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Sud Sudan: il termometro della crisi

Creato il 03 marzo 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

Salva Kiir - Copia

di Marta Gatti

Sono ripresi il 10 febbraio, ad Addis Abeba, i negoziati tra il governo sud sudanese e la parte delle forze armate fedeli all’ex vice Presidente Riek Machar. La seconda fase dei colloqui di pace arriva dopo una fragile tregua di cessate il fuoco per il Paese: l’accordo tra governo e ribelli era stato infatti firmato giovedì 23 gennaio e prevedeva la fine delle ostilità dal giorno successivo. Già il venerdì, però, si sono susseguite accuse reciproche di violazione della tregua. A mettere a rischio le trattative anche la ripresa, il 19 febbraio, delle ostilità a Malakal, il capoluogo dell’Upper Nile. Le notizie che arrivano da Malakal, sono contrastanti: da un lato i ribelli affermano di aver preso il controllo del centro delle Nazioni Unite rispondendo ad un attacco dell’esercito, dall’altro le forze armate regolari sostengono di tenere ancora gli uomini schierati in città e di aver risposto ad un’offesiva ribelle. Le contrattazioni di Addis Abeba si svolgono sotto l’egida dell’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo (IGAD) che raggruppa otto Paesi dell’Africa Orientale (Somalia, Etiopia, Eritrea, Kenya, Sudan, Sud Sudan, Uganda e Gibuti). Attualmente le posizioni delle parti attorno al tavolo delle trattative sono molto distanti ma pare si stia lavorando nella prospettiva della creazione di un governo di unità nazionale che comprenda entrambe le parti in causa. Il Presidente della Repubblica Salva Kiir accusa l’ex alleato Machar di aver tentato nella metà di dicembre un colpo di Stato e gran parte dell’intesa si gioca sulla liberazione dei prigionieri politici, detenuti dal governo.

Il conflitto ha colpito duramente la popolazione e le stime degli osservatori arrivano a parlare di 10.000 morti. Secondo fonti delle Nazioni Unite almeno 76.000 persone che si trovano in campi profughi per sfuggire al conflitto, ma il numero totale degli sfollati sarebbe molto più alto, e toccherebbe le 500.000 unità.

Come in ogni conflitto, anche in questo caso, interessi politici ed economici si nascondono dietro agli scontri interetnici, quelli che vedono fronteggiarsi i Dinka (che sostengono il Presidente) e i Nuer (sostenitori dei ribelli). Entrambe le fazioni hanno deciso di mobilitare i propri gruppi etnici di riferimento per far dilagare gli scontri e per mantenere alta la tensione sul terreno. Le guerre africane vengono spesso definite “etniche” come a volerle derubricare a scontri “tribali”, ma non vi è nulla di più lontano dalla realtà. Le etnie sono state utilizzare, dai colonizzatori prima, e dai dittatori poi, per dividere la popolazione e per poter meglio governare (dividi et impera). Il Sud Sudan ha sempre visto la dominazione dinka, che ha raggiunto i posti di potere: all’indomani dell’indipendenza i nuer hanno denunciato il persistere delle posizioni strategiche dei primi, all’interno dello stesso Sudan People’s Liberation Mouvement (SPLM).

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Stato del conflitto – Fonte: USAID (dati al 25.02.2014)

Lo Stato del Sud Sudan, sin dalla nascita, si è costruito intorno ad un potere monopolizzato dalla capitale Juba e da Salva Kiir. La crisi di oggi nasce dalla difficile coabitazione di due poteri che hanno puntato sui loro interessi piuttosto che su quelli della nazione.  I due poteri sono rappresentati dal partito del Sudan People’s Liberation Movement, appunto, e dal braccio militare del Sudan People’s Liberation Army (SPLA), costituiti durante la lotta contro il Sudan di Omar al-Bashir. Ad assumere un potere sempre maggiore è stato lo SPLA, rendendo fortemente dipendente il movimento politico.  Alcuni analisti fanno risalire la crisi all’incapacità del partito di organizzare se stesso e di conseguenza anche la struttura dello Stato nascente. La mancanza di un’ideologia e di un programma ha spinto verso la dimensione etnica dei rapporti di potere, già preesistente. E’ difficile che un Paese in cui la maggior parte del bilancio va alla Difesa sia in grado di costruire strutture solide di democrazia e di sviluppo. L’esacerbarsi di situazioni critiche preesistenti e l’accentramento del potere nelle mani dell’elite vicina al Presidente hanno provocato una degenerazione veloce di strutture statali molto deboli. Lo SPLM non è riuscito a trasformarsi da movimento ribelle in movimento politico, il consenso lo ha conquistato attraverso la guerra, ha ottenuto il 70% dei voti all’indomani delle elezioni e controlla la quasi totalità dei Ministeri, oltre alla maggioranza del Parlamento.  Salva Kiir si è guardato bene dal riformare partito e governo, e, a chi chiedeva un cambiamento, ha dato in cambio le dimissioni e lo scioglimento del governo. Il vice Presidente Riek Machar si è trovato privato del potere. In questo contesto di mancata transizione verso una forma organizzata di governo il braccio armato e gli antichi conflitti d’interesse sono tornati a dettare la legge.

