Magazine Diario personale

Storie di fantasmi #7

Da Sambruno
Storie di fantasmi #7 Avevo scritto in questo post che io e il Sir Arthur dei racconti sovrannaturali non andiamo d'accordo.
Con quello che posto oggi, Il match, è andata un pochino meglio che con gli altri della raccolta La mummia e altri racconti.
Sarà che l'argomento principale - un incontro di pugilato alla vecchia maniera: senza guantoni - non mi è dispiaciuto, il che è stata una discreta sorpresa.
Sarà che si sente quanto a Doyle piacesse scriverne (era un peso massimo dilettante e, in genere, appassionato e praticante di altri sport). In ogni caso, non mi sono annoiata.
Il soprannaturale permea il racconto, ma esplode davvero solo alla fine, e la "forma" in cui si concretizza, insieme alle reazioni dei protagonisti, mi ha fatto mettere una pietra sopra il consueto spiegone finale.
Al di là del fatto che sono parecchio suscettibile alle storie con gli animali, gli ultimi paragrafi mi hanno dato una maligna soddisfazione.
*** Il match
Nell’anno 1878, la Guardia Nazionale a Cavallo era accampata nelle vicinanze di Luton. Gli uomini di quel grande accampamento non si preoccupavano di come ci si potesse preparare a fronteggiare la possibilità di una guerra europea ma, cosa assai più importante per loro, si davano da fare per trovare chi potesse gareggiare con il sergente Maniscalco Burton e resistere contro di lui per dieci interi round.
Il manesco Burton era un uomo corpulento ma di buone proporzioni, sia di muscoli che di ossatura, e capacissimo di dare sventole con tutte e due le mani che toglievano i sensi ai malcapitati che le ricevevano. Bisognava a tutti i costi trovare un avversario che lo vincesse, altrimenti c’era il pericolo che la sua testa diventasse così grossa da non poter portar più l’elmo da dragone. Perciò, Sir Fred Milburn, soprannominato il «brontolone» fu mandato a Londra con l’incarico di trovare, fra tutti quegli uomini dalle abitudini insolite, qualcuno che prendesse il treno per Luton e venisse a far calare la boria al vigoroso dragone.
Correvano brutti tempi per il pugilato. I vecchi combattimenti a mani nude erano finiti in mezzo a scandali e a ignominie, rovinati da una folla disonesta di allibratori e di mascalzoni di ogni specie che vivevano ai margini di questo sport. Essi avevano portato vergogna e rovina su quei pochi pugili onesti che erano stati ridotti a un piccolo numero di umili eroi il cui spirito cavalleresco non fu mai più superato.
Se uno sportivo onesto desiderava vedere una gara di pugilato, veniva generalmente assalito da bande di birbanti contro cui non poteva trovare alcun rimedio poiché, tecnicamente, egli stesso compiva un’azione illegale. Veniva così spogliato pubblicamente per strada, derubato e, se per caso cercava di difendersi, lo si uccideva a colpi sulla testa. A quel tempo, potevano assistere alle gare solo quegli uomini che sapevano difendersi con randelli o frustini da caccia, e perciò quel classico sport era presenziato solamente da individui che non avevano nulla da perdere.
D’altra parte, l’epoca del combattimento con i guantoni, fatto in luoghi speciali, non era ancora cominciata, e lo sport attraversava un periodo intermedio poiché non era possibile regolarlo ed era, al tempo stesso, impossibile abolirlo. Nessuno sport piaceva così tanto all’inglese medio come il pugilato. Si tenevano, perciò, incontri combinati alla meglio dentro stalle e granai. Spesso, quando era possibile, si faceva anche una scappata in Francia.
Si erano combinati altresì incontri segreti all’alba in parti poco note della campagna e si facevano esperimenti pieni di sotterfugi. Così, a poco a poco, gli uomini si comportavano disonestamente come disonesto era diventato il loro ambiente. Ne seguì logicamente che non si poteva tenere una gara onesta all’aperto, e solo i peggiori millantatori riuscivano a raggiungere le posizioni di preminenza.
Proprio a quel tempo, al di là dell’Oceano Atlantico, era apparsa la figura possente di John Lawrence Sullivan che era destinato a essere l’ultimo combattente del sistema antico e il primo di quello moderno che ne seguì.
