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Sulla tensione crescente nel Mar Cinese Meridionale, e sull’incertezza USA

Creato il 30 maggio 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
Mao Zedong

Mao Zedong

di Michele Marsonet. L’interpretazione più accreditata della crescente tensione tra Cina e Stati Uniti in Estremo Oriente tira in ballo motivazioni esclusivamente (o quasi) economiche. Pechino, per esempio, reclama addirittura il 90% del Mar Cinese Meridionale che, con i suoi tre milioni e mezzo di chilometri quadrati, si colloca  subito dopo gli oceani “ufficiali” come superficie acquatica più estesa del globo terrestre.

Non bisogna ovviamente lasciarsi trarre in inganno dal nome dell’area rivendicata da Pechino. Si chiama “cinese” ma è un fatto solo convenzionale e indica la sua – relativa – vicinanza al grande Paese asiatico. In realtà la stragrande maggioranza della sua superficie è costituita da acque considerate internazionali da tutti con l’eccezione, per l’appunto, della RPC da qualche anno a questa parte.

Nessuno mette in dubbio che nell’area suddetta si trovino riserve ingenti di petrolio e di gas naturale non ancora sfruttate, ed è pure evidente che esse fanno gola alle numerose nazioni che si affacciano su questo vastissimo tratto di mare. Dubito però che tali risorse naturali costituiscano l’unico motivo della tensione crescente di cui parlavo all’inizio.

I cinesi, com’è noto, stanno costruendo con ritmo assai rapido un sistema di isole artificiali in acque che gli altri Paesi considerano internazionali e quindi aperte alla libera navigazione. Il caso più eclatante è costituito dalle Spratly, rivendicate anche dalle Filippine (stretto alleato degli Stati Uniti) e dal Vietnam (che invece non ha un rapporto di alleanza con gli USA).
E infatti gli americani hanno assunto di recente una posizione più dura per ribadire l’importanza dei rapporti con i filippini, mentre il Vietnam si è difeso da solo quando una piattaforma petrolifera cinese è penetrata in acque che Hanoi considera proprie.

Come nel caso (più a Nord) delle Senkaku, arcipelago giapponese sul quale la Cina ha imposto una zona di interdizione aerea subito violata da un paio di B-52 statunitensi, anche nelle Spratly gli USA hanno inviato una nave militare incuranti delle proteste cinesi, facendo ancora una volta rilevare il carattere internazionale delle acque.

Naturalmente non si può negare che i fattori economici abbiano un certo peso nell’acuirsi della tensione sino-americana, ma l’attuale aggressività di Pechino ha a mio avviso motivazioni di base diverse.

Abbandonato – nella pratica più che nella teoria – il maoismo, e ottenuto lo status di potenza mondiale, la Cina sta in realtà tastando il terreno per verificare sino a che punto gli americani siano disposti a rischiare uno scontro diretto per proteggere nazioni alle quali sono vincolati da trattati di alleanza. E’ ovviamente un gioco pericoloso, giacché l’incidente può verificarsi anche se le due parti in realtà non lo desiderano.

E numerosi sono i casi in cui lo scontro tra navi e aerei è stato evitato per un soffio. Non solo tra americani e cinesi, ma anche tra quest’ultimi e i giapponesi (il Giappone è l’unica nazione dell’area dotata di forze armate in grado di infastidire quelle di Pechino). Non hanno invece avuto paura i vietnamiti che, pur non essendo alleati degli USA, sono intervenuti contro la piattaforma cinese summenzionata subendo pure delle perdite.

Non è un caso che la RPC stia stringendo rapporti sempre più intensi con la Federazione russa anche sul piano militare. Lo dimostrano le manovre navali congiunte nel lontano Mediterraneo che vedono coinvolte le flotte di Mosca e di Pechino.
Ripeto quindi che lo sfruttamento delle risorse energetiche non spiega in modo pieno l’attuale politica estera della RPC. La leadership cinese sta verificando non tanto le capacità reattive degli USA (che non vengono certo messe in dubbio), quanto la “volontà” di reagire da parte di un Presidente come Obama, senza dubbio il più incerto che gli Stati Uniti abbiano avuto da almeno un secolo a questa parte.


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