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Trasformazioni e continuità: dal Fascismo alla Repubblica (parte prima)

Creato il 16 novembre 2011 da Ilcasos @ilcasos
Trasformazioni e continuità: dal Fascismo alla Repubblica (parte prima)

Adunata per l'uscita dell'Italia dalla Società delle Nazioni

Parlare di crisi in sé, slegata da qualunque dinamica o definizione, non ha molto senso. C’è da dire che il concetto di “crisi” è sempre troppo ampio ed abusato per non sembrare un’etichetta utile in qualunque occasione. Più interessante invece è vedere la conformazione di tale crisi, tra sviluppi e precedenti.
La crisi, nelle scienze sociali, si divide in breve e lungo periodo: «quel che cambia lentamente e quel che cambia velocemente, tra la solidità delle radici e l’irrilevanza della cronaca»[1]; ma il crollo di uno Stato – o meglio delle strutture che lo determinano – è «per un verso, il regno degli avvenimenti – decreti governativi, licenziamenti, abdicazioni, ribellioni – e, per l’altro, riguarda un’intera struttura politica e istituzionale»[2]. In qualche modo, il crollo di un sistema statale diventa il punto d’incontro di fenomeni e reazioni differenti, che non possono venire spiegati né previsti con il semplice binomio causa-effetto (cosa in realtà quasi mai possibile nelle scienze umane). Si ritrovano sullo stesso piano reazioni psicologiche, mentali, “evenemenziali” e politiche, meccanismi automatici o no, difficili da chiarire. Paolo Macry dice a proposito degli “ultimi giorni” degli stati:

Anche su questo piano, le crisi di stati e regimi impongono di mischiare le carte. Tipicamente, la loro cronologia coniuga politica, comportamenti sociali, valori comuni e manda all’aria gli steccati accademici e i pregiudizi ideologici degli studiosi. […] La loro cronaca si dipana attraverso decisioni governative prese con l’acqua alla gola, conflitti parlamentari, drammi dinastici, delitti eccellenti, ma al tempo stesso è affollata da donne in cerca di cibo, popolazioni che fuggono di fronte al pericolo, soldati che rifiutano l’obbedienza, vandali che decapitano statue.[3]

Per la storia d’Italia, se si vuole indicare uno dei momenti cardine di svolta, seppur con continuità più o meno marcate, il passaggio dal fascismo alla repubblica è indubitabilmente fra questi, soprattutto la cesura del 1943-45 (di cui si parlerà nella seconda parte di quest’articolo). Che la questione del fascismo o dell’antifascismo ritorni spesso nei quotidiani e nelle discussioni politiche, ce ne rendiamo conto più o meno tutti, sovente – tra le altre cose – come retorica utilitaristica per avvalorare questa o quell’altra tesi/posizione. A riprova, quindi, sia dell’importanza storica che del difficile assorbimento della valenza di questa contrapposizione di parti, per lo meno nella società italiana contemporanea. Al di là di questo, esiste una storiografia che ha le proprie linee guida e tematiche.

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"Gloria fascista" per un giornale tedesco dell'epoca

La crisi dell’impianto statale fascista, con la riconversione di valori e strutture avvenuta nel secondo dopoguerra, si situa a metà fra lungo e breve periodo. Accennerò qui soltanto ai caratteri di continuità e/o trasformazione del dibattito giuridico-costituzionale. Per fare questo prendo il 1945 come periodo di svolta e punto d’inizio di un rinnovamento, per alcuni punti radicale, per altri meno, della società italiana. L’argomento che tratto è ampio tanto quanto difficile, e confina con una serie di tematiche che vanno dalla concezione totalitaria, alla questione dell’individuo nella società, alla formulazione del diritto riguardo la questione suddetta, alle ideologie e sistemi di pensiero che permeano (culturalmente ed antropologicamente) un’epoca. Argomento, dunque, molto più complesso di quanto riuscirò a delineare, di cui toccherò soltanto alcuni punti, sperando nella bontà d’animo nel lettore nel caso di mie sviste o lacune.
Parto dal tanto discusso “problema identitario” italiano, spesso collegato ad un’idea di arretratezza, o comunque di debolezza rispetto ai casi d’Oltralpe. Se questa premessa sia giusta o sbagliata, non sta qui dirlo (personalmente sono più del parere di una differenza generale, farcita di sbagli politici più o meno evitabili[4]). Ad ogni caso, la questione della nazione e dell’identità italiana è ritornata in auge, anche in relazione al 150° dell’unificazione (vedi la nostra precedente parola-chiave). Debolezza che è sì frutto di una mancata unità ideale[5], ma soprattutto della famosa dicotomia “paese reale” vs. “paese legale”. Questa formula retorica nasconde principalmente la mancata legittimazione delle élites da parte delle masse popolari. Come già è stato sottolineato da Mariuccia Salvati,