Le cose stavano così, e perciò lo sportivo capitano della Guardia Nazionale non trovò facilmente, né nei saloni della boxe né nei circoli sportivi di Londra, un individuo di cui poteva fidarsi per un buon match contro il sergente Maniscalco. I pesi massimi dovevano essere comprati.
Finalmente scelse un eccellente peso medio, Alf Stevens di Kentish Town, la cui stella stava crescendo e che non era mai stato sconfitto. Questi aspirava, con qualche possibilità, al titolo: la sua esperienza professionale e il mestiere stesso lo avrebbero sicuramente aiutato a sopperire ai ventun chilogrammi di peso che lo separavano dal fortissimo dragone.
Sir Fred Milburn lo ingaggiò sperando in questa sua qualità, e fece i preparativi per portarlo all’accampamento della Guardia Nazionale col suo calesse trainato da una pariglia di veloci cavalli grigi. Dovevano partire di sera, viaggiare su per la grande Strada del Nord, dormire a St Albans, e terminare il viaggio il giorno seguente.
Il pugile incontrò lo sportivo baronetto a Golden Cross mentre Bates, il piccolo palafreniere, stava accanto ai focosi cavalli. Stevens, un giovanotto dalla faccia pallida, salutò con la mano una comitiva di pugili, uomini rozzi, scamiciati, e dalla giacca a doppio petto, che si erano adunati per dirgli addio.
«Buona fortuna, Alf!», gli dissero in coro, mentre il palafreniere non tratteneva oltre i cavalli e saliva sul retro: così l’alto calesse girò rapidamente la curva entrando in Trafalgar Square.
Sir Frederick dapprima si occupò di guidare il calesse in mezzo al traffico di Oxford Street e di Edgware Road, e perciò non ebbe tempo per pensare ad altro. Quando arrivò alle soglie della campagna vicino a Hendon, si era finalmente lasciato dietro le lunghe e monotone file di case di mattoni; allentò le redini dei cavalli e li fece finalmente andare al passo, così che poté dare uno sguardo al giovane che gli sedeva accanto.
L’aveva infatti trovato per corrispondenza e tramite raccomandazioni, per cui non riusciva a nascondere la curiosità che sentiva per lui mentre lo osservava. Scendeva già la sera e non c’era più tanta luce, ma quello che il baronetto riusciva a vedere gli piaceva abbastanza. L’uomo aveva l’aspetto del vero lottatore: era asciutto di membra e con un torace largo: le sue guance erano lunghe e gli occhi incavati, segni, questi, di coraggio e ostinazione. Soprattutto dimostrava di non aver ancora incontrato chi lo avesse vinto, e perciò lo sosteneva quella fiducia in se stesso che non si trovava mai completamente dopo una sconfitta. Il baronetto rideva dentro di sé pensando a quale sorpresa stava riportando a nord per l’incontro con il sergente.
«Credo che voi seguiate un certo addestramento, Stevens», disse voltandosi verso il compagno seduto al suo fianco.
«Naturalmente, signore, sono preparato a lottare per la vita!».
«Così mi sembra, guardandovi bene».
«Conduco una vita regolare, signore, ma per questo fine settimana fui scelto per combattere contro Mike Connor e pesavo quindici libbre di meno. Ma lui pagò la multa, e ora sono qui in piena forma».
«È una bella fortuna! E di fortuna ne dovete avere parecchia per combattere un uomo che ha un vantaggio su voi di 21 chili di peso e dieci centimetri di altezza».
Il giovanotto sorrise. «Ho avuto incontri ben più eccezionali di questo, signore».
«Non lo metto in dubbio, ma quell’uomo sa combattere bene».
«Benissimo, signore: nella vita non si può fare altro che il nostro meglio».
Al baronetto piacque il tono modesto e allo stesso tempo pieno di fiducia del giovane pugile.
All’improvviso gli venne in mente un’idea divertente e non poté fare a meno di mettersi a ridere.
«Per Bacco!», disse. «Che bello spasso sarebbe se il Bullo fosse in giro stanotte!».
Alf Stevens drizzò le orecchie. «E chi sarebbe questo tale, signore?»
«Per la verità questo è quello che tutti si chiedono. Alcuni dicono di averlo visto, altri dicono che è il frutto di una pura invenzione, ma è comunque evidente che sia un vero uomo con un paio di pugni formidabili che lasciano il segno».
«E dove vive costui?», chiese il giovane.
