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TorinoFilmFestival32. I 4 film che ho visto venerdì 28 novembre

Creato il 29 novembre 2014 da Luigilocatelli
'Snakeskin'

‘Snakeskin’

Snakeskin di Daniel Hui. TFF doc/Internazionale.doc
Oggetto cinematografico non classificabile. Comunque sia, questo film made in Singapore (con il supporto anche di capitali portoghesi) è una delle scoperte del TFF32. Un doumentario che stravolge parecchi codici e convenzioni del genere, e che per raccontare il vero si inventa una cornice falsa e iper narrativa. Mescolando ricordi e fatti a derive nel fantastico. Coraggiosissimo, fino a sfiorare la follia. Una voce fuori campo ci racconta, da una San Francisco futura dell’anno 2066, che è stato rinvenuto del materiale video su cui grava un interdetto perché, visonandolo, si potrebbe spalancare una porta sul Male. Ma il narratore decide di provarci, ed ecco che scorrono davanti ai nostri occhi le immagini. Dove si mescola di tutto, storia e invenzione. La storia è quella di Singapore dal tempo di Raffles e del colonialismo inglese alle prime rivolte indipendiste, ai movimenti di sinistra e filomaoisti, e ancora: le frizioni tra etnia cinese, dominante nella città-stato, e quella malese. L’industria del cinema, che produsse una lunga stagione di successi popolari e fu impiantata dai fratelli Shawn di Hong Kong (sì, quelli che diventarono grandi con i film di Bruce Lee). Ma vediamo anche un viaggiatore del tempo, sentiamo un ragazzo raccontare di una setta in cui è rimasta impigliata la sua famiglia, vediamo un gatto che è la reincarnazione di non ricordo chi. Fantastico e storico si mescolano in un prodotto filmico come non s’è mai visto. Lo stile è giustamente piano, usuale, perfino notarile, privo di barocchismi e visionarietà che, con un oggetto simile, arebbero creato una insostenibile ridondanza. Nel suo attraversare fantasticamente un pezzo d’Asia coloniale e post-coloniale Snakeskin mi ha ricordato il portoghese L’ultima volta che vidi Macao, uno dei miei film preferiti degli ultimi anni. Voto 7 e mezzo
Yeti di Abhijit Mazumdar. Onde
Nella sperimentale sezione Onde è arrivato quest’altro oggetto misterioso dall’India titolato Yeti. Di cui anche rovistando nei più remoti recessi e anfratti della rete si trovano solo scarne informazioni. Cinema nel cinema, cinema sul cinema, metacinema. Quanti ne abbiamo viste di cose così? Solo che stavolta siamo su un set di Bollywood, mentre si gira la storia di un povero tassista di Mumbai ingiustamente accusato e arrestato. Intorno figure e figurette. Il primattore narciso, le beghe tra regista e cameraman, un’attrice che sta per essere licenziata e non si capisce perché. Chi si aspetta un qualcosa di lussureggiante in puro stile bolywoodiano resterà deluso. Questo è uno dei film più anoressici e minimalisti e di sottrazione che si siano visti al TFF (e Dio sa quanti ce ne sono toccati). Talmente ellittico da allineare sequenze irrelate tra loro senza che ci venga fornita un aqualsiasi guida sul percorso narrativo, con passaggi dal set al fuori set quasi inavvertibili, e un finale molto alla Antonioni ma alquanto oscuro. Un evidente prodotto da festival di altissime ambizioni autoriali, ma che resta molto al di sotti dei suoi obittivi. Voto 6 meno
Wild di Jean-Marc Vallée. Festa mobile