il sistema politico non trovava corrispondenza sia nelle tradizioni locali sia nella condotta reale della polizia e della pubblica amministrazione, che con il loro comportamento discrezionale continuavano ad adeguarsi agli usi dell’ordine ereditato più che a quelli del nuovo. Inoltre, si è osservato, se la ricchezza della nazione è apertamente favorita dai governi italiani, questi sono anche pronti a chiedere a un altro pilastro dell’ordine tradizionale, alla Chiesa, un aiuto sostanziale per fronteggiare e moderare i conflitti sociali prodotti dall’industrializzazione. In cambio, essi rinunciano praticamente alla difesa della natura liberale dello Stato, contribuendo così alla sua precoce crisi di identità e di legittimazione.[6]

La mancanza di una chiara idea di Stato, dunque, più che di un’idea di Nazione: due elementi che si ritrovano nella declinazione del diritto, legandosi alle dinamiche di governamentalità[7] di un sistema sociale e politico.

Il fascismo: alcune interpretazioni

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È qui forse importante citare l’opinione di Fioravanti – che cozza quasi del tutto con quello detto finora:

In realtà, mi sembra assai più improbabile una spiegazione del nostro presente costituzionale tutta in chiave di ‘crisi’ del nostro passato immediato, ovvero del sistema degli Stati nazionali sovrani, come se le grandi e imponenti trasformazioni che abbiamo vissuto nel ventesimo secolo fossero state tutte improvvisate, tutte determinate da avvenimenti contingenti, tutte da leggere invariabilmente in chiave di ‘deviazione’ dal modello dello Stato nazionale.[8]

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Giovanni Gentile

Il rapporto tra Stato precedente al fascismo e Stato fascista è definibile però solo in rapporto ad una crisi delle strutture, da cui l’apertura di una faglia in cui il fascismo è riuscito ad entrare, anche se successivamente ha tentato in tutti i modi di riallacciare le proprie premesse ad una tradizione più o meno rivalutata ai propri fini, giocando sul continuo binomio di novità/riaffermazione della tradizione, binomio proprio dell’ideologia fascista. C’è insomma un carattere di “risposta” al crollo delle premesse liberali, risposta che viene costruita a mano a mano che il regime fascista attua sempre più la sua scalata al potere, ma dando contemporaneamente luce ai propri paradossi.
Base di partenza per la costruzione fascista è la compenetrazione dello Stato nella Nazione: «vi è il mito, il mito della nazione, non la razionalità della costruzione dello Stato»[9].
Ora, dare una definizione precisa delle cause e della formazione del fascismo è, per chi scrive, quasi impossibile; seguiremo qui le opinioni di alcuni storici e contemporanei (citazioni che non vogliono assolutamente essere esaustive, ma semplice specchio degli studi di chi scrive).
Le diverse interpretazioni del fascismo s’inscrivono in quello che Renzo De Felice chiama il «fenomeno fascista»[10], un movimento europeo che erompe dalla guerra, soprattutto dalla crisi da essa determinata. «Precondizioni» e matrici – anche ideologiche – esistevano sì prima della guerra mondiale, ma «nulla autorizza a pensare che si sarebbero sviluppate senza [quel]la crisi traumatica»[11]. Il primo ad evidenziare un nesso fra Prima Guerra mondiale e fascismo è stato Angelo Tasca, già nel 1938, chiaramente in modo molto più marcato dello storico di Rieti:

La leggerezza, la quasi incoscienza con cui una parte delle classi dirigenti lancia l’Italia nella guerra, preparano quelle disillusioni della pace che tanto hanno contribuito alla nascita del fascismo. Durante la lotta per l’intervento comincia anche a fissarsi nei “fasci” del 1914-1915 quel complesso di demagogia, di nazionalismo esasperato, d’antisocialismo e di reazione che si ritroveranno poi nei fasci del 1919-1920. Scatenata con metodi faziosi, constata il senatore Vincenzo Morello, la guerra nazionale fu condotta «in un’atmosfera di guerra civile». Fra il maggio 1915 e l’ottobre 1922 la genesi è dunque diretta e ininterrotta[12].

