Torino, Magazzino sul Po.
Stephen Lawrie sembra il vecchio albero di una nave pirata. Lo incontro dopo forse il millesimo concerto dei suoi Telescopes, mentre si terge il sudore gentilmente e rimembra le tempeste, la bonaccia e le altre storie da naufrago del feedback di vecchia data.
I Telescopes arrivano a Torino circa cinque minuti prima dello show: un cambio di batterista, perso per una frattura in Spagna, un furgone distrutto, e 1000 km divorati in mezza giornata su un van appartenuto alla gendarmeria francese ai tempi di Mesrine. Ecco come sono arrivati qua, tenendo indietro il karma negativo a botte di volume.
Confrontarmi con uno dei miti della mia cosiddetta adolescenza è stato persino più piacevole di quanto potessi pensare. Proprio come mi immaginavo: “Sono trent’anni che va avanti così”, mi confida lui stesso. Ma da quel 1987 sembra che l’orologio si sia inchiodato. La musica dei Telescopes è sempre lì, marcia e decadente con punte di droga e disperazione affogate nel rumore puro. Mi ricorda quel vecchio albero di nave, saldo sul ponte a resistere alle mareggiate acide e agli infiniti abusi di volume. Dal vivo i ragazzi si danno da fare, maltrattando le chitarre a dovere, con i fuzz che riverberano ruggine giallastra su tutti i presenti e crescono lentamente, come serpentoni di fumo. Pochi pezzi, piuttosto un lungo mantra irrancidito, suonato con furiosa ignoranza e spregio del cosiddetto bon ton. Umano, troppo umano Stephen. Anche se i suoi compagni sono lenze fresche e potrebbero essere i suoi figli, lui continua a salmodiare nel buio, come un inquietante testimone delle nostre sconfitte quotidiane, perso nei suoi dialoghi tossici. Fragile ombra immobile che si aggira sul palco bevendo piano, mentre incita la band a scartavetrare le corde come fosse la prima ma anche l’ultima volta. Su “The Perfect Needle” mi metto pure a saltellare.
Finisce senza bis, parole o altre simili abitudini da live show. Già, i telescopi sono un’astronave troppo stretta per il nostro garage terrestre, tanto che ci suona rovinandosi le fiancate lungo gli stretti muri. Devastanti.
La foto è di Irene Gittarelli, che ringrazio.
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