Film di chiusura del Festival. Un vehicle per Reese Witherspoon, che Wild se l’è autoprodotto e che dopo un bel po’ di ciofeche qui torna al buon cinema, e chissà mai che non ci scappi una qualche nomination da qualche parte. Diretto dal Jean-Marc Vallée di Dallas Buyers Club, che conferma la sua abilità nel confezionare prodotti tra cinema popolare e indipendente. Tratto dalla vera storis, naturalmente poi riversata in un libro, di Cheryl Strayed, la quale s’è fatta a piedi tutte le 1.100 miglia del Pacific Crest Trail, il sentiero che nell’Ovest statunitense va dai confini con il Messico su fino al Canada. Una specie di Camino di Santiago de Compostela però in versione laica e con parecchi echi dentro del mito della nuova frontiera. Immergersi nella natura, contare solo su se stessi e il proprio corpo, per capire davvero cosa si vale, e per migliaia di altre ragioni, non tutte razionali. Cheryl si butta nell’impresa per segnare una rottura con il passato, con il dolore mai davvero superato per la morte precoce della madre, per le troppe storie di sesso casuale e promiscuo vissute, per l’uso e labuso di eroina, per la fine del matrimonio. Un bel mucchio di motivi per prrovare a rigenerarsi sul PCT. Un viaggio fitto di incontri, anche rischi, anche sorprese, da cui ovviamente Cheryl riemergerà cambiata. La retorica del rinascere da se stessa, del ricominciamento, dell’azzero-tutto-e-riparto, così volontaristica, così americana, era il vero rischio di questo film. Rischio non del tutto evitato. Ma la sceneggiatura di Nick Hornby riesce a tenere il tasso di banalità psicologistica e autoredentrice sotto il livello di guardia, e il risultato è un discreto film, meglio di quel che mi aspettassi, devo dire. Wild fa fatica a carburare, e la prima mezz’ora non ce la fa ad avvincere, poi col passare del tempo e delle miglia macinate da Cheryl, migliora. Un film che, se le donne lo adotteranno, potrebbe diventare un buon successo al box office. Voto 6 e mezzo
The Mend di John Magary. Festa mobile
SXSW is the new Sundance. Ormai arrivano da lì, dal festival di cinema ultra-indie e ultra-giovanilista di Austin, i titoli americani più cool che invadono i festival europei. A questo TFF s’era già visto in concorso, tra i prodotti del South of SouthWest, Big Signifcant Things, una robina caruccia ma niente di che. Meglio va con questo The Mend, una commediaccia di massima scurrilità e di virtuosistico turpiloquio però di grande acume e intelligenza, con una regia scatenata, un ritmo velocissimo, dialoghi che vien voglia di impacchettarli e mandari come ragalo natalizio agli sceneggiatori di tanto cinema giovane italiano perché prendano nota e copino. Se vogliamo, è la storia solita e stravista dei due fratelli diversi costretti per una qualche ragione a coabitare, con devastanti reazioni a catena. Solo che il regista John Magary ci immette un disincanto e un furore e un’energia molto contemporanei, e richiami agli usi, costumi e malcostumi dell’oggi assai puntuali. New York. Alan è tipino ammodo che sogna di sposare al più presto la fidanzata, manager di una compagnia di danza moderna. Mat è invece il fratello fancazzista, debosciato, sessuomane, alcolista, sempre in lite con la moglie salvo poi riappacificarsi con tanto di grandi scopate. Dopo una lite più tosta del solito Mat si sistema dal fratello, introducendosi in casa sua menre è in corso un party con la compagnia di danza della grlfriend. Naturalmente Mat si ubriacherà, rutterà, passerà la notte con la più caruccia del corpo di ballo. Sarà convivenza con bisticci, rinfacci, rimbrotti tra i due. Mentre la quasi-moglie di Alan si eclissa, ecco arrivare la moglie di Mat (“in casa nostra c’è un’invasione di pulci!”). Sboccatissimo. Con un Josh Lucas quale fratello scopatore e bevitore strepitoso. Finale conciliante. Ma si sa, anche le commedie più cative fiiscono sempre in gloria. È il mercato, bellezza. Magnifica la scena di Earl, l’amico di pappà che rievoca le comuni bisbocce. Voto 7+


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