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Sul ritorno al marxismo in Cina

Creato il 04 settembre 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

China,_Mao_(2)di Michele Marsonet. La stretta ideologica in Cina di cui si è molto parlato negli ultimi mesi sta assumendo una fisionomia sempre più precisa. Dopo la notizia relativa al “Documento numero 9”, una circolare non più segreta con la quale il partito comunista allerta i quadri e l’opinione pubblica circa sette “pericoli” o “minacce” che provengono dall’Occidente, ora si apprende che i giornalisti dovranno obbligatoriamente seguire dei corsi di marxismo.

Un ritorno al passato che sorprende solo chi non segue con attenzione l’evolversi del clima politico e culturale nel Paese asiatico. I segni premonitori erano evidenti già prima che l’ultimo congresso del PCC venisse celebrato. Si va dai manifesti evocativi della “lunga marcia” del 1934 ai poster di Mao il cui numero è improvvisamente cresciuto su edifici e strade delle città.

Poi il presidente Xi Jinping ha cominciato a parlare dell’esigenza di recuperare le radici comuniste del sistema politico e sociale, ormai contaminato in profondità dalla diffusione di simboli e stili di vita tipicamente occidentali (e in primo luogo americani). Secondo la nuova leadership cinese è insomma necessaria una grande svolta, in grado di rilanciare la sobrietà che di solito si attribuisce a una società che – almeno sul piano verbale – al comunismo non ha mai rinunciato.

Da dove partire? Dal mondo dell’informazione, ovviamente, poiché è proprio in quel contesto che secondo i dirigenti pericoli e minacce dell’Occidente trovano il loro naturale brodo di coltura e veicolo di diffusione. Facebook e Twitter sono proibiti, e al loro posto troviamo social network solo cinesi e strettamente controllati dalle autorità. Google – con l’eccezione di Hong Kong – funziona a intermittenza, e gli stranieri hanno spesso difficoltà di accesso alla posta elettronica.

Ma non vanno trascurati i tradizionali giornali cartacei. Circolano con facilità negli alberghi dei quotidiani in lingua inglese dove è talora possibile leggere articoli non del tutto in sintonia con la linea ufficiale del partito, per esempio “China Daily” e “South China Morning Post”. La stretta, agli occhi del partito, è allora necessaria, imponendo a giornalisti di ogni livello, inclusi i direttori, la frequenza di corsi di marxismo.
Quest’ultimo dev’essere inteso nel senso più tradizionale del termine. Testi di Marx, Engels e Lenin, ai quali si affiancano naturalmente gli scritti di Mao. Forse è superfluo dirlo, ma va notato che autori più o meno eretici quali Lukacs e gli esponenti della Scuola di Francoforte non rientrano nei programmi. I corsi, pur coinvolgendo l’intera categoria, sono destinati soprattutto ai giovani giornalisti che hanno maggiore dimestichezza con la Rete e bypassano i controlli cliccando su Google Hong Kong.

Si potrebbe rilevare che non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Un marxismo ufficiale assai simile al vecchio Diamat sovietico, e con l’aggiunta degli aggiornamenti maoisti, è tuttora l’unico tipo di filosofia insegnata in scuole e università della Repubblica Popolare. Ma chi ha occasione di parlare con gli ormai numerosissimi studenti cinesi iscritti ai nostri atenei sa bene che i giovani sono tutt’altro che entusiasti di questa situazione. Trovano infatti l’insegnamento ufficiale noioso e privo di stimoli.

E proprio questo è il punto. E’ plausibile pensare che la contaminazione occidentale possa essere bloccata obbligando i giornalisti a seguire corsi di marxismo e magari pure estendendone ulteriormente le lezioni nelle scuole di ogni ordine e grado? Difficile crederlo. I classici di questa corrente si possono studiare – al pari di altri – come episodi della storia del pensiero, tra l’altro solo di quello occidentale poiché la Cina ha una sua tradizione filosofica millenaria. Sorgono inoltre dubbi più che legittimi sul fatto un Diamat filtrato dal maoismo riesca a fornire chiavi adeguate per interpretare la realtà odierna.

Non si ha finora notizia di reazioni alla nuova (anzi, antica) linea del partito. Tuttavia è evidente che, in un Paese che ha nel frattempo assistito a mutamenti epocali, non è da escludere il ricorso alla coercizione e alla violenza per ottenere risultati tangibili. Nel secolo scorso molti intellettuali italiani e occidentali in genere esaltarono il fenomeno delle Guardie Rosse e la “rivoluzione culturale” promossa da Mao, senza conoscere (forse) l’alto tributo di sangue che essa comportò. Occorre quindi attendere per capire come si comporterà il partito, anche perché oggi un personaggio-icona come Mao non è disponibile.

Featured image, Mao proclama la nascita della Repubblica Popolare Cinese il 1º ottobre 1949.

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