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TO cult – alla frontiera di Torino Porta Nuova

Creato il 25 febbraio 2013 da Sulromanzo

TO cult – alla frontiera di Torino Porta NuovaLa lettura è il viaggio di chi non può prendere un treno.

Francis de Croisset

Invece la maggior parte di chi è qui un treno lo prenderà o l’ha appena preso (o perso), trolley verde fosforescente o borsa da lavoro in cuoio nero, un bagaglio perlopiù a mano per un viaggio breve, con sosta in libreria, alla Feltrinelli della stazione Porta Nuova di Torino.

Vorrei quel libro che parla di un ragazzino che trova un milione di lire in un vaso di fiori…” sta chiedendo la donna blu al banco informazioni fatto come la reception mobile di un albergo volante, scaffali anziché stanze i luoghi in cui ritrovarsi (o perdersi).

A Torino ci arrivi in aereo e a Caselle la scelta è capace di appagare soltanto le esigenze (limitate) di un lettore occasionale; ci arrivi in autostrada e sappiamo come sono gli autogrill; alla fine (o all’inizio) del viaggio vero, quello in treno, la libreria è invece accogliente, ospitale, migliaia di libri che racchiudono miliardi di pensieri in milioni di storie. E la donna blu al banco informazioni, come tutti, ne cerca una.

“…il ragazzino chiama due amici e dice: «Ho trovato un milione in un vaso di mia madre. Perché non ce ne andiamo a Venezia, compriamo una barca e navighiamo per l’Adriatico?». Gli amici sono due fratelli di diciassette e quindici anni: il più piccolo storce il naso, il più grande reagisce invece con entusiasmo. Così partono, in treno da Torino, i tre minorenni, raggiungono in sette ore Venezia e….”

È il presera di un venerdì invernale, ogni frontiera (questa divide la città e i suoi libri dalla città e i suoi libri successiva) ha la sua dogana e la dogana, qui, funziona. La ragazza gonna corta, calze marroni e cappotto chiaro entra e non fa il secondo passo che l’uomo nero le arriva addosso. È però gentile, l’uomo grosso per contratto, le chiede se può fargli vedere i libri che senz’altro ha nella borsa, siccome i pannelli antitaccheggio hanno accompagnato il suo ingresso emettendo dei beep che attirano nolenti l’attenzione delle persone in sala. La giovane è intimidita, quasi con vergogna, giustificandosi, tira fuori in effetti un libro preso altrove, l’uomo nero lo sfoglia e trova la barra di plastica che manda in corto il sistema, che segnala l’anomalia, la requisisce e la ragazza può adesso entrare, sollevata, e sistemandosi la borsa punta diritta alla sala successiva, quella dei libri di storia e di filosofia, della narrativa ma in parte (dalla lettera M in su).

“…a Venezia i tre dormono in un albergo di lusso, e non mi chieda come fanno essendo minorenni, io credo perché negli anni ’60 non c’erano tutti i controlli che ci sono adesso, rimangono qualche notte poi comperano una barca, forse non era Venezia ma Chioggia, comunque qualcuno vende loro una piccola imbarcazione, parliamo di un trecentoottantamila lire che chissà quanto varrebbe oggi, così partono e incominciano a navigare l’Adriatico, i tre minorenni, solo che….”

C’è un punto preciso, tra gli scaffali psicologia e filosofie orientali, a pochi metri dalla porta in vetro di sicurezza che dà sul lastricato di via Nizza, c’è un punto preciso in cui il telefono prende. In tutto il resto della libreria il segnale va e viene, in quel punto invece, soltanto in quel punto le tacche non sono fittizie e le onde elettromagnetiche arrivano a destino. In quel punto si disvela la distinzione tra quelli che sono prossimi a partire (o hanno qualcuno a casa che li aspetta) e quelli che devono ancora attendere un po’ (o vivono soli, o a casa non c’è nessuno): il signore stempiato, vestito come un ragioniere in trasferta (ha la borsa in cuoio da ragioniere, non quella in pelle da dirigente), è in libreria da parecchio – ha quindi girovagato lento, è di quelli che ha tempo – perché appena arriva al punto preciso tra gli scaffali psicologia e filosofie orientali il suo telefonino riceve almeno tre sms di fila (chissà da quanto aspettavano di infrangersi sul display); la donna invece grassoccia, rivestita di abiti gialli che sembra un limone tozzo, dall’ipotizzato mestiere di consulente, non ne riceve nemmeno uno, e sì che è attirata dal libro “Mio figlio e il sesso. Educare gli adolescenti alla sessualità” e ci passa parecchi minuti a leggerne il trailer, ma niente: attorno a lei è silenzio (quindi il suo giro è di corsa, non il tempo agli sms di accumularsi, di appendersi).

“…solo che i tre non ce l’hanno la patente, insomma nessuno è mai salito su una barca. E comunque partono e scendono l’Italia, impiegano giorni e giorni. Intanto a casa sono ormai preoccupatissimi, nessuno sa dove siano, conta che siamo nel 1966 e non ci sono i telefonini. I genitori sono in allarme, denunciano ai carabinieri, si muove la polizia, tutti li cercano e nessuno li trova. Finché a casa, la sorella di quello che ha trovato il milione di lire nel vaso di fiori, quella ragazza di ventisette anni riceve la fattura dell’acquisto della piccola barca, saldata in contanti ma intestata a lei che è maggiorenne: e allora le ricerche guardano all’Adriatico, ma loro vanno, vanno e vanno, avanzano nel mare, verso Sud, finché dopo parecchi giorni…”

