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Tommy Lee Jones: the good old boy

Creato il 01 dicembre 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Tommy Lee Jones nasce il 15 Settembre del 1946 a San Saba, Texas. È figlio unico di genitori divorziati: un padre dai modi duri, cowboy poi impiegatosi prezzo un’azienda petrolifera, e una madre poliziotta. Studente modello e abile atleta, dopo la laurea si trasferisce a New York per intraprendere la carriera d’attore. Per due decenni appare in numerosi film e produzioni televisive ma non riesce mai a venire alla ribalta, finché un giorno non lo nota Oliver Stone. Il primo ruolo di peso, che gli regala subito una nomination all’Oscar, è quello di Clay Shaw in JFK, anche se il vero successo arriva due anni dopo con Il fuggitivo, con cui riesce a portare a casa l’ambita statuetta. Questa pellicola, in cui riesce a rubare la scena al protagonista Harrison Ford, è difatti quella che lo rende noto al grande pubblico. Da quel momento in poi seguono numerosi ruoli e tante notevoli collaborazioni, da Clint Eastwood ai Coen passando per il successo di Men in Black. Tutte esperienze che finiscono per confluire nei suoi lavori come regista.

Il debutto registico arriva nel 1995 con un film per la televisione, The Good Old Boys, un western dal sapore antico, con evidenti echi fordiani, che sfrutta un umorismo da commedia per tratteggiare i protagonisti di questa elegia della Frontiera. Una pellicola dai vari umori, ma che si caratterizza soprattutto come uno studio di personaggi. Passano dieci anni, però, prima che Jones si decida a tornare a dirigere un film, stavolta per il grande schermo. Si tratta di Le tre sepolture, scritto dallo sceneggiatore messicano Guillermo Arriaga. Ancora un western, ma di difficile catalogazione. Influenzato da molti modelli, Peckinpah tra tutti, il regista mette in scena un atipico road movie, dalla disordinata struttura narrativa, che guarda aspramente all’America odierna. Una guardia di frontiera stupida e arrogante uccide per errore Melquiades Estrada, messicano immigrato in Texas. Pete Perkins, datore di lavoro e unico amico del defunto trova il colpevole e lo punisce costringendolo a riportare insieme a lui la salma fino al suo paese natio in Messico, dove dargli degna sepoltura. Questa la fabula, cosa ben diversa l’intreccio. Così com’è ricchissimo il mélange di registri che Jones utilizza per questa parabola morale che parla di amicizia, giustizia e perdono.  Ma più che ogni altra cosa il film è un racconto di formazione, in cui si assiste alla presa di coscienza di uomo costretto a guardarsi allo specchio percorrendo il tragitto dal Texas al Messico. Questo percorso, ricco d’incontri poetici come quello col vecchio cieco, è condotto sul filo di un rigore etico che non concede nulla all’emozione facile, alla spettacolarità o all’eroismo. Una storia “politica”, supportata da un cast eccellente, che rivela soprattutto un abile regista. Senza didascalismi e sciatterie, Jones scava nella psicologia dei personaggi attraverso un ritmo rarefatto che visivamente vive dei paesaggi, territori che ricordano il “Meridiano di sangue” di Cormac McCarthy. Un autore che ritorna nell’opera successiva, di nuovo un film tv: The Sunset Limited. Una storia essenziale, di origine teatrale, che vede due personaggi, un ex detenuto di colore e un bianco professore, riuniti in una stanza, intenti a discutere della vita e della morte. Il Bianco e il Nero, al centro del tavolo una Bibbia; un duello primordiale messo in scena con rigore essenziale e piacere estetico. Da qui la scelta di ridurre il campo e il controcampo al minimo – per poi esaltarne la forza nel finale, privilegiando i movimenti della cinepresa, atti ad accerchiare i personaggi e restituire visivamente le dinamiche del conflitto.

Quest’apologo dai tratti bizzarri, però, sembra una pellicola comune se confrontata con l’opera seconda per il cinema di Jones, quel The Homesman ancora inedito nelle nostre sale. Un western sui generis, assolutamente folle, che ribalta tutti i codici del genere. È la storia di Mary Bee Cuddy, una donna che vive da sola nella frontiera americana. Mary Bee si assume l’incarico ingrato di trasportare tre donne uscite di senno attraverso il fiume Missouri e fino all’Iowa, da dove verranno rispedite negli stati dell’Est da cui provengono. Ma Mary Bee sa di non potercela fare da sola, e ingaggia un vagabondo cui ha salvato la vita. Insieme si avventurano lungo un viaggio ricco d’incognite. Western e road movie s’incrociano una nuova volta, ma con coordinate spiazzanti, infatti contro ogni tradizione si viaggia da Ovest verso Est. Al centro della vicenda sono un gruppo di donne, non i soliti uomini del Far West, inoltre il protagonista maschile è quanto di più lontano dall’eroe classico. Insomma, c’è tutta la volontà di distruggere gli stereotipi, come confermato dall’imprevedibile svolta narrativa che, a conclusione della seconda parte, ribalta il punto di vista principale della storia. Alternando brutalità, umorismo nero e compassione, il regista sostanzialmente pone il tema della sofferenza femminile nel genere cinematografico mascolino per eccellenza. Le tre donne, infatti, sono impazzite in seguito alla vita durissima della frontiera: Arabella ha visto morire tre figli; Theoline ha ucciso il figlio neonato durante un inverno rigido; Gro ha reagito con la follia ai continui abusi del marito. Non a caso si potrebbe quasi definirlo un western “femminista”, per questa ragione la mente corre a un illustre precedente, più rigoroso ma altrettanto misterioso, come Meek’s Cutoff di Kelly Reichardt.

Queste tre donne, non protagoniste ma motore dell’azione, sono considerate folli in quel mondo dove ogni personaggio sembra fuori di testa, per primo quello interpretato dal regista. Si racconta, per l’ennesima volta, una storia “politica”, non solo per lo sguardo sul gender, ma, soprattutto, per la riflessione sulle radici dell’America, tratteggiate spietatamente nel progressivo avanzare dei personaggi, dalla violenza fisica dell’Ovest a quella morale ed etica dell’Est; quest’ultima sintetizzata nella sequenza, dai tratti onirici, della visita all’albergo gestito dal personaggio di James Spader, protocapitalista senza scrupoli. In questo viaggio, un nuovo racconto di formazione, si susseguono tutte le colpe che sono alla base dell’American Dream, i tasselli che compongono la civilizzazione pulita, cortese e ipocrita degli Stati Uniti d’America. Ma Jones allarga ulteriormente il discorso, scagliandosi contro la logica della predestinazione divina, che blocca i personaggi al loro territorio, come se gli fosse impossibile evitare ciò che qualcuno ha previsto alla loro nascita. La risposta è la lotta coraggiosa di Mary Bee, costretta a soccombere in un tempo dove la biologia assume tratti spietati, oppure l’uscita di scena folle ma colma di dignità del protagonista, costretto alla solitudine in un tempo dove non c’è spazio per i “cani randagi”. Difficilmente oggi è rintracciabile altrove uno sguardo così duro, morale, severo ma giusto, nel cinema americano contemporaneo. Speriamo che la carriera registica di Tommy Lee Jones non si fermi qui, la strada è ancora lunga per cancellare le ultime tracce della Frontiera.

Rosario Sparti


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