«Proprio in questa strada, fra Finchley ed Elstree, a quanto si dice. Sono due persone che escono di notte quando la luna è piena e sfidano i passanti a fare una partita di pugilato nel vecchio stile di un tempo. Uno di loro lotta, l’altro fa il secondo. E vi posso assicurare che quell’uomo sa veramente combattere. C’è gente che è stata trovata la mattina dopo con la faccia tutta rotta: una dimostrazione più che sufficiente di come è capace di lottare il Bullo».
Alf Stevens mostrò un grande interesse. «Ho sempre desiderato fare un combattimento alla maniera antica, signore, ma non ne ho avuto mai l’occasione. Io credo che combatterei meglio così che con i guantoni».
«Allora non rifiutereste di combattere contro il Bullo?»
«Rifiutare? Farei dei chilometri per incontrarlo!».
«Sarebbe veramente una cosa meravigliosa!», gridò il Baronetto. «Bene, la luna è piena, e il posto dovrebbe essere questo».
«Se è un pugile bravo come dite, dovrebbe essere conosciuto dagli altri lottatori, a meno che non sia un dilettante che si diverte a modo suo in questa maniera».
«Alcuni pensano che sia un mozzo di stalla, oppure un fantino, perché laggiù ci sono delle scuderie. E dove ci sono i cavalli, si sa, c’è anche il pugilato. Se si può credere ai racconti, sembra che ci sia qualcosa di strano e bizzarro in quell’uomo. Ma guardate, guardate là!».
La voce del baronetto aveva assunto un tono di sorpresa e d’ira. In quel punto la strada iniziava a discendere e raggiungeva una valletta circondata da alberi frondosi che di notte davano l’impressione di formare l’entrata di una galleria. Ai piedi della discesa vi erano due grandi pilastri di pietra che, visti di giorno, apparivano entrambi consunti dal tempo e ricoperti di licheni con degli stemmi nobiliari scolpiti sopra. Erano così rotti e mutilati dalle intemperie, da apparire solo dei pezzi di pietra. Un cancello di ferro dal disegno elegante si ergeva a malapena trattenuto da cardini arrugginiti, ricordo di glorie passate e della attuale decadenza di Brocas Old Hall, che si intravedeva alla fine di una viale coperto di erbacce.
Proprio da dietro questo cancello si era mossa una figura umana e si era piantata nel mezzo della strada mentre, al contempo, aveva afferrato rapidamente i cavalli che si drizzarono sulle zampe posteriori e scalpitarono perché li aveva fatti indietreggiare.
«Vieni qui, Rowe, trattieni i cavalli!», urlò una voce stridente. «Io devo dire un paio di parole a questo corinzio vestito all’ultima moda, prima che vada avanti».
Un altro uomo era apparso dall’ombra e, senza parlare, aveva afferrato la testa dei cavalli. Era un uomo piccolo e robusto, vestito stranamente di marrone con un soprabito con mantellina che gli arrivava fino alle ginocchia e da cui spuntavano stivali e uose. Non aveva il cappello, e gli uomini del calesse lo poterono vedere bene mentre passava davanti alle lampade laterali: aveva una faccia rossa e arcigna, senza barba, e il labbro inferiore malformato. Una cravatta nera e alta gli avvolgeva strettamente il collo.
Afferrò le redini, e il suo compagno saltò fuori e appoggiò una delle sue mani ossute sul lato del parafango. Allo stesso tempo si mise a guardare attentamente la faccia dei passeggeri con due occhi azzurri dall’espressione feroce mentre la luce lo illuminava molto chiaramente.
Aveva un cappello calato giù sulla fronte ma, malgrado l’ombra che questo proiettava, sia il baronetto che il pugile lo vedevano tanto bene da desiderare di allontanarsi da lui, perché quello che avevano di fronte era un viso cattivo, crudele e forte al tempo stesso, arcigno, granitico, dal naso grosso: una faccia feroce con una bocca inflessibile che rivelava un carattere che non avrebbe mai chiesto misericordia né tantomeno l’avrebbe accordata.
In quanto alla sua età, si poteva senza dubbio pensare che un uomo che aveva quella faccia era giovane abbastanza da far uso di tutta la sua virilità, ma allo stesso tempo era abbastanza vecchio da aver provato tutte le peggiori esperienze della vita. Con i suoi occhi freddi e selvaggi, osservò con attenzione prima il baronetto, poi il giovane vicino a lui.
