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Trà sen, o del profumo di loto su foglie di tè

Da Lasere

18 feb 2013 @ 17:54

dal Vietnam, tè profumato, tè verde

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Se non avete di meglio da fare nel prossimo quarto d’ora o giù di lì, avrei una modesta proposta d’avventura, e cioè: in bilico su una snella pagoda, scivolare sulle acque calme del lago Hồ Tây (West Lake, il lago a ovest), nel cuore di Hanoi, capitale del Vietnam. A caccia di fiori di loto. Steli e foglie sono così alti e fitti che, volendo, ci si può giocare a nascondino. Chi m’accompagna? :-)

Quelle che vedete in foto – e sono tutte lì, nella tazzina: 10 grammi appena – sono foglie a tutt’oggi nient’affatto frequenti da incontrare sul mercato internazionale, perché prodotte in quantità sempre più esigue da un sempre più limitato numero di famiglie originarie del luogo: si tratta di trà sen, ovvero tè al loto, tradizionale tè verde profumato naturalmente a mano e – ça va sans dire! – senza l’impiego di alcun aroma artificiale, eletto a simbolo della “cultura del tè” vietnamita.

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Raro e prezioso com’è, in patria lo si serve specialmente durante il Tết, il capodanno, festeggiato tra fine gennaio e inizio febbraio secondo il calendario lunisolare cinese; nella quotidianità gli si preferisce il tè verde puro (trà xanh), il cui consumo in Vietnam è talmente compenetrato alla trama più schietta ed essenziale della giornata, soprattutto nelle aree rurali (dove il tè si chiama ancora Chè e si è soliti infondere in acqua bollente le foglie fresche, appena spiccate dalla pianta), da non aver dato luogo nel corso dei tempi a cerimoniali particolari: «Vietnamese do not find the necessity for a solemn tea ceremony, since to Vietnamese tea is too close to their daily life, like pure water they drink and air they breathe.» (cit.)

Questo trà sen (letteralmente: tè loto) mi proviene da un recente ordine da Postcard Teas, rivenditore londinese di cui vi parlerò meglio in un post tutto suo.
A produrlo sono i membri della famiglia Dong, che durante la bella stagione, meglio se all’alba, scivolano sul nostro stesso lago in cerca di barlumi rosa confetto tra un intrico verde di spampanati ventagli – pare che i fior di loto del lago Hồ Tây siano i più grandi e intensamente profumati di tutto il paese, grazie all’accentuata fertilità del fangoso fondale.

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Immagine tratta dal sito del rivenditore americano The Tao of Tea.

Il fior di loto asiatico impiegato nella profumazione di questo tè risponde al nome di Nelumbo nucifera (e spero tanto che ad almeno uno di voi sia sorto l’istinto irrefrenabile di agitare in aria un’immaginaria bacchetta magica esclamando “Nelumbo nucifera!”, come fosse un incantesimo harrypotteriano; io l’ho fatto e confessato; ora vi prego non lasciatemi sola ;-)) e non soltanto fiore è, questo Nelumbo, ma simbolo sacro e benaugurante, nelle sue numerose varianti botaniche, in seno a diverse culture e religioni antiche.
Metafora alata di buddhità e deandreismo, ben ancorata al suolo eppur fluttuante, col suo calice maestosamente eretto e le radici invischiate nella melma: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior i Nelumbi. Eh.

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Il sorgere di Brahma da un fiore di loto cresciuto dall’ombelico di Vishnu in un’immagine di mitologia indù risalente al 1870 circa (immagine ingrandibile).

«Nell’antico Egitto il fiore di loto viene menzionato nel mito della creazione del mondo: esso nacque dal fango originario e il divino creatore del mondo spuntò “come magnifico fanciullo” dal suo calice. [...] Il fior di loto dell’India è il più importante simbolo per la spiritualità e l’arte di quest’area culturale: nella mitologia indù, il creatore del mondo Brahma si genera da un fiore di loto cresciuto dall’ombelico di Vishnu dormiente sull’acqua. [...] Anche in Cina la simbologia del loto è collegata con il Buddhismo: il loto, che ha radici nel fango ma sboccia puro da esso, che profuma senza avere rami, che dispiega una fioritura vuota e guarda all’insù, è un’immagine del puro anelito, e inoltre uno dei gioielli o “delizie” tanto nel Buddhismo quanto nel Taoismo.» (tratto dalla voce “Loto”, Enciclopedia dei Simboli Garzantina)

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Sopra e sotto, raccoglitori di loto sul lago Hồ Tây di Hanoi (Vietnam), ai giorni nostri.
Immagini tratte da questa pagina del sito Sapastories.com.

