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Sul discorso di Obama a West Point

Creato il 01 giugno 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
800px-West_Point,_from_Phillipstown,_1831di Michele Marsonet. Barack Obama ha approfittato del tradizionale discorso ai neolaureati cadetti dell’Accademia militare di West Point per chiarire quali saranno le linee portanti della politica estera USA nei suoi ultimi due anni di mandato. Vi è in pratica stato costretto, visto il diluvio di critiche cui viene sottoposto ogni giorno da parte dei media, dell’opposizione repubblicana e degli stessi democratici.
Premetto che, a mio avviso, il presidente ha in parte ragione quando sottolinea che molte delle difficoltà in cui gli Stati Uniti si dibattono oggi non dipendono da lui. Ha sempre detto con chiarezza e onestà di non sentire l’intervento in Afghanistan come una guerra “sua”, ponendo alla presenza dei soldati americani in quel Paese dei limiti temporali ben precisi.

Ciò significa che, se fosse stato al posto di George Bush, si sarebbe sicuramente comportato in modo diverso. Avrebbe piuttosto concordato con quanto dice in un’intervista alla “Stampa” l’ex agente della CIA Robert Baer, secondo il quale “l’amministrazione USA ha preteso per dodici anni di modernizzare l’Afghanistan, di occidentalizzare un Paese che di fatto ha mostrato in tutta la sua storia, dai britannici ai sovietici, una resilienza storica allo straniero”. O, per dirla più chiaramente, ha preteso di “esportare la democrazia” dando retta alle note tesi di Francis Fukuyama.

Resta però il fatto che Obama sta scendendo a patti con i Taliban per aprirsi una via d’uscita “onorevole” dal pasticcio afghano, e questo dopo averli combattuti con ogni mezzo – droni e aumento delle truppe – per parecchi anni dopo la sua elezione. Sarà anche vero ciò che molti affermano, e cioè che ora la vera base di Al Qaeda è il Pakistan. Permane tuttavia un’impressione d’incertezza che diventa addirittura maggiore se ci spostiamo su altri fronti.

Dopo essersi finalmente convinto che un attacco USA alla Siria avrebbe finito col favorire qaedisti e fondamentalisti islamici in genere, adesso si apprende che il presidente intende addestrare i ribelli siriani “moderati” per contrastare il regime di Assad. Preoccupante, per usare un eufemismo. I ribelli moderati, in Siria, si sono ben presto fatti travolgere dalle componenti fondamentaliste, e non è affatto chiaro con quali mezzi gli americani possano ripescarli e farli prevalere.

Se poi si aggiunge l’insensato intervento armato in Libia, del quale da tempo si vedono le conseguenze che definire “nefaste” è dir poco, è opportuno sottolineare che in questo caso Obama è pienamente responsabile. E ancor più di lui è colpevole l’allora Segretario di Stato Hillary Clinton, che pure sembra in corsa per succedergli alla Casa Bianca. La Clinton, tra l’altro, si è sempre rifiutata di spiegare in modo chiaro gli eventi che condussero al barbaro assassinio dell’ambasciatore USA a Bengasi. Le commissioni d’inchiesta si susseguono ma non ne vengono a capo, poiché l’amministrazione in carica si trincera dietro il segreto di Stato.

Di quando in quando gli americani paiono risvegliarsi dal torpore. Sono state necessarie innumerevoli provocazioni cinesi nei confronti di Vietnam, Giappone e Filippine per indurre il Segretario alla difesa Chuck Hagel a dire a chiare lettere che la Cina sta esagerando. Aggiungendo: “se continua così, gli USA dovranno reagire in modo fermo e adottare contromisure”. Meglio tardi che mai, ovviamente. Ma – a quanto pare – a Pechino nessuno è rimasto impressionato: ha risposto l’agenzia ufficiale Xinhua rigettando ogni accusa.
La strategia di Obama è ben nota e non occorreva il discorso di West Point per ribadirla. Gli americani confidano sulla loro superiorità tecnologica puntando a schierare le macchine invece dei soldati. E scordando che tale strategia è già fallita un sacco di volte: in Afghanistan, in Irak, in Libia. E fallirà anche in Siria qualora volessero tentare l’avventura.

Credo però che alla base delle incertezze USA vi sia ancora il fantasma della guerra perduta in Vietnam. Anche in quel caso troppo peso venne attribuito al fattore tecnologico, e troppo poco a quello umano. E gli americani, da quella sconfitta, non si sono mai davvero ripresi. Brucia tuttora nei loro cuori e nelle loro menti, anche per la cattiva accoglienza che i reduci trovarono al loro ritorno in patria.

E’ qui che occorre scavare per dare un senso al crescente isolazionismo che percorre l’opinione pubblica negli Stati Uniti. “Farsi gli affari propri” sta diventando uno slogan sempre più popolare. Il presidente ha ribadito di credere nell’eccezionalismo americano, nel ruolo di nazione guida dell’Occidente che gli USA hanno svolto dal 1945 in avanti. Il quesito è: gli si può davvero credere esaminando le sue azioni? I dubbi sorgono spontanei, su entrambe le sponde dell’Atlantico.

Featured image, West Point, from Phillipstown. engraving by W. J. Bennett showing the original buildings of the United States Military Academy


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