«Mio Dio, Rowe, è un damerino di Corinto, come ho già detto», disse voltandosi verso il suo compagno. «Ma quest’altro è molto peggio. Se non sa picchiare, dovrebbe impararlo. Comunque, lo metterò alla prova».
«State attento!», disse il baronetto. «Non so chi siate; da parte mia so solo che siete un impertinente maleducato e non ci metterei molto a darvi una frustata sul viso!».
«Smettete di chiacchierare così, caro signore! Non è saggio parlarmi in questo modo!».
«Ho sentito parlare di voi e delle vostre maniere!», gridò l’ufficiale pieno d’ira. «Vi insegnerò io a fermare i miei cavalli sulla Strada Maestra della Regina! Questa volta avete sbagliato nello scegliere i vostri uomini, caro il mio signore, come imparerete presto!».
«Può essere», disse lo sconosciuto. «Può darsi però che tutti noi impareremo qualcosa prima di lasciarci. L’uno o l’altro di voi due dovrà scendere e combattere prima che possiate continuare il viaggio».
Stevens era saltato improvvisamente giù nella strada. «Se volete combattere, siete venuto dalla persona giusta», gli disse. «Combattere: questo è il mio mestiere, quindi non dite che poi vi ho combattuto senza avervi avvisato».
Lo sconosciuto dimostrò la sua soddisfazione urlando. «L’avevo detto io!», gridò. «È uno che picchia, Joe. Non più campagnoli per noi, ma veri lottatori. Bene, giovanotto, avete trovato chi vi vincerà. Vi è mai capitato di sentire ciò che Lord Langmore ha detto di me? Disse che per battermi, un uomo doveva essere nato in un modo speciale. Questo disse Lord Langmore».
«Questo accadde prima che si facesse avanti il Toro», brontolò l’uomo che stava davanti, parlando per la prima volta.
«Smettila con gli scherzi, Joe! Se dici ancora una sola parola sul Toro, finiremo per litigare. Mi ha vinto una volta ma, se mai lo rincontrerò, lo vincerò io, e non si ripeterà di certo la sconfitta. Ebbene, giovanotto, che cosa pensi di me?»
«Credo che tu abbia una bella faccia tosta!».
«Faccia tosta? Che vuol dire?»
«Vuol dire sfacciataggine, e tu sei uno smargiasso pieno di ciance, se preferisci che ti chiami così».
Quest’ultima parola ebbe un effetto sorprendente, perché lo sconosciuto si batté la gamba con una mano e scoppiò in una risata così fragorosa da sembrare un nitrito, mentre il suo arcigno compagno cominciava a ridere smodatamente anche lui.
«Bello mio, hai usato le parole giuste!», strillò quest’ultimo. «Ciance è la parola giusta, non c’è dubbio. Benissimo, adesso c’è una bella luna, ma è circondata da nubi. È meglio far buon uso della luce finché dura».
Mentre l’uomo parlava così, il baronetto si era messo a guardare il vestiario dello sconosciuto e ne era rimasto sorpreso: i vestiti tradivano il suo mestiere di stalliere ma, nondimeno, tutto il suo aspetto era eccentrico e antiquato. Aveva in testa una tuba dal color bianco-giallastro, fatta di castoro a pelo lungo (come portano ancora oggi alcuni vetturini di carrozze a doppia pariglia) con il centro a forma di campana e la testa arricciata in su. Indossava una marsina dalla vita corta, e le lunghe code erano color tabacco con i bottoni d’acciaio. Era aperta sul davanti, e lasciava vedere un panciotto di seta a righe mentre i calzoni di camoscio erano alla zuava. Calze blu e scarpe a tacco basso completavano l’abbigliamento. Il corpo era angoloso e suggeriva un’attività scattante. Questo Bullo di Brocas era indubbiamente una persona molto eccentrica, e il giovane ufficiale dei dragoni stava ridendo fra sé e sé pensando alla bella storia che avrebbe potuto raccontare alla mensa parlando della lotta con quella figura strana e della sconfitta che avrebbe rimediato dal famoso pugile londinese.
Billy, il piccolo stalliere, aveva preso in custodia i cavalli che tremavano e sudavano.
«Andiamo di qua», disse l’uomo robusto, dirigendosi verso il cancello. Il luogo era quanto mai sinistro, buio e misterioso, con quei pilastri che cadevano a pezzi e gli alberi che formavano un arco. Né il baronetto, né il pugile, si sentivano a loro agio in quel luogo.
