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Nella sua straniante lentezza, questo brevissimo film di John Huston (poco più di ottanta splendidi minuti) rispecchia il rimbalzo di coralità e solitudine proprio della Dublino di Joyce. Siamo a una cena e sembra non accadere niente, tutto va avanti come previsto, com'è sempre andato. Si cena, si chiacchiera, si recita, si parla di musica, dell'ultimo titolo al teatro, dei cantanti di una volta. Delle voci che non si sentiranno più, delle romanze senza tempo. Tutto è prevedibile, tranquillo, una casa di conservatori irlandesi illuminati dall'arte. Finché non irrompe una canzone, The Lass of Aughrim, suggestiva, struggente, ad estirpare un vecchio amore dal cuore di Greta (Anjelica Huston) e ingelosire il marito Gabriel (Donal McCann). Una vita sepolta da quando lui la conosce si riaccende sul volto della moglie, una vita che lui non ha mai conosciuto. Un ragazzo morto cantando, un ragazzo morto d'amore e abbandonato dalla donna quando ancora erano adolescenti entrambi e la vita era un'ombra ormai scomparsa (o, come direbbe Petrarca, quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono).
Il senso di spettrale solitudine in questo orizzonte di neve, che tutto copre, vivo e morto, è un sentimento collettivo, sottolineato da luci essenziali e da una sceneggiatura scarna atta al romanzo di conversazione. Non c'è una vera necessità comunicativa, non c'è parola che possa salvare o che mondi possa aprirti (per chiamare in causa perfino Montale, che non amava Joyce). Le parole dei personaggi pennellano i rapporti reciproci, le storie, le dinamiche affettive. Ma non sono che spleen, risonanze, l'eco vaga di una perdita, di un sobrio lutto, una stizzosa o commossa nostalgia.
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