Guardando chi c’è dentro, su dieci sei sono donne e quattro sono uomini (e più o meno è quello che succede nel mondo). Guardando questi dieci, uno ha una valigia grossa (si ferma una settimana), tre hanno un trolley (qualche giorno), tre hanno una borsa da lavoro (se ne vanno questa sera), tre non hanno nulla. Guardando questi dieci, è difficile capire chi sia in ingresso e chi in uscita, cioè distinguere tra chi abita la quarta città d’Italia (e ne transita per la stazione ferroviaria principale) e chi viene a viverla per lavoro (o per amore) foss’anche per qualche ora. Per una sorta di doveroso rispetto e istituzionale riverenza, i forestieri assumono dei residenti i tratti e, si sa, a Torino nei luoghi pubblici non si è molto loquaci, rispetto almeno ad altre città d’Italia. I dieci presi a campione in una trentina di metri quadrati, nella griglia virtuale di uno sguardo abbassato, sembrano tutti torinesi anche se certamente non lo sono tutti, e anche se sono assieme, se parlottano passandosi di mano il libro su cui uno si sofferma per primo (due sono colleghi, due dei tre del trolley), nessuno alza la voce come farebbe, per dire, alla libreria Borri Books della stazione Termini (ma quella è la frontiera dell’Italia tutta).

“…ora: s’immagini questi tre su una barca, minorenni: l’avranno fatta la spesa? Avranno avuto di che cambiarsi? Io sono una mamma: non oso immaginare mio figlio, che adesso ha l’età loro, in giro per l’Italia da solo. Su una barca. Cosa volevano fare, poi? Fatto è che scendono, costeggiano la Puglia, arrivano alla punta del tacco e poi la barca si rompe. Fanno naufragio. Lì ci sono delle correnti che solo il Signore sa. Questi tre sono in balìa del mare, potrebbero essere spinti in Grecia, per tutto il Mediterraneo. E invece….”

Il libro di saggistica più venduto è Le regole del mio stile, di Lapo Elkann, Add editore. Lo è nella settimana in cui, per dire, non è nemmeno tra i top 100 di Ibs. Lo è nella settimana in cui il libro è presentato al Salone dell’Automobile, presenti quattrocento persone di cui parte gli amici dell’autore (della Torino bene, amici dell’autore quindi mocassini elettrici e borsette pugno in un occhio), parte curiosi, gran parte soprattutto però delle periferie operaie, gente cresciuta con il lavoro in fabbrica andata in centro a vedere come sta il figlio del padrone, si è ripreso il figlio del padrone, è di nuovo in gamba il figlio del padrone, il nipote del fu re (oggi il trono è vacante), in questa Torino monarchica che porta i geni dell’asservimento silenzioso (una forma di sostanziale rispetto) alla dinastia che questa città ha sviluppato, gente che, si vede, compera il libro del figlio del padrone.

“…invece sono recuperati al largo di Gallipoli, dai mezzi della capitaneria di porto di Taranto. Mezzi tramortiti, impauriti, i ragazzini vengono salvati. Finiscono al TG1, ne scrivono i giornali. È un sollievo, per i genitori ma più che altro per loro, che se la sono vista davvero brutta. La cosa finisce bene, ma poveri genitori… C’è una foto, finita sul giornale, del padre di uno dei ragazzini, che piange come un vitello alla stazione qui di Porta Nuova, quando dopo un giorno e mezzo di viaggio rientrano…”

Il commesso al banco informazioni non sa che cosa digitare. Chiede alla signora blu se ricorda almeno l’autore di questo romanzo, oppure la casa editrice. Azzarda un anno di pubblicazione. Prova con “naufragio” + “ragazzi” + “Torino”, insiste aggiungendo “1966” (dopo aver chiesto: è sicura dell’anno?), sottrae “Torino” e aggiunge “Gallipoli”, poi “Venezia”, poi “barca”. Infine chiede se ricorda almeno il nome (il cognome non osa) di uno dei ragazzi ma lei niente, non ricorda. La signora è blu per via del trittico cromatico smalto occhiali borsa, ha sui quarantacinque ed è vestita da manager del settore della pubblicità, l’accento è milanese e infatti qui a Torino se la cava in giornata (lo certifica la borsa da lavoro arancione).

“Niente? È sicuro?”, ci riprova.

“Ho tentato di tutto…”, dice il commesso, adesso di una tristezza empatica.

La signora blu desiste, se ne esce ma anziché verso i binari prende per i metri che portano all’uscita, sulla piazza Carlo Felice. La seguo. Sono convinto che questi tre ragazzini in un romanzo non ci siano (ancora) finiti, incomincio il viaggio per la città e i suoi libri dall’unico non luogo possibile (la frontiera della stazione ferroviaria) e siccome a Torino anche i forestieri assumono dei residenti i tratti, questa è la città degli scrittori e sono ormai convinto che la signora blu questa storia voglia raccontarla e non leggerla, la signora blu che contrariamente alla prima impressione da Torino non parte ma ci arriva. Le sono dietro appena sotto i portici, fingo di telefonare (devo in effetti ringraziare il mio amico Stefano per l’aneddoto sulla presentazione del libro di Lapo), la vedo andare verso il banco dei libri usati, quasi in via Roma, avvicinarsi al tizio venditore, sento chiedergli se conosce il libro che parla dei tre ragazzini che un giorno trovarono un milione di lire nel vaso di fiori e se ne andarono a Venezia.

L’uomo la ascolta tutto preso, di tanto in tanto annuisce, quando lei dice “Gallipoli” lui sorride, lei chiede se ha capito, l’uomo dice no e poi indica il bar lì vicino, dice di non avere idea del libro di cui sta parlando “ma ho io una storia per lei”, dice, “una storia che non posso non raccontarle”, dice, “se accetta un caffè da questo vecchio che non è mai stato su una barca”, dice, “ma ha letto molto”, dice, e poi dice una frase che condivido, che annoto, che corro a mettere in epigrafe.

 

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