«Dove andiamo?»
«Questo non è un luogo adatto a un combattimento», disse l’uomo robusto. «Dentro il cancello c’è un luogo così bello, come non avete mai visto in vita vostra. Nessun luogo è più bello di Molesey Hurst».
Stevens rispose che la strada gli andava benissimo.
«La strada va bene per due ragazzi inesperti», gli rispose l’uomo dal cappello di castoro, «ma non è adatta a due lottatori come noi. Non avrete mica paura per caso?»
«No di certo!», disse Stevens coraggiosamente. «Non ho paura né di voi né di dieci persone come voi».
«Benissimo! Allora venite con me e facciamo le cose in regola».
Sir Frederick e Stevens si guardarono rapidamente.
«Per me va bene», disse il pugile.
«Allora andiamo».
I quattro oltrepassarono il cancello e, dietro di loro, si potevano udire i cavalli che nell’oscurità scalciavano e si impennavano, mentre la voce dello stalliere si sforzava invano di placarli. Dopo aver camminato una cinquantina di metri sul viale coperto di erba, l’uomo voltò a destra, addentrandosi in mezzo a degli alberi folti, finché non giunsero a una rotonda radura erbosa, bianca e luminosa sotto la luna. Aveva un bordo rialzato e, più lontano, si poteva scorgere un padiglione di pietra circondato da colonne, quasi un bersò, così amato all’epoca delle prime costruzioni georgiane.
«Che cosa vi ho detto?», gridò l’uomo robusto, pieno di soddisfazione. «Potreste trovare un posto migliore nel raggio di venti chilometri dalla città? Fu costruito per la lotta. Adesso, Tom, cominciate a combattere, e mostrategli quello che sapete fare».
Tutto questo pareva un sogno straordinario. Quegli uomini strani, il loro strano vestiario, il loro strano modo di parlare, quel cerchio rotondo di erba e la casetta circondata da colonne, tutto sembrava far parte di una fantastica realtà. Solo la vista di Stevens e del suo abito di tweed mal tagliato riportò il baronetto al presente.
Lo sconosciuto magro si era tolto il cappello di scoiattolo, la marsina e il giubbotto di seta, e alla fine il suo amico gli tolse anche la camicia sfilandogliela dalla testa. Stevens a sua volta si preparava per la lotta con modi freddi e lenti.
Poi i due lottatori si voltarono faccia a faccia. Questo loro movimento costrinse Stevens a una esclamazione di sorpresa e di orrore perché, quando il suo antagonista si era tolto il cappello, aveva lasciato scoperta una orribile ferita sulla testa. Tutta la parte alta della fronte era come fosse stata tagliata, e sembrava esserci una larga ferita fra le sopracciglia e i suoi capelli tagliati corti.
«Buon Dio», gridò il giovane pugile, «ma che cosa ha quest’uomo?»
A questa domanda il suo antagonista sembrò cadere in preda a una fredda furia.
«Voi state attento alla vostra di testa, signor mio! », disse. «Sono certo che troverete abbastanza da fare per difenderla senza dover badare alla mia!».
Queste parole fecero sghignazzare il suo compagno. «Ben detto, Tommy!», gridò.
L’uomo chiamato Tom stava dritto nel centro del ring naturale, con le mani alzate. Sembrava un uomo grosso quando era vestito, ma sembrava ancora più grosso con le brache marroni, il petto rotondo, le spalle inclinate e le braccia muscolose che pendevano giù scioltamente, come se fossero create proprio per quella lotta. I suoi occhi feroci splendevano fieramente sotto le sopracciglia deformate, e le labbra erano scolpite in un sorriso fisso e torvo, molto
più minaccioso di una smorfia severa. Il pugile confessò, mentre gli si avvicinava, che non aveva mai visto un uomo più formidabile di quello.
Ma nel suo cuore coraggioso si faceva sempre più strada insistentemente un pensiero: e cioè che non aveva ancora trovato un avversario che lo avesse potuto vincere, e gli sembrava quasi impossibile che lo avesse trovato in quell’uomo dalle vesti antiquate, incontrato in una strada di campagna. Fu perciò come in risposta a questo pensiero che sorrise e si mise in posizione, alzando le braccia.
