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Sulla scrittura gramsciana

Creato il 31 agosto 2010 da Bruno Corino @CorinoBruno

Sulla scrittura gramsciana
Vorrei per un attimo richiamare l’attenzione su un aspetto all’apparenza marginale, ma in realtà di importanza fondamentale per capire con quale ottica bisogna leggere gli scritti gramsciani. Nella famosa lettera che Gramsci scrisse alla cognata Tatiana il 19 marzo 1927, il “prigioniero” formulò il suo progetto di ricerca für ewig, “per sempre”. Nella nuova circostanza di “carcerato”, Gramsci non ha più modo di intervenire direttamente e liberamente con la penna di giornalista nel dibattito politico, perciò manifesta alla cognata l’intenzione di concentrare la sua “scrittura” in un progetto intellettuale di grande respiro. Egli avverte il bisogno di concentrare la sua riflessione in un progetto di ricerca “disinteressata”. In un inciso, messo tra parentesi, egli scrive che questo assillo è un “fenomeno proprio dei carcerati”: cioè trovare qualcosa che possa impegnare la mente in carcere aiuta non solo a sopravvivere, ma anche ad evitare una lenta trasformazione della personalità. Gramsci era stato arrestato nel novembre del ‘26. Quando scrisse quella lettera era ancora agli inizi della sua esperienza carceraria, e ignorava quale fosse la sorte che lo attendeva, ma sapeva che in carcere si può morire, per mille ragioni.
Un giorno Gramsci aveva scritto che bisogna “operare come se non si dovesse mai morire”. Ma quando scrisse queste parole aveva soltanto ventiquattro anni. Nelle nuove circostanze, invece, Gramsci doveva operare come se quel giorno fosse l’ultimo giorno, scrivere come se quella fosse l’ultima volta. In carcere, paradossalmente, bisogna scrivere für ewig, per sempre. Non bisogna, appunto, disperdere le proprie energie intellettuali in mille rivoli, ma concentrarle in un unico progetto, anche se si è consapevoli che di quel progetto forse riuscirà a intravedere soltanto la cima. Il pensiero della morte, il pensiero della vita, nella nuova condizione, hanno un significato diverso.
Quando Tatiana informò Piero Sraffa delle difficoltà incontrate da Gramsci nel portare avanti il suo lavoro für ewig, l’economista ricordò al “recluso” proprio la sua decennale attività di giornalista: “Una volta Nino rimproverava sempre a me che l’eccesso di scrupoli scientifici mi impedisse di scrivere qualunque cosa: io da questa malattia non sono mai guarito, ma possibile che dieci anni di giornalismo a lui non l’abbiano curato?”. Ma Gramsci fece capire a Sraffa, tramite Tatiana, che le difficoltà non erano dovute soltanto al tipo di indagine che egli si accingeva a compiere in carcere. In quelle condizioni non era possibile portare avanti una ricerca di quel genere senza consultare “grandi biblioteche”. Le difficoltà erano dovute anche a considerazioni di ordine “scritturale. La scrittura gramsciana in carcere è costretta a cambiare orizzonte: non più, come in passato, quando scriveva articoli di giornali che “dovevano morire alla giornata”, spesa nella lotta politica contingente, ma in qualcosa di più duraturo. Non si possono mettere sullo stesso piano le due scritture, quella “scientifica” e quella giornalistica. Nella penna di Gramsci, la scrittura giornalistica nasceva sempre sotto il pungolo di una polemica immediata, era “l’acido corrosivo dell’imbecillità”, era tutta finalizzata alla battaglia politica e culturale. Come aveva un tempo scritto in una lettera a Vincenzo Bianco, secondo Gramsci quando si scrive bisogna distinguere l’elemento “organico” da quello “occasionale”. Nella scrittura giornalistica a prevalere sono gli elementi occasionali.
Possiamo, dunque, parlare in Gramsci di due livelli differenziali di scrittura: nel primo, in quello “scientifico”, für ewig, la scrittura è finalizzata ad esercitare una riflessione teorica di “lunga durata”, ed è una scrittura “riflessiva”, meditata, distaccata, in cui l’elemento organico prevale su quello occasionale. Anche lo stimolo occasionale, infatti, cioè la lettura di un articolo o di un saggio, è subordinato al piano organico di ricerca, alla “strategia di indagine” di largo respiro. In questo livello di scrittura, dato la sua sistematicità, bisogna verificare di volta in volta il piano generale nello stimolo occasionale, nel saggio appena letto o nell’articolo di rivista. Nell’altro livello, invece, cioè in quello “giornalistico”, occorre di volta in volta elevare l’elemento contingente, occasionale su un piano “universale”. In questo livello di scrittura, dove tutto è finalizzato alla lotta politica immediata, il giornalista deve saper scorgere dietro ogni fatto occasionale ciò che è organico. L’essere occasionale, agli occhi di Gramsci, significa l’essere “esteriore”, è il modo in cui un fatto si presenta dinanzi a noi. L’esteriorità è sempre sintomo di un significato altro da quello che si presenta. In altri termini, possiamo anche definire questa scrittura giornalistica “allegorica”. Nella scrittura allegorica, infatti, lo spunto occasionale, che ha originato la stesura di un articolo, esprime sempre un significato altro da quello che la semplice lettera dice. La prosa giornalistica di Gramsci sin dal suo primo apparire ha sempre promanato un suo fascino, avvertito sia dagli amici e compagni di partito che dagli stessi avversari, ma finora non è stato scoperto l’arcano da cui quel fascino scaturiva. In effetti, leggendo le sue cronache non ci si riesce a sottrarre all’impressione che ogni giudizio, ogni fatto riportato sembra essere penetrato da una luce di pensiero, la cui fonte rimanda ad un disegno “organico”. Anche a distanza di anni tra un articolo e l’altro, i suoi lettori avvertivano in quella prosa, inconsueta nella pubblicistica socialista del tempo, un’affinità di temi e di riflessione, come se il loro autore avesse il magico potere di farli dialogare tra loro. Ebbene è questo magico potere che occorre svelare.


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