Quando si parlerà più avanti dei problemi di rappresentatività del sistema liberale, bisogna sempre inquadrarlo nel contesto del dopoguerra, dove grandi sono le difficoltà dei ceti medi. Per dirla come De Felice, il fascismo è stata la rivoluzione che i ceti medi avevano pensato di poter fare, sulla scia della contestazione rivoluzionaria del dopoguerra italiano. È attraverso questo rapporto coi ceti medi che il fascismo diventa progressivamente regime: facendo leva su istanze, valori, mentalità e aspirazioni, che dal ’22 al ’25 permette al partito fascista di diventare un vero e proprio partito di massa ed entrare negli organi burocratici statali. L’epurazione svoltasi dal ’26 al ’28 delle frange più estreme, è dovuta al necessario compromesso con la vecchia classe dirigente e con l’élite moderata fascista[13]. In questo secondo contesto nascono le formulazioni giurisprudenziali del fascismo, con il compito di teorizzare le basi materiali ed ideologiche della nuova forma di governo.

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Il Corriere della Sera annuncia l'incarico a Mussolini

Molta parte della storiografia ha ricondotto l’ascesa del fascismo all’inadeguatezza dello Stato liberale italiano di fronte alle modernizzazioni sociali, dovute in primo luogo allo sviluppo industriale, così come a situazioni di fondo della società italiana che non si era riusciti a sanare:

l’arretratezza, largamente documentata, della legislazione sociale e l’aggravarsi della questione meridionale (non come problema in qualche modo settoriale ma sempre più come questione nazionale) e si avrà un quadro capace di spiegare quello che è stato a ragione definito il “colpo di stato interventista” e che segna una chiara vittoria del blocco di potere individuato da Procacci, messo in crisi ma tutt’altro che definitivamente sconfitto dall’esperimento riformistico di Giolitti, già indebolito a sua volta e ridotto alla difesa dopo il 1907. […] “La situazione nel dopoguerra,” ha osservato a ragione il Carocci, “fu caratterizzata da due movimenti di fondo: la disordinata ma autentica aspirazione delle masse popolari a un rinnovamento democratico; la prosecuzione ed accentuazione delle tendenze verso destra in seno alla borghesia e alla maggioranza del ceto politico”.[14]

Qui si prende in considerazione anche l’avvento della società di massa, avvento che se il fascismo ha concorso ad affermare, pure ha tentato di arrestare nei suoi punti di maggiore modernizzazione[15]. In ogni caso, le forze centrifughe dell’industrializzazione, la crescita dei movimenti sindacali e proletari, l’allargamento del sistema elettorale sono alcuni dei cambiamenti con cui il primo Novecento ha visto superare il sistema cetuale di fine Ottocento (e, per accennare ad una chiave di lettura che qui non trova spazio, gli stravolgimenti dovuti alla crisi agraria del 1873). Un rifermento alle analisi gramsciane è qui dovuto: come scrive Salvadori,

secondo l’analisi che Gramsci elabora, il fascismo rappresenta, in sostanza, il risultato del fallimento del piano giolittiano fondato sull’integrazione della classe operaia, sulla subordinazione politica degli agrari alla borghesia industriale e sulla compressione delle masse contadine; il fascismo rappresenta l’avvento alla direzione dello Stato della borghesia agraria, che mira a sopprimere la democrazia parlamentare e a sostituirla con un regime di violenza che distrugga le possibilità di alleanza degli operai e dei contadini.[16]

Da questa prospettiva, la conclusione che trae Gramsci è:

dato il sistema totalitario che il fascismo tende ad instaurare, sarà nel seno stesso del fascismo che tenderanno a risorgere i conflitti che non si possono manifestare per altre vie.[17]

In Gramsci, diventa centrale la definizione di “crisi organica”, e cioè «di egemonia politica e sociale: di una élite nazionale rappresentativa di una classe sociale, la borghesia, che si identifica agli occhi delle masse mobilitate con lo Stato liberale postrisorgimentale»[18]. Questa crisi diventa evidente dopo la mobilitazione della guerra, con la mobilitazione nazionale[19].
Anche per Gobetti le radici del “successo” fascista stanno nei problemi istituzionali, negli errori del post-Risorgimento: il fascismo, insomma, come “autobiografia della nazione”, sia politica che morale. Anche Rosselli, ugualmente liberale, parla del “fondamento morale” del fascismo[20]. Questa visione si ricollega sempre alla «morte» della costruzione liberale, oltre che all’inesistenza di un vero e proprio movimento di massa consapevole della propria libertà e coscienza. Cosa che porta a concludere:

