vittorie “mondiali”, focalizza l’attenzione ed il tifo si fa più “nazionale”, seppur anche a livello di club l’interesse cresca ancora (la Juventus dei primi cinque anni vince scudetti a non finire, creando un largo seguito).

La seconda guerra mondiale scoppia nel settembre 1939, quando il mondo del calcio è al culmine della sua vitalità. I paesi coinvolti nel conflitto prendono decisioni diverse sulla prosecuzione delle attività calcistiche, il calcio italiano, almeno all’inizio, non sembra risentirne. Il calcio convive con le vicende belliche e sembra assorbirle senza traumi. È tra il 1942 ed il 1943 che le condizioni degli italiani peggiorano notevolmente ma neanche “la terrificante ipotesi della caduta di una bomba in uno stadio e della strage che ne sarebbe seguita era rimossa dal sentimento gioioso e rassicurante delle cittadelle aperte del calcio” (Papa-Panico, 1993, p.227).

Di fronte alla fase più sconvolgente della guerra, anche il calcio è costretto ad interrompere la sua regolarità temporale. La paralisi dell’attività è breve, il gioco riprende a dare segni di vitalità dovunque sia possibile, dimostrando che la guerra non aveva bloccato l’evoluzione della cultura calcistica. Nella seconda metà del 1945 vengono fondati 240 nuovi club ed il calcio manifesta la sua vocazione a dimenticare la vicenda bellica con un fervore associativo senza precedenti.

 

storia del tifo STORIA DEL TIFO ORGANIZZATO E DEL CALCIO IN ITALIA

forzabisceglie.it

Ma è all’inizio degli anni Cinquanta, con la ripresa economica, che i tifosi di tutte le squadre cominciano ad organizzarsi in club, a seguire sempre più numerosi la propria squadra in trasferta e a promuovere ogni sorta di iniziativa. Con l’ulteriore esplosione del fenomeno calcistico in Italia nel periodo successivo al secondo dopoguerra, i club organizzati dei tifosi si diffondono e moltiplicano rapidamente.

Negli anni Sessanta si formano le prime vere strutture associative di tifosi, denominate “centri di coordinamento”. È il mago Helenio Herrera, allenatore della grande Inter di quegli anni, a dare impulso alla creazione di un coordinamento che faccia da riferimento per la numerosa tifoseria interista. Nascono club che coagulano i tifosi più accesi ed attivamente organizzati.

Dopo il ’68, è con una certa inquietudine che si avverte l’esistenza rumorosa di nuovi gruppi giovanili. Sugli spalti risuonano slogan e si esibiscono coreografie di massa. Nascono organizzazioni con migliaia di aderenti e veri e propri movimenti giovanili, basati sul sostegno alla propria squadra.

Tra la fine degli anni Sessanta ed i primi anni Settanta nascono in Italia i primi nuclei di ultra, gruppi di sostenitori fra i 15 e i 20 anni che si distaccano nettamente dal modello “classico”, adulto, dello spettatore calcistico. Raccolti nei settori popolari degli stadi, dove le società stimolano l’afflusso giovanile tramite speciali campagne di abbonamenti a prezzo ridotto, gli ultrà manifestano immediatamente una serie di caratteristiche che li rende un fenomeno originale nel calcio italiano: dal senso di identificazione con il proprio “territorio”, cioè quel settore di curva delimitato da uno o più striscioni con il nome ed il simbolo del gruppo, a un look paramilitare ripreso da quello in voga nelle organizzazioni politiche estremiste (anfibi, tute mimetiche e giacconi militari) ricoperti di “toppe” con il simbolo della propria squadra, a cui si aggiunge la sciarpa con i rispettivi colori sociali. Ma gli ultrà si distinguono soprattutto per l’adozione di elementi del tutto innovativi nel modo di sostenere la squadra e, più in generale, di assistere alla partita. Dalle torcidas brasiliane viene ripreso l’uso di trombe e tamburi; dalle tifoserie inglesi la sciarpata (le sciarpe vengono alzate e distese dai tifosi, dando l’effetto ottico delle onde del mare) e l’accompagnamento corale delle azioni di gioco, fino ad assumere un carattere ossessivo volto a incoraggiare i propri beniamini e ad intimidire i giocatori avversari. Il tifo viene dunque considerato parte della strategia e della tattica adottate per vincere un incontro: diviene il cosiddetto “dodicesimo giocatore”. Si diffonde inoltre l’uso di articoli pirotecnici (candelotti, fumogeni, razzi a luce colorata), destinati a dare un tocco di vivacità supplementare alle gradinate. Subentra così per la prima volta il concetto di “coreografia della curva”, una pratica del tutto originale che si evolverà di pari passo con il grado di organizzazione dei gruppi ultrà. La coreografia diviene il marchio dello stile italiano.

