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The artist

Creato il 13 dicembre 2011 da Veripaccheri
The artistNel voler dare resoconto obiettivo di un film come “The Artist” lo scriba si trova di fronte diversi problemi. In primo luogo quello di dover parlare di un opera che prima della mente colpisce il cuore per la carica di nostalgia che la storia di George Valentine un star del muto caduto in disgrazia con l’avvento del cinema sonoro si porta con sé. Successivamente, la componente cinefila legata ad un film che si piazza nel guado del cinema che fu, quello dei Douglas Fairbanks e di Rodolfo Valentino, con le sue ingenuità ma anche con lo freschezza delle cose che sono appena nate. Ed infine, non meno importante, con l’esagerata empatia di un attore sbucato dal nulla, almeno per chi non è francese, ed in un giro di pellicola capace di imprimersi nella pelle dello spettatore. L’intero bagaglio cinematografico, con i suoi sogni e le sue cadute sono infatti racchiuse in un film che similmente al modello ispiratore, rinuncia alla modernità per riprodurre la purezza del cinema muto. Con il suono a commentare le immagini sullo schermo ed i dialoghi riassunte più nel volto degli attori che nei dialoghi riportati negli appositi pannelli, “The Artist” riesce nel miracolo di fermare le lancette del tempo facendoci ridere ed anche piangere sulle modulazioni dello sguardo, sulla capacità di far parlare il corpo, quello atletico e sfrontato di Jean Dujardin, affiancato dalla muliebrità sbarazzina di Bérénice Bejo, una spalla capace di reggerne il confronto.
Un operazione dalla riuscita tutt’altro che scontata, non solo per l’anacronismo della confezione, a rischio per la tendenza in uso di sacrificare i contenuti della storia alla cornice generale che in questo caso prevedeva non solo la ricostruzione di un periodo storico, quello dell’America a cavallo degli anni 20’ e 30’, ma anche del cotè iconografico di un industria cinematografica notevolmente cambiata sotto il profilo produttivo, ma rimasta inalterata nella creazione dei suoi miti. Un pericolo scampato per l’abilità del regista di far coincidere la storia con il mito, la ricostruzione dell’epoca con la sua rappresentazione. Elementi destinati a convivere nel parallelismo tra la grande crisi economica che attraversò il paese, e quella artistica e personale dell’attore senza lavoro e costretto all’indigenza, nella sovrapposizione tra l'ottimismo di un arte ancora giovane e la rinascita che porterà l’artista a risollevarsi dalle sue disgrazie accettando di mettere da parte il proprio orgoglio per aprirsi all’aiuto di chi, la ragazza di cui in qualche modo aveva promosso la carriera, l’ha sostituito nell’immaginario popolare. Il cinema, quello vero, è celebrato nel bianco e nero di una fotografia smagliante ed accaldata, nella maestosità patrizia degli studios, nel buio delle sale riempite dal pubblico trepidante, nell’ansia dei set in attesa del prossimo ciack. E poi attraverso la performance di un attore in stato di grazia, sempre in bilico tra lo charme del tombeur de femme, capace di conquistare una donna con il magnetismo dello sguardo, e l’istrionismo del guitto di lunga gavetta, abile nel ballo – strepitosa la chiusa finale a celebrare la coppia Fred Astaire e Ginger Roger con un tip tap eseguito in coppia con l’altrettanto disinvolta Bejo – così come in un avanspettacolo di finezza sopraffina riassunto in modo esemplare nella guasconeria con cui Valentine attira su di sé le attenzioni del pubblico al termine di una proiezione . E’ lui insieme ad un regista, Michel Hazanavicius
, capace di annullare il tempo amalgamando un caleidoscopio di invenzioni, straordinaria quello dell’incubo del protagonista per lo straniamento prodotto dall’improvvisa irruzione del sonoro in un esistenza abituata a farne a meno, e di citazioni, a consentire al film di entrare nella lista degli indimenticabili. In tempi come questi una rarità da non lasciarsi sfuggire.

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