Non bisogna credere che Mussolini abbia trionfato soltanto con la forza bruta. Se ha vinto, è anche perché egli ha saputo abilmente toccare certi tasti a cui la psicologia media degli italiani era straordinariamente sensibile. Il fascismo è stato, in certa misura, l’autobiografia di una nazione che rinuncia alla lotta politica, che ha il culto dell’unanimità, che rifugge dall’eresia, che sogna il trionfo della facilità, della fiducia e dell’entusiasmo.[21]

Si ha un certo parallelismo con la visione crociana del fascismo come “malattia morale”, fondato non tanto su un’adesione di classe, ma su una mentalità ramificata su più strati sociali:

Nel vuoto che si era aperto nelle anime, nella depressione delle volontà, un moto audace, che mancava di ogni fede, di ogni sistema positivo di idee, ma rinnegava tutto il passato, si rifiutava di dare giustificazioni della sua presa di possesso dei poteri dello Stato, attirava e affascinava la fiducia delle masse nonostante la mancanza di fede nelle sue affermazioni, trovò condizioni propizie alla sua fortuna.[22]

Per tutte le interpretazioni qui viste, è sempre valida l’affermazione dell’ingresso di nuovi attori politici, nella forma di una massa «disorganizzata e amorfa [derivante da] maggioranze addormentate, fino allora a rimorchio dei partiti»[23].
Il fascismo “accede” al sistema rappresentativo facendolo diventare totalitario in nome di «nuovi ideali e di una nuova “aristocrazia” […] ma si tratta di un paravento che nasconde una più sostanziosa e duratura dittatura personale»[24]. Il termine “aristocrazia” è più che altro strumentale: serve per “cavalcare” l’ondata di disprezzo verso la rappresentanza elettorale, il sistema parlamentare, ma «il confronto politico si sarebbe svolto [nell'] usare le classi dirigenti (in senso ampio) già esistenti, in funzione del rafforzamento del fascismo alla guida del paese (la strada preferita da Mussolini)»[25]. Superamento delle élites, dunque, in nome di una politica delle masse, ma masse “di classe media”[26]. La crisi del ’29 influenza molto, in questo senso.
In realtà, si conservano comunque dei caratteri di continuità con il sistema precedente, più che altro perché il regime è costretto ad appoggiarsi ad esercito e aristocrazia, così da conservare il proprio potere[27].

Il totalitarismo, un campo semantico

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Edizione odierna del Codice Rocco

Il PNF pur con tutte le sue trasformazioni, non abbandona mai il mito dello Stato totalitario, è per questo che importanti sono le teorizzazioni dei giuristi, che essi siano o meno coincidenti con l’effettiva politica fascista. La dottrina giuridica italiana, soprattutto quella degli anni Trenta, è dunque una fucina di rielaborazione delle definizioni giuridiche, fra loro diverse, ma che hanno ripreso alcune forme dell’orlandismo o della visione di Santi Romano, ridefinendole e avendo il totalitarismo o lo Stato autoritario come progetto innovatore[28].
Le discordanze fra i vari pensatori sono indice di una difficile relazione tra la necessità di affermare il nuovo e di legittimarlo di fronte all’antico – caratteristica che si spiega col rapporto ceti medi-fascismo prima accennato[29]. Il totalitarismo è una vera e propria categoria storica, che necessiterebbe una trattazione a sé stante, perché foriera di elaborazioni divergenti in campo storiografico[30], dunque per non ingigantire il discorso, si vuole qui seguire più che altro una lettura “semantica” interna all’ideologia fascista, secondo la lettura che ne dà Pietro Costa[31].
Il problema maggiore sta prima di tutto nell’affermare in quale modo lo Stato fascista sia totalitario, quanto e come riprenda caratteri della tradizione giuridica sette-ottocentesca, e quanto invece affermi nuove forme di legislazione di fronte al rapporto cittadini-governanti. Il punto centrale che qui interessa è la connessione col precedente Stato di diritto. Quest’ultima viene delineata in maniera diversa per ogni giurista o teorico, in relazione anche a più o meno velati conflitti interni al regime. Lo Stato di diritto in quanto tale poggia essenzialmente sulla garanzia dei diritti individuali, sulla separazione dei poteri e sulla sovranità impersonale della legge. Definizione che arriva dopo un lungo processo di elaborazione ad opera dei pensatori del XVIII secolo: lo stato come istituzione “razionale”. Importante è il concetto di “autolimitazione” dello Stato, che permette la creazione di uno “spazio” del soggetto dove vengono affermati i suoi diritti giuridici. C’è tutta una lunga tradizione con cui dover fare i conti, in cui si tenta una mediazione della contrapposizione tra forza e giustizia, contrapposizione alla base del rapporto dello stato col cittadino:

Non si tratta ora di stabilire in astratto un dies ad quem, ma di dire con la massima semplicità possibile qual è la causa principale della cesura interna alla storia dello Stato moderno in Europa. In una parola, credo che si tratti dell’emersione, a partire dalla metà del secolo diciassettesimo, del paradigma individualistico, associato a un principio di uguaglianza, intesa per l’appunto come uguaglianza tra gli individui astrattamente intesi, che viene assunto come vero e proprio esito obbligato della modernità. È da quel momento in poi che lo Stato moderno ha bisogno di vedere sovradeterminata la propria forza: la sua legge ha ora bisogno di tutta la forza che è necessaria per sconfiggere il particolarismo, per realizzare il principio di uguaglianza.[32]

La questione, qui, è il passaggio da una giustificazione dei mezzi coi fini ad una garanzia dei fini con la legittimità dei mezzi, ovvero il passaggio da diritto naturale a diritto positivo[33]. Spiegare questo passaggio ci porterebbe via troppo spazio, purtroppo, basti qui dire che tutta la giuspubblicistica fascista s’instaura sulle basi del diritto positivo e del giuspositivismo, pur trasvalutandone gli aspetti[34].
La retorica esasperata della potenza fascista viene affermata anche attraverso il depotenziamento dello Stato di diritto, o nello stravolgimento del suo senso originario. In Europa und der Fascismus, libro del 1929 di Hermann Heller, l’autore analizza il fascismo in chiave politico-istituzionale, ed afferma che proprio questi caratteri costitutivi dello Stato di diritto vengono smentiti dal fascismo. Anteponendo un potere legislativo, esecutivo e giudiziario dittatoriale ed unico, lo Stato fascista non può dunque dichiararsi “di diritto”, contrariamente a quanto aveva fatto il Ministro della Giustizia Alfredo Rocco, in seduta di parlamento del 19 marzo 1928[35].
L’idea dello Stato, per Rocco, è chiara nel suo volume del 1927, La trasformazione dello Stato. In questo lavoro, l’allora Ministro della Giustizia afferma la piena sovranità dello Stato fascista sugli individui, rovesciando la teoria kantiana per cui l’individuo è un fine e non un mezzo:

è vero, al contrario, che la società, considerata come l’organismo riassuntivo della serie infinita delle generazioni, e lo Stato che ne è l’organizzazione giuridica, hanno fini propri e per questo vivono; mentre l’individuo non è che un elemento infinitesimale e transeunte dell’organismo sociale, ai cui fini deve subordinare la propria azione e la propria esistenza.[36]

Questa visione dell’individuo come mezzo sarà poi centrale nell’elaborazione del Codice penale del 1930, dove poca importanza è data alla certezza del diritto e la chiarezza delle norme, elementi criticati anche da parte dell’ambiente giuridico fascista. Uno fra tutti è Giuseppe Maggiore, penalista e filosofo del diritto, che si è forse avvicinato più degli altri alla formulazione dello Stato fascista come totalitario.

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Manifesto della mostra sulla rivoluzione fascista, 1932