Ma quello che seguì fu completamente diverso da ogni sua passata esperienza. Lo sconosciuto simulò un attacco con il braccio sinistro e lanciò avanti il destro con tanta rapidità e forza, che Stevens ebbe appena il tempo di evitarlo e di attaccarlo con un breve pugno mentre l’avversario gli si lanciava contro. Un minuto dopo, le mani ossute dell’uomo lo avevano completamente afferrato, e il pugile fu lanciato in aria con una mossa trasversale, per poi ricadere a terra nell’erba con un tonfo pesante. Lo sconosciuto si tirò indietro e incrociò le braccia mentre Stevens si rialzava a fatica e un’ondata di rabbia gli arrossava le guance.
«Ascoltami bene!», gridò. «Che razza di gara credi di fare?».
«La dichiariamo una mossa irregolare!», urlò il baronetto.
«Irregolare un corno! È stata una mossa regolarissima!», disse l’uomo robusto. «Con quali regole giocate?»
«Le regole di Queensberry, come tutti».
«Mai sentite nominare. Noi gareggiamo con le regole delle gare di pugilato a premio londinesi».
«Continuiamo allora!», urlò Stevens fuori di sé. «So fare anch’io molto bene la lotta libera. E non mi troverai più mezzo addormentato!».
E infatti successe così. Quando lo sconosciuto gli si lanciò contro, Stevens lo afferrò saldamente e, dopo varie oscillazioni e tentennamenti, caddero entrambi per terra come cani. Questo accadde tre volte, e ogni volta lo sconosciuto andò vicino al suo amico, si mise a sedere sul bordo erboso e poi ricominciò.
«Che cosa pensi di questo individuo?», chiese il baronetto durante una di queste pause.
Stevens perdeva sangue da un orecchio ma non mostrava altre ferite.
«Sa bene quel che fa, ma non so dove abbia imparato queste regole. Dev’essersi allenato moltissimo. È forte come un leone e duro come il legno, nonostante quella sua strana faccia».
«Cerca di superarlo nella lotta. Credo infatti che tu sia migliore in questa disciplina».
«Non credo di essere sicuro di essere migliore in niente, ma farò del mio meglio».
Fu una lotta disperata e, come le riprese si susseguirono le une alle altre, il baronetto vide chiaramente che il suo campione di pesi medi aveva trovato chi gli teneva testa.
Lo sconosciuto attaccava velocemente e colpiva saltando, il che lo rendeva un nemico assai temibile. Sembrava insensibile ai colpi, sia che questi gli giungessero sulla testa o sul corpo, e quel suo sorriso così orribile e maligno non abbandonò mai, nemmeno per un minuto, le sue labbra.
Picchiava tremendamente con dei pugni duri come pietre, e i suoi colpi arrivavano fischiando da ogni parte. Aveva un colpo particolarmente pericoloso, dal basso in alto, diretto alla mascella, che molto spesso fu sul punto di colpire Stevens, finché alla fine riuscì a evitare la sua difesa e lo stese per terra. L’uomo grosso lanciò un grido di trionfo.
«Lo hai colpito ben bene, non c’è dubbio. Ormai Tommy sta vincendo. Un altro colpo come questo, ragazzo mio, e voi siete fritto!».
«Sentite un po’, Stevens: questa sta diventando una cosa seria», disse il baronetto mentre sosteneva l’uomo già stanco. «Che cosa dirà il reggimento se gli porto qualcuno come voi fatto a pezzi in una gara casuale? Stringetegli la mano e ditegli che ha vinto; altrimenti non potrete più fare altre lotte».
«Dirgli che ha vinto? Certamente no!», gridò Stevens arrabbiatissimo. «Prima che mi ammazzi, voglio togliergli quell’orribile riso dal suo ancor più orribile muso».
«E che farete con il sergente?»
«Preferisco tornare a Londra e non vedere mai più il sergente piuttosto che umiliarmi davanti a questo tipo».
«Che ne dite? Ne avete avuto abbastanza?», gli chiese il suo avversario in tono di scherno, mentre si alzava in piedi.
Come risposta Stevens balzò avanti e si precipitò contro l’uomo con tutta l’energia che gli era rimasta. Con la forza della disperazione dapprima lo fece indietreggiare e, per un lungo minuto, sembrò vincere con i suoi colpi. Ma quel lottatore di ferro non pareva stancarsi. I suoi passi e i suoi pugni erano egualmente forti quando quella lunga serie di colpi finì.
