(di Quentin Tarantino, 2015)
The hateful eight mi sembra rappresenti l'ennesimo passo avanti nel percorso, illuminato e grandissimo, di uno dei registi più originali dei nostri tempi. Attenzione però, perché con un passo avanti non intendo un passo verso il futuro, verso l'innovazione, verso la sorpresa ai fan inaspettata, no, niente di tutto questo. Più un passo avanti verso la maturità, verso il classicismo, verso la capacità di narrare alla sua maniera ma ripulita, almeno in parte, da esagerati orpelli. Missione compiuta? Non ancora, non ancora... solo un grande passo avanti.
Questo quindi cosa vuol dire? Che The hateful eight è finora il miglior film di Tarantino? No, a mio avviso nemmeno questo, Django ad esempio mi era piaciuto di più, anche se quest'ultimo l'ho apprezzato comunque molto. Ma qui si è sfiorata la creazione di un grandissimo western moderno di stampo classico, classicissimo. Musica, fotografia, ritmo, intreccio, prove attoriali e protagonisti di un western coi fiocchi in sentore di capolavoro mancato. E neanche di tanto. Il pregio maggiore del film sta nella cifra stilistica del regista, i difetti stanno invece nell'incontenibile cifra stilistica del regista, tutta la differenza in un unico fondamentale aggettivo (incontenibile conta come aggettivo, vero?).
Come si può non amare un western che propone scene come quelle della diligenza in viaggio tra le nevi del Wyoming accompagnata dalla musica di Ennio Morricone, sapendo che su quella diligenza poggia il fondoschiena gente del calibro di Samuel Lee Jackson, di Kurt Russell, di Jennifer Jason Leigh e anche dell'ottimo Walton Goggins (mi toccherà davvero recuperare Justified)? Non si può. Come si può non amare un film che unisce al western un bel pizzico di mistero preso di prepotenza dal giallo classico e shakerato dal barman che tutti ormai conosciamo così bene? Non si può. E questo film, che rimane un gran bel film, sarebbe potuto diventare il capolavoro di cui sopra se Quentin avesse fatto anche un mezzo passo indietro, se avesse trattato i temi importanti del razzismo, della violenza, dell'individualismo che ancor oggi affliggono la società americana, risparmiandoci metafore fatte di pompini e grossi pali neri, economizzando su quelle spruzzate sanguinolente d'effetto che per carità, vanno bene e mi piacciono anche molto, ma che evitandole un pochettino secondo me sarebbe venuta fuori una roba da incorniciare e tramandare.
E quindi? E quindi niente capolavoro, solo un gran bel film. Da ricordare rimangono grandi interpretazioni valorizzate dai bellissimi primi piani ritagliati da Tarantino, un Samuel Lee Jackson che sembra salire in cattedra quando è a contatto con il regista e una versatile Jason Leigh da applausi su tutti, molto apprezzato da me anche il veterano Russell, un vero bastardo a modo. Ricalca un po' troppo la parte già portata in scena da Christoph Waltz nel film precedente quella di Tim Roth, molto bene invece Walton Goggins, strambo al punto giusto. Completato da altri nomi noti tra i quali Bruce Dern, Channing Tatum e Michael Madsen, sul cast, con qualche piccola riserva, c'è poco da obiettare.
Un'altra cosa che a me è piaciuta parecchio è stata la scelta di Quentin di prendersi i suoi tempi, di non affrettare nulla, di ricamare sui personaggi, di creare il mistero fino a farlo sembrare l'enigma della stanza chiusa, di trasformare i suoi personaggi più in Poirot e i suoi sospettati che non nel gruppo di pistoleri de I magnifici sette. Certo, un gruppo di veri bastardi pieni d'odio, pronti a premere il grilletto e a levare di mezzo tutti gli altri, mica parliamo di stinchi di santo. Se solo Quentin facesse ancora un passo, uno solo, in questa direzione...