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Si narra che nell’Ottocento, durante la dinastia Nguyễn, i servitori dell’imperatore Tu Duc si recassero in ore pomeridiane presso gli stagni del giardino imperiale in cerca di fiori di loto, affinché senza raccoglierli potessero inserire manciatine di tè direttamente tra i petali, che venivano poi delicatamente richiusi con nastrini di seta e lasciati nottetempo a “covare” le foglie, impregnandole della loro caratteristica e inconfondibile fragranza; il giorno seguente, di prima mattina, tornavano a sciogliere quei piccoli scrigni rosati, da cui sorgeva un tè naturalmente aulente e pronto per essere servito all’imperatore per la prima colazione.

Sembra che questa aristocratica pratica di profumazione sussista ancora, per quanto tramandata da pochissimi, differenziata dall’originale solo per il fatto che i fiori non vengono più lasciati attaccati alla pianta, ma colti e “farciti” sulla terraferma. Chissà; probabilmente è vero, ma nei limiti del consumo privato: passassi da lì, ci proverei anch’io :-)

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Immagine tratta da questa pagina del sito Vietnamonline.com.

Ad ogni modo, noi che imperatori non siamo dovremo accontentarci di un più umile – ma pur sempre fedele alla tradizione – procedimento, per molti versi assimilabile a quello impiegato in Cina, ma anche in Vietnam stesso, per produrre tè al gelsomino (ne parlammo qui, ricordate?): prolungata prossimità di foglie di tè e profumo di fiori, più volte ripetuta, affinché l’aroma dell’uno abbracci quello delle altre, indissolubilmente.

Una delle differenze principali rispetto al tè al gelsomino sta nel fatto che del loto si utilizzino gli stami anziché i petali, ovvero i filamenti racchiusi nella corolla, di cui per la precisione si prelevano le estremità ricoperte di polline (antere) affinché siano poste a contatto con le foglie essiccate di tè: talvolta stanno in alterni strati all’interno di barili di legno, talaltra mescolati e chiusi entro involti di carta o altri contenitori; in ogni caso l’incontro dura ore e si rinnova più volte, ognuna sostituendo gli stami esausti – in questo video della Televisione Vietnamita sono mostrati alcuni tra questi passaggi.

Ciò detto, non stupisce che mille e più fiori di loto si rendano necessari per dar vita ad un chilo di tè profumato!

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Immagine tratta dal sito The Tao of Tea.

Orbene: siam pronti per l’assaggio?

Le foglie asciutte appaiono di un verde scuro cupo, con rari e sottili codini pelosetti (leggi: germogli), perlopiù ritorte su se stesse in forma d’anellino irregolare; ho ragione di credere si tratti di tè verde Thai Nguyen, coltivato nell’omonima zona nord-orientale prossima ad Hanoi e solitamente usato come base per la creazione del tè al loto, grazie al suo maggior “pregio” rispetto agli altri tè vietnamiti e alla sua personalità ben disposta all’incontro; ma vi sto dicendo cose di cui non ho la certezza: rintracciare riferimenti sicuri in tal senso mi è risultato un po’ arduo.

Il tempo di un pensiero ed eccolo emergere repente, il profumo particolarissimo del loto, a me finora sconosciuto se non per descrizioni lette: note chiare di vaniglia – così piene e tonde e dolci che vien da chiedersi se non vi sia un intero baccello racchiuso nel bustino – celano sbuffi canforati d’anice; un aroma molto definito, che pur non lasciando adito a grandi sfumature ulteriori (non al mio naso, almeno) risulta intrigante, senz’altro bizzarro.

