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Suburra: Roma kaput mundi – recensione

Creato il 15 ottobre 2015 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

Suburra di Stefano Sollima: tra cinema di genere e Mafia Capitale, piangi Roma…

Suburra locandina film Stefano SollimaPartiamo dalla fine del film. Da quella dedica: “a mio padre”. Stefano Sollima dedica Suburra al papà Sergio (morto il 1 luglio 2015). E questo già dice molto del suo film. Non solo un omaggio e un saluto “pubblico” dal figlio al padre, ma una sorta di ringraziamento a chi lo ha avviato al cinema, in particolare al cinema di genere. Perché questo è primariamente Suburra: alto cinema di genere, noir, come in Italia non se ne faceva da tempo. E Sergio Sollima, il padre, ce ne ha regalati vari di esempi negli anni Settanta (Città violenta, Il diavolo nel cervello, Revolver).

Venduto alle grandi masse come un film su Mafia Capitale, Suburra si stacca dalla realtà e da derivazioni dal reale per incardinarsi nel suo essere profondamente cinema. Suburra è un thriller noir politico, teso, magnetico, permeato da una fotografia (di Paolo Carnera) che marc(hi)a con forza l’intero film. C’è tutta Roma in Suburra: il Vaticano, i palazzi del Potere, feste opulente che neppure ne La grande bellezza o Il grande Gatsby, i festini privati a tutto sesso e droga, la criminalità organizzata di quartiere e di periferia, quella spietata degli zingari arricchitisi e quella silenziosa e capillare di chi è colluso con la Politica.

Certo Suburra si àncora alla realtà, in spazi e tempi, collocando la vicenda nei sette giorni antecedenti il 12 novembre 2011, data delle dimissioni di Silvio Berlusconi da Presidente del Consiglio. Certo che il personaggio di Claudio Amendola rievoca la figura di Massimo Carminati, affiliato alla storica Banda della Magliana arrestato nel dicembre 2014. E altri ancoraggi ancora potremmo citare. Ancoraggi inevitabili, i quali, però, non ci possono allontanare da un punto fermo: che Suburra è prima cinema che realtà.

Suburra è un racconto sulla città e sul potere, che pur riecheggiando fatti di cronaca s’innalza a film allegorico, simbolico, quindi attuale anche tra dieci o vent’anni. È allo stesso tempo gangster movie e noir metropolitano, spinto in alcune scene di perdizione e violenza, un film di genere dotato di tutto quel “realismo” di genere che s’inserisce in un preciso e circostanziato racconto del mondo che ci circonda, tendendo così ad essere spettacolare, avvincente ma anche popolare.

Suburra è questo. Un film da guardare con gli occhi del cinema e non della realtà. Un film che ci riempie le pupille, più che l’anima (di sdegno). È un racconto eterno (proprio come Roma). E Stefano Sollima è uno dei maggiori esempi del fare bel cinema oggi in Italia. Ha personalità nell’uso della macchina da presa, nella direzione degli attori, nell’orchestrare sequenze che rimangono impresse nello spettatore (si veda l’orgia di Favino con le due prostitute o la sparatoria nelle corsie del supermercato), nella fotografia specchiata satura di pioggia, luci e chiaro-scuri marcatissimi, in una colonna sonora a suon di M83 che impregna i fotogrammi di epicità e gusto apocalittico.

In merito agli attori, la prova corale è magnifica, di comprimari che sanno convivere spiccando ciascuno nel modo giusto e al momento giusto. Giganteggia Pier Francesco Favino, schiena dritta, volto di marmo capace di sciogliersi in ira e disperazione; preciso e mai caricaturale Elio Germano; stupefacente Claudia Amendola, con una performance che non marca i toni, ma rimane terra terra, e per questa spaventosa nel differenziarsi dalle altre. Sono da applausi anche Greta Scarano, Giulia Elettra Gorietti, Alessandro Borghi e Adamo Dionisi in prove mai eccessive per personaggi eccessivi.

Suburra è quindi un grande film, anzi è grande cinema. Una sola cosa gli manca: il respiro profondo e lungo per saltare il fosso, uscire dallo schermo e farsi ricordare in futuro. Ma forse a Sollima va bene così, e s’accontenta di essere “popolare” come una serie tv.

A ben vedere, inoltre, il cinema di genere non nasce per farsi ricordare. Ed essere “di genere” e “popolare” allo stesso tempo non è da tutti. Ave Sollima.

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