Stevens sembrò rallentare un po’, preso da grande stanchezza. Ma il suo antagonista non rallentò, e venne avanti contro di lui con una gragnuola di colpi furiosi che misero fuori combattimento le difese del pugile. Alf Stevens era allo stremo delle sue forze e sarebbe crollato a terra, se un fatto assai strano non fosse intervenuto.
Abbiamo detto che, per raggiungere la rotonda, i quattro uomini erano passati attraverso un boschetto.
All’improvviso si udì in mezzo ai folti alberi un grido acuto, come se qualcuno fosse sul punto di morire. Il grido sembrava quello di un bambino o di un’altra creatura del bosco che soffrisse. Il suono era indistinto, acuto, pieno di malinconia.
Lo sconosciuto, che aveva vinto Stevens costringendolo a inginocchiarsi, a quel suono cominciò a barcollare all’indietro. Si guardò intorno con la faccia atteggiata a un’espressione di terrore impotente. Il sorriso era sparito dalle sue labbra e queste, rimanendo semiaperte, esprimevano uno spavento indicibile.
«Mi sta ancora seguendo, amico mio!», gridò.
«Non cedete, Tom: lo avete quasi battuto! Non può farvi del male».
«Mi può far del male. Mi farà del male!», urlò il lottatore. «Mio Dio, non lo posso affrontare! Ecco, lo vedo… sì lo vedo, lo vedo!».
Con un urlo di paura si voltò e fuggì nella boscaglia. Il suo compagno, bestemmiando ad alta voce, raccattò il mucchio di vestiti, e lo seguì di corsa. L’uno e l’altro scomparvero nell’oscurità.
Stevens, mezzo svenuto, raggiunse barcollando il bordo erboso e appoggiò la testa sul petto del baronetto che gli dette da bere del brandy dalla sua borraccia. Mentre sedevano entrambi sul prato, sentivano che gli urli si avvicinavano, e al tempo stesso aumentavano di intensità. All’improvviso ecco che dai cespugli corse fuori un piccolo cagnolino bianco che pareva seguisse una pista, e che emetteva guaiti in maniera commovente. Si accovacciò sulle zolle erbose senza neppure guardare i due giovani poi, improvvisamente, svanì nelle tenebre.
Mentre accadeva tutto questo, il baronetto e il suo compagno scattarono in piedi e cominciarono a correre con tutte le loro forze per allontanarsi il più possibile dal cancello e dalla trappola che questo nascondeva. Erano in preda al terrore, un timor panico che erano incapaci di controllare con la ragione. Tremando e vacillando, raggiunsero il calesse e vi si gettarono dentro esausti, non riuscendo a parlare finché più di due miglia non li separarono dal quel funereo luogo.
«Avete mai visto un cane così?», chiese il Baronetto.
«No», rispose Stevens gridando. «Prego Iddio di non vederlo mai più».
Più tardi i due viaggiatori si fermarono a una locanda chiamata Il Cigno vicino al bosco di Harpenden. Il baronetto conosceva l’oste da lungo tempo e lo invitò dopo cena a bere un bicchiere di Porto con loro.
L’oste de Il Cigno, Joe Horner, era un famoso sportivo e parlava senza fine degli eventi e delle leggende, vecchie e recenti, del pugilato. Il nome Alf Stevens gli era ben noto e lo guardava con grande interesse.
«Voi, signore, avete combattuto recentemente, eppure non ho letto nei giornali notizia alcuna di gare».
«Vi prego, non parlate più di questo argomento», disse Stevens sgarbatamente.
«Non volevo certo offendervi!». Poi, cambiando l’espressione sorridente della sua faccia e diventando all’improvviso serio gli disse: «Spero che non abbiate incontrato per caso colui che chiamano il Bullo di Brocas, dal momento che viaggiate verso nord, non è vero?».
«E se lo avessimo incontrato?»
L’oste mostrò la sua eccitazione.
«È stato lui che quasi uccise Bob Meadows. Lo fermò al cancello del vecchio castello chiamato Brocas: e non era solo, poiché c’era un suo compagno. Ebbene, Bob era un fortissimo lottatore ma fu trovato il giorno dopo battuto, quasi fatto a pezzi, in un prato dentro il cancello, proprio dove c’è la serra».
Il baronetto assentì con un cenno della testa.
«Allora voi siete stati là!», gridò l’oste.