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Sopra: piantagione di tè nella provincia di Thai Nguyen, nel nord-est del Vietnam: area di moderata altitudine tra le più produttive, in cui dimorano piante di tè alloctone.
Pur consumando assiduamente tè da secoli, il Vietnam può contare su piantagioni organizzate interne al paese solo dalla metà dell’Ottocento, epoca in cui furono volute dai colonizzatori francesi. Prima di allora erano comunque presenti, alle elevate quote delle province settentrionali, ampi agglomerati di piante autoctone sparse per la foresta allo stato selvatico, oggi riconosciute cultivar a sé stante col nome di Shan (cfr: M.L. Heiss, R.J. Heiss, “The story of tea”, 2007) e per certi aspetti accostabili alla varietà assamica: piante robuste e tendenti allo sviluppo verticale, con foglie particolarmente ampie e coriacee.
Sotto: antiche piante – ma diciamo pure alberi! – di Camellia sinensis var. shan nella provincia di Hà Giang, la più elevata e settentrionale del Vietnam (confinante con lo Yunnan cinese, zona celebre per la produzione di tè neri nonché culla del tè Puerh); vi si ricavano tè “di montagna” dal gusto schiettamente intenso, naturalmente esenti da sostanze quali fertilizzanti e pesticidi, il più noto tra cui è chiamato Snow Shan o Shan Tuyêt (dove “tuyêt” significa “neve”, riferendosi alla fitta peluria che ricopre le foglie più giovani).
Ambedue le immagini tratte dal sito del rivenditore americano The Tao of Tea.

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L’infuso, che ho preparato con acqua a 75° x 2′ (calando a 1,30” per la seconda e terza infusione), a dispetto del suo pacato sembiante ha se possibile un aroma ancor più penetrante delle foglie asciutte: in tazza la vaniglia passa timidamente in sottofondo ed emerge invece l’anice, in tutta la sua pungente, esuberante anicità; il gusto del tè fa da mero piedistallo, è comprensibilmente intimorito da cotanto ardire, tanto che io l’ho perso di vista: temo di non averlo riconosciuto; in bocca si ha quasi un’intensità di caramella, e un brio di canfora e vago rosmarino (?) che punge amarognolo alla fine del sorso: par quasi di bere anisetta!

Il profumo delle foglie infuse rinvigorisce col loro pigro dispiegarsi, sempre più balsamico e rosmarinoso, pur cullato in una nube dolce; altro che aromatizzazioni artificiali, sciacquate via al primo tuffo d’acqua!
Poi, nella tazza vuota, resta un buon soffio fresco zuccherato.
Che tè mattacchione è mai questo ;-)

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Ora, dovete sapere che io detesto l’anice; credo a causa di certe goccine contro la tosse che mi somministravano da piccola e che avevano questo aroma, la qual cosa me l’ha fatto presumibilmente odiare per il resto della mia successiva vita. Diciamo dunque che questo tè, ricordandomelo da vicino, non è esattamente il mio ideale di tazza.
Senza contare che tendo a preferire foglie più docili al palato, più amabili e ritrose, e a dispetto della levità del fiore che lo profuma questo tè è tutto men che lieve, a mio modesto avviso; diminuendo di una trentina di secondi il tempo delle infusioni (1,30”, 1′, 1′) si quieta un pochino, pur restando ben lungi dal parermi etereo.

Oltre a ciò, infine, – e magari è nient’altro che un’impressione o una coincidenza – mi son parse foglie particolarmente potenti a livello di “contenuto caffeinico”, di quelle insomma che “mi vanno alla testa” in men che non si dica facendomela fastidiosamente pulsare: qualcuno di voi ha presente, per caso? Un effetto che finora avevo sperimentato solo con i Puerh sheng (”verdi”) più giovani, tanto da farmi praticamente smettere di berne.

Epperò, via, nonostante tutto sono rimasta piacevolmente colpita da un aroma così caratteristico e inconsueto, e tenace sulle foglie come pochi altri, infusione dopo infusione: potevo mica non raccontarvelo!
È stato un incontro curioso, stimolante. L’ennesimo, piccolo viaggio inventato, in punta di sorso :-)

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Principali fonti consultate (oltre a quelle già linkate nel testo):


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