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Tra Tobino e Tolstoj: Stefano Tofani e il suo “ombelico di Adamo”

Creato il 17 luglio 2013 da Frailibri

Stefano Tofani, L’ombelico di Adamo, Giulio Perrone editore *Hinc* (2013), 290 pagine, 13 euro

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Se passeggiando in libreria, su uno scaffale fra Tobino e Tolstoj (la foto è di Stefano Tofani), vi sentirete osservati da due occhi neri neri che sbucano da una mascherina di pizzo, giratevi e lasciatevi incantare.
Dietro la mascherina scorre il primo romanzo (pubblicato) di Stefano Tofani, giovane (e di belle speranze, come si dice) autore di Lucca, che con sapienza, dedizione, colore e intensità racconta la vita di un piccolo paese sconvolta da un fatto strano.
Il mistero ha inizio in una piazza vuota, al centro di una città che si sta svegliando alle sei del mattino, iniziando dallo zelante barista Pancino, personaggio indimenticabile e concreto, come lo sono tutti i nati dalla mente e dal cuore di Stefano Tofani.
Pancino scopre in mezzo alla piazza dove si affaccia il suo bar una statua che prima non c’era (la scena della scoperta, le mani che stropicciano gli occhi, lo stupore del pratico barista di fronte a una “magia” catapulta a capofitto dentro il romanzo da subito). E non solo. Motore del giallo che si dipanerà per tutto il libro e per ogni più stretto vicolo del paese è il fatto che la statua indossa una maschera di pizzo nero e un perizoma e ha in mano un mappamondo da cui è stata cancellata l’Islanda. Sotto il perizoma, il suo organo è stato mutilato.
Da quella scoperta, parte una giostra di opinioni, supposizioni, storie, partecipazione paesana che ha la perfezione di un ottimo romanzo corale, dove ogni personaggio, dalla parrucchiera che chiacchiera al maresciallo dei carabinieri che indaga, ha un suo spessore e un suo carattere che rimane impresso ben oltre la lettura.
Stefano permette a tutti (personaggi e lettori) di partecipare attivamente non solo alla risoluzione del giallo (che assolutamente non svelerò), ma anche alla vita vera di un paese immaginario, che pulsa forte nella piazza centrale, nelle case, nelle chiese e mette in contatto storie e persone, fino a creare un intreccio partito dal giallo, che si dipana in storie d’amore, di vendetta, di rivalità, di amicizia.
Il valore aggiunto senz’altro di una storia di per sé avvincente, è la grande capacità che l’autore ha di osservare con occhi curiosi e “puliti”, scevri da ogni preconcetto o schema di personaggio, l’umanità intera, dalla persona meno importante ai fini dello sviluppo della trama fino alla principale, stuzzicando il lettori con perfetti quadri d’ambiente non solo da osservare, ma da vivere.

Sentiamo il racconto di questa bella esperienza da Stefano, intervistato – via chat – da me.

Come sei arrivato tra Tobino e Tolstoj? Com’è iniziata la tua avventura con la scrittura?
Ci sono arrivato grazie a questa storia che ho scritto e riscritto nel corso degli anni, e che l’anno scorso ha vinto il premio Villa Torlonia. E ci sono arrivato grazie alla passione per la scrittura che cerco sempre di tenere viva pur se non è facile perché scrivere un romanzo richiede tempo e impegno. Quando ho scritto L’ombelico di Adamo con la testa ero sempre lì, anche quando non scrivevo.

Com’è nata questa storia?
Volevo scrivere una storia corale con molti personaggi e volevo ambientarla in un paese.

Perché in un paese?
Perché in un paese ho vissuto per molti anni e mi ha sempre colpito come viene distorta la realtà, l’intreccio di voci, le opnioni, le bugie; ho pensato: di fronte a un fatto strano, inspiegabile, che succederebbe? E mi è venuta in mente questa cosa della statua.

Quindi sei partito dalla statua, l’hai messa in mezzo alla piazza e hai osservato cosa succedeva?
Sì, non sapevo nemmeno io cosa sarebbe successo. Ero uno dei personaggi. Forse ora che ci penso quella che ho raccontato è solo la mia versione, ognuno avrà la sua.