Lo Stato del Sudan non è rimasto a guadare. Khartoum ha tutto l’interesse a mantenere il controllo, diretto e indiretto, su diversi Stati del sud, in particolare quelli petroliferi. Secondo diversi analisti sono tre le grandi questioni lasciate in sospeso anche dopo l’indipendenza del Sud Sudan: la spartizione delle risorse petrolifere, che si trovano al Sud, la delimitazione delle frontiere e la cittadinanza dei sudsudanesi emigrati. Da entrambe le parti sono arrivate accuse di sostegno dei movimenti di opposizione interna. Il governo di Khartoum è stato indicato come sostenitore delle mire dei Nuer e in particolare di Riek Machar. Il governo sudanese ha accusato più volte le autorità sudsudanesi di sostenere le ribellioni nelle regioni del Nord, come il Darfur, il Sud Kordofan e lo Stato del Nilo Blu. Proprio il lungo conflitto tra Sudan e Sud Sudan ha prodotto profughi che si sono rifugiati nei Paesi limitrofi, in Etiopia e in Ciad. Si tratta di profughi cui non è stata trovata una soluzione sulla nazionalità con la formazione di un nuovo Stato, che non li riconosce.

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Oleodotti dal Sud Sudan a Port Sudan – Fonte: US EIA

Ad essere rimasta irrisolta è anche la ripartizione dei proventi del greggio. Il Sud carico di petrolio e il Nord che possiede tecnologia, oleodotti e trasporti per raffinarlo e commerciarlo. Come è avvenuto, e avviene, in molti Paesi dell’Africa Sub-sahariana, le ricchezze rappresentano spesso una maledizione, quella del Sud Sudan si chiama petrolio. La materia prima rappresenta il primo prodotto di esportazione del Paese, e, secondo il Fondo Monetario Internazionale, nel 2011, rappresentava per Juba l’80% dei guadagni totali. All’indomani dell’indipendenza, il giovane Stato africano ha dovuto fare i conti con Karthoum; possedere il greggio non basta se non si possiedono i mezzi per farlo diventare una materia di scambio. Per diverso tempo il confine tra i due Paesi è rimasto un terreno di scontro per il controllo dei pozzi, fino al raggiungimento di un accordo che ha portato al tavolo delle trattative i due Sudan. Il summit della fine di settembre del 2012 ha definito un’intesa riguardo alla sicurezza della frontiera, per evitare il dilagare di violenze e guerriglia e per definire le regole per il passaggio del greggio. La produzione è rimasta ferma fino alla primavera del 2013. Il Presidente Salva Kiir è stato accusato da molti di aver ceduto gran parte della sovranità economica nelle mani di Omar al-Bashir, e lo stesso rimpasto di governo, che ha portato all’esclusione di Machar, secondo i ribelli, sarebbe stato realizzato per portare all’Esecutivo personalità più vicine al Nord. Il cambio ai vertic sarebbe servito all’affermazione di figure leali a Salva Kiir e di personalità ben viste anche da Khartoum, per appianare le discordie.

I rapporti tra Sudan e Sud Sudan sono sempre stati accompagnati da alleanze e da una logica regionale. Durante il conflitto tra i due Paesi il Kenya e l’Uganda appoggiavano l’indipendenza del Sud. L’Etiopia, pur vicina alle posizioni del Sud, si trova in una situazione di forte dipendenza energetica dal Sudan. Si tratta di tre Paesi che cercano di assumere posizioni chiave all’interno degli organismi regionali e nell’Unione Africana. L’Etiopia, in particolare, ha giocato un ruolo centrale nelle trattative di pace raggiunte tra il governo sudanese e quello di Juba, facendosi garante del rispetto degli accordi. A farsi spazio tra gli attori regionali è anche l’Uganda che è diventata protagonista grazie all’adesione alla missione di interposizione in Somalia.

Il conflitto va dunque molto oltre i confini nazionali e coinvolge direttamente anche gli interessi delle compagnie estrattive, in particolare quelli della China National Petroleum Corporation, dell’indian Oil and Natural Gas Corporation e della Malaysian Petronas. La partita per il controllo di questa risorsa, dunque, non potrà prescindere dagli accordi di sfruttamento firmati dalle compagnie asiatiche.

* Marta Gatti è Dottoressa in Storia dell’Africa (Università di Milano)

Photo credits: Reuters/Goran Tomasevic

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