Nel 1968 nasce il gruppo ultrà più antico, la Fossa dei Leoni del Milan, che adotta il nome del vecchio campo d’allenamento dei rossoneri. Nel 1969 nascono anche gli Ultras Tito Cucchiaroni della Sampdoria (primi a usare la denominazione “Ultras”) e, subito dopo, i Boys dell’Inter. Negli anni Settanta si afferma insomma un processo di aggregazione degli innumerevoli microgruppi giovanili che popolano ormai le curve delle squadre maggiori: nascono le Brigate Gialloblu del Verona e, dal nome della piazza in cui si radunano, il Viola Club Vieusseux della Fiorentina (1971); gli Ultrà del Napoli (1972); le Brigate Rossonere del Milan, la Fossa dei Grifoni del Genoa e gli Ultrà Granata del Torino (1973); i Forever Ultrà del Bologna (1974); i Fighters della Juventus (1975); le Brigate Nerazzurre dell’Atalanta ed i Rangers Empoli(1976); gli Eagles’ Supporters della Lazio ed il Commando Ultrà Curva Sud della Roma (1977). La diffusione del movimento è maggiore nell’Italia settentrionale se si escludono realtà come Napoli, Bari, Cagliari e Catanzaro. Alcuni dei gruppi citati si distaccano da club di tifosi già esistenti, sia per la diversa mentalità di fondo che per dissidi interni (i Boys prendono origine dall’Inter Club Fossati, mentre gli Ultrà Granata si scindono dal Club Fedelissimi) mentre altri da gruppetti durati pochi mesi e poi sciolti o riunificati (i Forever Ultrà del Bologna sono gli eredi delle Brigate Rossoblu; i Fighters lo sono dei Panthers Juve; il Commando Ultrà Curva Sud nasce dalla fusione di Boys, Guerriglieri Giallorossi, Fossa dei Lupi, Brigate Giallorosse e Pantere). Alla base di alcuni gruppi c’è la provenienza da una determinata area urbana o da un gruppo di coetanei che ha come luogo di ritrovo un bar, una scuola o una sala-giochi. Alcune caratteristiche dei gruppi politici estremisti, quali il senso di coesione e di cameratismo, la sfida all’autorità costituita, il senso di conflittualità, riescono a dare sostanza ai gruppi ultrà che in breve tempo radunano decine e decine di giovani. Altro aspetto peculiare degli ultrà è il forte senso di territorialità: le curve, infatti, vengono a poco a poco abbandonate dai club dei tifosi “normali”, per lasciare spazio agli striscioni ultrà. Le attività di gruppo, nei primi anni, vengono finanziate quasi sempre da collette e ogni membro ha dei compiti ben precisi: dall’organizzazione delle trasferte al seguito della squadra all’acquisto di stoffa, aste da bandiera e barattoli di vernice.

Con l’avvento degli ultrà, anche le intemperanze del pubblico cambiano completamente aspetto. Pur continuando ad esistere nei primi anni del decennio, a partire dal 1974 comportamenti quali l’invasione di campo cominciano a diminuire, mentre si moltiplicano gli scontri fra i giovani delle fazioni opposte. Molti di questi disordini affondano le loro radici nelle rivalità tradizionali (i derby fra squadre della stessa città), altri dalle colorazioni politiche delle tifoserie. La violenza rimane comunque circoscritta entro un ambito territoriale limitato, ovvero lo stadio e le sue più immediate adiacenze. I primi episodi di reale gravità non tardano però a manifestarsi. Il clima di violenza che si manifesta contemporaneamente in molti  stadi, porta l’opinione pubblica a parlare del nuovo fenomeno della violenza calcistica, tanto che vengono prese drastiche misure repressive.