E va bene così direi. Ma hai mai stilato una scaletta della storia con i vari intrecci?
All’inizio no. Dopo, quando cominciava a diventare complicata qualcosa ho buttato giù. Scrivo sempre di impulso; se conoscessi come finisce o si evolve una storia mi annoierebbe scrivere, non potrei scriverla.

E non perdi il filo così?
Per me scrivere è un po’ come leggere, leggere al quadrato! Se conosco il finale di una storia non la leggo. Il filo rischio di perderlo e infatti penso di continuo a quello che può succedere, a cosa devono fare i personaggi, mi vengono in mente frasi, scene; poi a volte torno indietro e aggiusto.

Quindi in fondo uno schema mentale te lo fai e rivedi le cose in modo che filino?
Sì, ma sempre man mano che vado avanti. È come se fosse una cosa nascosta sottoterra e io dovessi portarla alla luce scavando. Ne vedo sempre di più, man mano capisco cos’è. L’ha detto Stephen King mi pare. Per me è così.

Che tipo di paese è quello dove è ambientato il romanzo?
Un paese della provincia, anonimo, che non vuole essere disturbato, ma che si trova catapultato in tutta questa confusione, televisioni, turisti.

Come sei passato dalla prima bozza del libro alla pubblicazione?
L’ho fatto leggere a qualche persona fidate che mi ha dato consigli preziosi (ho avuto il piacere e l’onore di essere una di queste, e gli ho segnalato il concorso Villa Torlonia, indetto dalla Giulio Perrone editore in collaborazione con il I Municipio).
Poi ho continuato a ritoccarlo fino alla pubblicazione, aggiornarlo.

C’è qualcosa che hai rivisto radicalmente dopo un po’ di tempo dalla stesura?
Ho cercato di migliorare lo stile e l’ho aggiornato al 2013 con riferimenti alla vita di oggi, piccole cose. Ho inserito qualche nuova scena.

Quindi lo scrittore non finisce mai di lavorare…
Non finirebbe mai, è vero; alla fine lo conosci quasi a memoria, levi una virgola poi il giorno dopo la rimetti.

E quand’è che decide che deve mettere la parola “Fine” e mandare in stampa?
Quando l’editore ti dice muoviti, allora basta.

In giuria, al premio Villa Torlonia, c’erano, fra gli altri, Dacia Maraini, Walter Mauro, Ugo Riccarelli, Paolo di Paolo; una soddisfazione che forse vale più del primo posto guadagnato essere stato giudicato il migliore da loro?
Certo! soddisfazione grandissima, ed emozione pari a quella che ho provato quando mi è arrivato il libro.

E quando lo hai visto in libreria, sistemato tra Tobino e Tolstoj e nei bookstore online immagino…

Ultima domanda. C’è un momento in cui hai capito che volevi scrivere sul serio e non solo per te stesso?
Cominci a scrivere un po’ più sul serio quando senti che c’è qualcuno che apprezza quello che scrivi; però scrivo comunque per me stesso, è un piacere, una necessità. E mi manca qualcosa quando il tempo o i figlioli (Stefano ha una splendida compagna e due bellissimi figli piccoli, che speriamo saranno fonte di ispirazione presto per un altro romanzo) non me lo permettono.

Adesso una domanda la fa Stefano a me, mi chiede di parlare del divano rosso, un divano dove mille anni fa ci siamo seduti, mentre frequentavamo un Master insieme, e abbiamo parlato dei nostri progetti, sogni, del futuro. Una cosa speciale che forse in pochi riusciremo a capire; ma non vediamo modo migliore di chiudere questa intervista e questo primo passo di questa avventura.
C’era una volta un divano rosso nei sotterranei degli studi rai di Firenze su cui nascevano sogni, progetti, amicizie e si pensava al futuro, a cosa sarebbe successo dieci anni dopo se solo lo avessimo voluto. Un pezzetto di questo romanzo è nato proprio lì, 11 anni fa e il suo mistero si aggira ancora per le aule di quei sotterranei, dove ogni cosa è possibile.



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