«E va bene. Diciamo pure la verità», disse il baronetto guardando Stevens. «Siamo stati là e abbiamo incontrato l’uomo di cui parlate: un’orribile figura! Sotto tutti i punti di vista!».
«Raccontatemi», disse l’oste, parlando piano, quasi bisbigliando. «È vero quello che dice Bob Meadows, e cioè che quegli uomini sono vestiti come i nostri nonni e che il pugile ha la testa tutta rotta?»
«Certamente sono vestiti all’antica e la testa del pugile era la più strana che abbia mai visto».
«Santo Cielo!», esclamò l’oste. «Sapete, signore, che Tom Hickman, il famoso pugile, insieme al suo amico Joe
Rowe, un argentiere della City, furono uccisi proprio in quel luogo nell’anno 1822, quando il pugile era ubriaco e tentò di guidare un carretto all’incontrario? Entrambi morirono e la ruota del carro schiacciò la fronte di Hickman».
«Hickman! Hickman!», disse il Baronetto. «Non certo quell’Hickman, il Controllore del Gas?»
«Sì, signore, proprio lui, che fu soprannominato il Gas. Vinse tutte le gare con quello che chiamarono il suo “colpo guizzante” e nessuno poté resistergli eccetto quando incontrò Neale, che era stato soprannominato il Toro di Bristol. Ebbene, il Toro lo vinse».
Stevens si era alzato dalla tavola bianco come un lenzuolo.
«Andiamocene, signore. Voglio una boccata di aria fresca. Continuiamo il viaggio».
L’oste gli dette una pacca sulle spalle.
«State su, ragazzo mio! Voi non gli avete ceduto e questo è più importante di quanto gli altri non abbiano mai fatto. Sedetevi e bevete un altro bicchiere di vino perché stasera se c’è qualcuno che lo merita fra tutti gli uomini di quest’isola, questo qualcuno siete proprio voi. Ci sono molti debiti che voi avete saldato picchiando il Controllore del Gas. Morto o vivo. Sapete che cosa fece una volta proprio qui, in questa stanza?».
I due viaggiatori si guardarono intorno con occhi sorpresi. La stanza era alta, costruita in pietra e ricoperta di pannelli di quercia; un grande camino era acceso in una delle pareti più lontane.
«Sì, proprio in questa stanza. L’ho sentito raccontare dal vecchio scudiero Scotter che era presente quella sera. Era il giorno in cui Skelton aveva battuto Josh Hudson a St Albans e il Gas aveva vinto un mucchio di denari con quella gara. Con il suo amico Rowe venne qui, interrompendo il viaggio, ed era completamente ubriaco. Gli avventori si rifugiarono negli angoli e sotto le tavole perché camminava qua e là come se cercasse qualcosa, con una grande mazza di ferro in mano e sulla faccia una brutta espressione, quasi volesse uccidere qualcuno.
Diventava così, crudele e temerario, e terrorizzava tutti quando aveva bevuto. Bene.
Sapete quel che fece con quella mazza? C’era un cagnolino, mi hanno detto, rannicchiato vicino al fuoco perché era una notte fredda di dicembre. Il Controllore del Gas gli ruppe la schiena con la mazza. Con un solo colpo. Poi proruppe in una risata e disse anche un paio di parolacce a due o tre uomini che si stavano allontanando da lui. Ritornò al calesse che aspettava fuori e non avemmo più sue notizie fino a quando ci dissero che lo avevano portato a Finchley colla testa fracassata dalla ruota del carro.
Sì, si dice che il cagnolino con la schiena rotta e sanguinante sia stato visto aggirarsi nelle vicinanze di Brocas Corner, trascinandosi ed emettendo guaiti come se cercasse quel porco che lo aveva ammazzato. Così, Signor Stevens, voi avete combattuto non solo per voi stesso, stanotte, quando avete incontrato quell’uomo».
«Sarà così, senz’altro», disse il giovane pugile, «ma io non voglio più combattimenti del genere. Il sergente Maniscalco mi va bene, signore, e, se non avete nulla in contrario, prenderemo il treno per tornare in città».
*** Ecco: dopo aver letto con somma soddisfazione del brutale Controllore del Gas terrorizzato dallo spettro del cagnolino che aveva massacrato, il neurone mi ha fatto presente questa scena tratta da un episodio di Supernatural.
Giovedì, se vi va, Sir Conan Doyle e le Fate di Cottingley Glen

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