L’ingrandimento dei gruppi ultrà è costante e progressivo, con file composte ormai da centinaia, e in alcuni casi anche migliaia, di aderenti. Il tifo ultrà arriva anche nelle categorie minori, ed entro la fine del decennio non c’è squadra, dalla serie A alla C/2, che non viene seguita da più o meno numerose frange giovanili organizzate. Questo moltiplicarsi dei gruppi porta, quasi necessariamente, alla nascita di una complessa rete di amicizie e di rivalità.

 

tifo anni 80 STORIA DEL TIFO ORGANIZZATO E DEL CALCIO IN ITALIA

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Il 1982 passa alla storia per il trionfo italiano ai campionati mondiali di calcio disputati in Spagna, unico vero momento aggregativo a livello nazionale, un caso pressoché unico in Europa se si considera quanto caratterizza le scene britanniche, tedesche e olandesi. Le ragioni di questa divisione insanabile tra gli ultrà italiani, che non riesce a ricomporsi nel tifo per la nazionale, sono probabilmente da ricercarsi nelle rivalità radicate fra alcune nostre città. L’immagine degli ultrà italiani si propone come modello continentale, dando il via a un movimento che toccherà l’Europa intera. La trasferta diviene un momento fondamentale nella vita di un ultrà, a cui partecipano solo i tifosi più fedeli e incuranti del pericolo che essa può comportare. Presentarsi in alcuni stadi “caldi” è così un’esclusiva di pochi; farlo senza portare il proprio striscione è considerato un disonore, un sintomo di timore, così come rubare le insegne dei tifosi ospiti rappresentava la vittoria suprema. Gli spettacoli organizzati dagli ultrà coinvolgono migliaia di persone, acquistare palloncini o pon-pon colorati costa milioni, ma la gara all’originalità è accesissima.

Purtroppo si sviluppano ancora altri lati negativi: si diffonde l’uso delle armi da taglio, i disordini si moltiplicano anche nei piccoli centri, dove le rivalità nascono spesso per emulare i gruppi più famosi e guadagnare considerazione. Il collegamento fra ultrà e politica sembra invece, nei primi anni Ottanta, affievolirsi. I gemellaggi fra tifoserie orientate in senso opposto (Fiorentina-Verona, Udinese-Bologna, ecc.) testimoniano ulteriormente quanto le amicizie fra ultrà siano ormai assolutamente indipendenti da fattori politici. In questo periodo, piuttosto, si segnala un aumento nell’uso delle sostanze stupefacenti dentro gli stadi. Mentre i tossicomani abituali, frequenti negli anni Settanta, spariscono dalle curve a causa delle perquisizioni sempre più severe, i fumatori di cannabis si moltiplicano in numero impressionante.

A metà degli anni Ottanta, il movimento ultrà italiano può dirsi dunque sulla cresta dell’onda. I gruppi contano ormai su moltissimi aderenti, hanno rapporti più o meno stabili con le società sportive, ognuno di essi è strutturato secondo scale gerarchiche e organizzative e dalle curve scompaiono i club dei semplici spettatori. Per scherzare, sbeffeggiare e innervosire, perfino umiliare il nemico, si inventano slogan, striscioni ironici, cori offensivi.

Negli anni Novanta il mondo ultrà è travolto da profondi cambiamenti e da una crisi d’identità. Molti dei valori fondanti che stavano alla base dell’essere ultras negli anni passati sono sentiti in maniera diversa, più debole, dalle nuove generazioni. Questo perché l’essere ultras diventa un fenomeno di “moda”. Dopo trent’anni di storia gli ultrà sono parte integrante del sistema calcistico, sono insostituibili e influenti, determinanti perfino nelle strategie societarie, nell’acquisto di calciatori e nell’operato degli allenatori.

