Magazine Diario personale

su questa stupida panchina d'aprile

Da Bellocks
Mi domandi se la febbre è passata, cose del genere. Fai un sorriso che non m’aspetto e che si applica come gomma americana sugli zigomi scavati. Abbasso lo sguardo perché non me lo merito questo tuo modo di startene al mondo, questo accenno di vita puramente formale, retorico. Ma tu m’incalzi di nuovo come se fossi io il malato, la persona speculare a cui elemosinare quel po’ di tempo che resta.
Piuttosto parliamo di noi, di come ci siamo incontrati. Raccontami il momento più bello, parlami di Sally, la canticchiavi sempre e non me la ricordo già più. Come spiegare la tua dipartita, come spiegarla a me e poi a tutti quelli che verranno quando tu non sarai già più in tempo. Come prepararmi per quel trillo di telefono, rispondere che si, io l’avevo compreso, io c’ero ma non l’ho potuto fermare, quel pezzetto di mondo.
Ho la vista annebbiata, un bel po’ di alcool che sembra non sortire il suo effetto, e un blister di antibiotici da gestire in fondo allo stomaco. Sei qui, a nemmeno dieci centimetri dalle mie mani, e non trovo la forza di allungare un mignolo. Il futuro si arresta, il passato se la ride, le aspettative giacciono moribonde su di un lettino d’ospedale che sembra più luminoso di tutti gli altri. Ma è solo il tramonto che ci sbatte di contro, sono i miei occhi che non la smettono di fissare l’intercapedine anodizzata delle finestre della stanza 14, sono io che non voglio capirci più nulla di tutto questo mondo assurdo di affrontare le cose e vedersele ogni volta sfumare, morire d’inedia.
Ora la musica è davvero forte, ce l’ho nelle orecchie perché tu ora la stai fischiettando, e vorrei poterti scandire ogni singola parola perché a ripeterla nel frastuono dei parenti si perde tutta quella retorica che a me tanto necessita. Mi concedo un altro giro di sotto, solo un altro giro al bancone per rinfrancare il coraggio e mischiare le carte. Ti lascio ancora per dieci minuti, lo so che non l’ho mai fatto, che da quando è successo mi sento come una barchetta a cui hanno negato il largo; ma da quando lo faccio mi sento anche un po’ meglio. Forse è così che funziona, forse le cose le capisci meglio quando ci bevi sopra. Le persone vanno e vengono sul vano 14 e io la parte del numeretto non me la sento proprio. Non con te. Non oggi.
Scendo le scale fino al piano terra e mi viene la paura di aver dimenticato qualcosa più indietro, la colazione a letto, le molliche sull’inguine o magari tutto il resto, che ne so. Perché la colazione a letto c’entra con l’amore che non si racconta, e perché è così che troppo spesso le lascio andare, le cose: di mattina presto il più delle volte, con una tazzina di caffè in una mano e la sigaretta nell’altra. In mutande.
Sorseggio la mia storia, ne assaporo il retrogusto, me la passo sulla lingua e tra i denti, la guardo scendere velocemente giù per le scale, voltarsi un attimo e infine buttarsi in strada ingoiata dal traffico. Per sempre. E’ così che vanno le mie, di cose.
Mi fermo solo un attimo per le sigarette, due battute col barista, qualche considerazione sulla finalissima di Champions, poche parole gettate sul bancone come fossero spiccioli di mancia. E poi il vodka lemon che brucia nell’esofago e di colpo tutto il passato che affiora trasparente quanto il cristallo limpido del bicchiere vuoto. Ma è solo un rapido, ingenuo, colpetto di tosse.
E allora corro, corro più forte dei blocchi della ZTL, corro più forte di ogni mia insicurezza. Guardo con la coda dell’occhio tutte le uscite della E45 sfilare via come fossero birilli, guardo la vita appiccicata come una zanzara sullo specchietto retrovisore della mia Clio 1.2 metallizzata come il cielo. E chissenefrega se stasera uso il clacson come un macete da cultori della strada, stasera perdo troppo e mi godo la vita annaspare dall’altra parte della carreggiata, almeno quello.
Parcheggio in centro, faccio spalle larghe sui divieti di sosta. Mi guardo bene dalle tute bianche della municipale, stasera ho solo voglia di giocare a mosca ceca e mettermi a riparo dal mondo. Quand’ero piccolo il mondo stava tutto nell’oscurità di un nascondiglio e non c’era bisogno di andarselo a cercare perché era il mondo che ci pensava. Anche quando per strada non c’era nessuno e la strada sembrava un cemento liquido che scorreva lento sulle chiatte grigie della tangenziale, era il mondo e i suoi sacchi d’immondizia che ti venivano a trovare. E poi gatti neri e camole da pastura a banchettarci sopra. E quando il mondo ti trovava finiva tutto con una conta fino a dieci, e a quel punto ero io che facevo il mondo e tutto il resto che si andava a nascondere sempre troppo lontano. Adesso non sono più mondo e non sono più niente, ho solo paura che tra non molto mi verrai a stanare e che mi troverai impotente, inetto, su questa stupida panchina d’aprile.
Attendo la tua comparsa, gli incisivi rugano i polpastrelli, la paura che sai pazientemente trasmettermi. Apprendi il codice della mia insicurezza, tu sai come smettere il gioco.
Faccio le scale due a due, guardo la mia faccia riflessa sui piani opachi del dipartimento. Il tramonto è bellissimo, i raggi bucano le vetrate e si spalmano sulle piastrelle bianche azzurre del policlinico. Stasera ho smesso il vestito migliore e indossato il buonumore fresco di bucato. La notte mi sorride, le luci del reparto rallegrano i miei passi, le donne ricambiano fiduciose il mio sguardo.
- Ci vediamo in centro davanti all’arco.
- Ok. Davanti all’arco, domani.
E’ così che ci siamo incontrati, ora ricordo.
Dai che ce la facciamo con le fragole e con i brividi che se ne volano via. La follia è un aeroplano che barcolla al decollo, e vivere non è mai stato semplice se non c’eri più tu.

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