La seconda metà degli anni ’90 è segnata fatalmente dall’uccisione di un tifoso genoano nel gennaio del 1995, episodio che mette a repentaglio la vita stessa del movimento ultras, già profondamente colpito da un lento ricambio generazionale, dal frazionamento delle curve e dalla crisi di identità che si aggrava con lo scioglimento di alcuni grandi gruppi ultrà che fino a quel momento rappresentavano un punto di riferimento per le rispettive tifoserie. La nuova generazione sembra più sbandata e poco incline a sottostare a gerarchie e codici di comportamenti, anche etici, che si erano consolidati nei gruppi ultras fino a quel momento. C’è stata una presa di coscienza del pericolo di una concreta estinzione, o quantomeno di un ridimensionamento, dopo l’inasprirsi della violenza negli stadi, della conflittualità con le forze dell’ordine e da una serie di disposizioni restrittive (su tutte il provvedimento di interdizione dagli stadi, la diffida o il divieto di vendere biglietti ai botteghini per i tifosi in trasferta) nonché da innovazioni epocali come quella della pay-tv. Alcuni gruppi storici come le Brigate Gialloblù del Verona e la Fossa dei Grifoni del Genoa si sciolgono, innescando un periodo di appannamento che si è protratto fino a questi ultimi anni. L’overdose del calcio, gli stravolgimenti dei calendari sempre più frammentati, gli anticipi e i posticipi, il declino dello strapotere di molti club che avevano proliferato a partire dagli anni ’60 ed il calo di presenze negli stadi (specie in trasferta), hanno dato vita ad una strisciante e incisiva rivoluzione, le cui conseguenze sono ancora tutte da interpretare. Le nuove generazioni calciofile sono “teledipendenti” e molte curve si sono date una struttura manageriale per stare al passo con i tempi, con la metamorfosi da gruppo ultrà d’azione come negli anni ’70, ad una sorta di nuovo club (sede, materiale ultrà ricercato e curato), contravvenendo a molti di quei principi che sono stati per due decenni alla base della tanto sbandierata “mentalità ultras”. Le coreografie su vasta scala, sempre più costose, sbalorditive, originali, diventano l’attrattiva di ogni partita-evento. Gli ultrà non possono deludere le aspettative che ruotano intorno ad un derby o ad un match di cartello, dove uno spettacolo scenografico della curva non può e non deve mai mancare. Scenografie sontuose, spettacolari e assai costose che nelle maggiori curve italiane hanno in parte soppiantato le coreografie incentrate su coriandoli e fumogeni degli anni precedenti.

Ma negli anni ’90 c’è stata un’altra importante inversione di tendenza per quanto riguarda soprattutto le mode da stadio e l’aspetto esteriore delle curve. Nel 1991, in seguito allo scioglimento delle Brigate Gialloblù di Verona, fautori di uno stile di tifo di stampo britannico, molte curve ripongono lo striscione, sostituendolo con tanti stendardi a “due aste”. Nasce una contrapposizione, per lo più a livello teorico, tra lo schieramento dei tradizionalisti, talvolta nazionalisti, fautori del modello classico all’italiana e i simpatizzanti del modello all’inglese, tutto battimani e stendardi. Adesso la maggioranza segue un’impostazione “mista”, una via di mezzo tra il modello italiano (organizzazione del gruppo, identità, coreografie permanenti) e il modello inglese (cori spontanei, stendardi, trasferte con il treno ordinario).

Sul piano delle relazioni tra gruppi ultras si registra una crisi dei gemellaggi. Molti rapporti di amicizia consolidati da tempo si incrinano fino ad arrivare a delle vere e proprie rotture. Una crisi, però solo apparente, come è confermato dal fatto che sono rimasti in piedi gemellaggi storici, come quello tra Genoa e Torino oppure Reggina e Bari. Contro la repressione e il controverso tema delle diffide, gli ultras si fanno sentire, attraverso i  giornalini autoprodotti che si diffondono in tutte le curve, ed anche con Internet (ormai centinaia di gruppi, piccoli e grandi, hanno la loro pagina web con la quale si raccontano e informano gli iscritti, senza filtri esterni). Una tribù che vanta centinaia di seguaci, alla ricerca di una “via alternativa” per sopravvivere ai cambiamenti del nuovo millennio.

Negli ultimi trent’anni gli ultras non hanno fatto altro che tirare le logiche conseguenze organizzative del significato del calcio come rito collettivo, delimitando territori (le curve), dando forma estetica al tifo (con coreografie, cori, slogan) e creando un “codice comportamentale” (gemellaggi, solidarietà militante, scontri limitati a nemici ultras, ecc.). Sono passati quarant’anni dalla sua nascita ed il tifo organizzato è divenuto e rimane uno dei principali fenomeni di aggregazione sociale.

Estratto del testo Tra sport e sociologia: i rituali del tifo organizzato nel calcio in Italia e Spagna”, tesi scaricabile cliccando il link sottostante.

tesi1 STORIA DEL TIFO ORGANIZZATO E DEL CALCIO IN ITALIA

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