Nella visione di Maggiore lo Stato totalitario fascista «non si fonda sull’astratta autorità della legge, ma sul prestigio di una persona fisica, armata di volontà e di coscienza, che è quella del Duce, capo della rivoluzione»[37]. La persona del Duce sta quindi alla base della rivoluzione totalitaria, fenomeno che ha portato all’inseparabilità tra politica e diritto, al potere dello Stato come uno e indivisibile e alla legge come volontà statale, e non garanzia dei diritti[38]. Il principio della legalità viene quindi annullato in favore della potenza assoluta dello Stato[39].
È insomma la novità e lo stacco con il precedente sistema liberale che viene fatto valere. Un altro autore, Francesco D’Alessio, in Lo Stato fascista come Stato di diritto edito nel 1940, definisce quello fascista come un nuovo tipo di Stato, che non ha però perduto il carattere essenziale di Stato di diritto, ma lo ha affinato, allontanandosi dalle concezioni proprie a Kant e Fichte[40]. La legittimazione dell’impianto totalitario presuppone una totale ridefinizione dei diritti e dei doveri del soggetto: si elide nettamente la coscienza individuale, ora posta all’interno di un amalgama collettivizzante d’adesione spontanea allo Stato totale. L’obiettivo è quello di superare il contrasto tra un ordine “oggettivo” e la volontà dei soggetti, suggerendo rapporti diversi fra interesse pubblico, legge e diritti soggettivi. Rapporti, questi, mediati soprattutto dal partito totale, simbolo di rottura allo stesso tempo con il pluralismo democratico e l’individualità del singolo.
La negazione dei diritti soggettivi pubblici, dunque, fa da ponte ad un’elaborazione antitetica ai principi dello “Stato di diritto” liberal-ottocentesco, dove l’autonomia e la responsabilità delle personalità individuali erano capisaldi del rapporto Stato-individuo[41]. Centrale nella legittimazione di un tale impianto è la crisi di rappresentatività del sistema liberale: secondo Sergio Panunzio, infatti,

lo Stato liberale è separato dalle masse e le masse sono polverizzate in una molteplicità di individui “atomizzati”; la guerra fa intravedere la possibilità di un’alternativa in una nuova, disciplinata concordia nazionale, che viene però frustrata dalla rinnovata conflittualità del dopoguerra: è in questo scenario di crisi che irrompe il fascismo ritrovando lo smarrito nesso fra Stato e masse, instaurando la concordia, inaugurando l’epoca dei doveri e della solidarietà, celebrando appunto “il sentimento dello Stato”.[42]

Se si può parlare di un’effettiva crisi di rappresentatività del sistema liberale, questa viene però superata negando i presupposti di un diritto fondato sull’autolimitazione dello Stato e sul sistema di pesi e contrappesi. Allo stesso modo si critica la validità dei diritti stessi[43]. In parole povere:

Attraverso l’esaltazione della nazione potente ed espansionistica passa e si rafforza l’idea della qualitativa superiorità della nazione sui singoli componenti, della superiorità del dovere sul diritto, dell’irrilevanza etico-storica della felicità individuale.[44]

La definizione più organica e consapevole dello Stato fascista è, ovviamente, quella di Giovanni Gentile, filosofo del neo-idealismo italiano, di cui sarebbe troppo difficile parlare in questa sede, dovendoci rifare ad una precisa ricostruzione filosofica del pensatore. Basti qui indicare che tutta l’impostazione si basa sul passaggio da una società inter homines ad una in interiore homine: così facendo si implica la necessità di «una volontà superiore che disciplini le volontà associate unificandole in una legge comune»[45], dove importantissimo è il ruolo della forza assunta come valore educativo liberatorio (anche attraverso la guerra). Ed è appunto la coazione dello Stato ad essere parte di quella confluenza delle volontà in una società in interiore homine, attraverso la realizzazione della vera realtà profonda del soggetto[46]. Lo Stato è «etico» perché

lo Stato ha per noi un valore morale assoluto, come la persona in funzione della quale tutte le altre hanno un valore, che coincidendo con quello dello Stato è pur esso assoluto […] Noi pensiamo che lo Stato sia la stessa personalità dell’individuo, spogliata dalle differenze accidentali, sottratta alla preoccupazione astratta degl’interessi particolari, non veduti e non valutati nel sistema generale in cui è la loro realtà e la possibilità della loro effettiva garanzia: personalità ricondotta e concentrata nella sua coscienza più profonda: dove l’individuo sente come suo l’interesse generale, e vuole perciò come volontà generale.[47]

Per concludere, si può affermare che il vero cambiamento è il rapporto della politica con la definizione del proprio soggetto di riferimento: le masse e non il cittadino, la legge e non lo stato di diritto, la nazione e non la società[48].

[Bibliografia]

Leggi la parte seconda.

Note   (↵ returns to text)
  1. Paolo Macry; Gli ultimi giorni, Stati che crollano nell’Europa del Novecento, Il Mulino, Bologna 2009, p.13.↵
  2. Ibidem.↵
  3. Ivi, p. 17.↵
  4. Un rimando all’introduzione di Remo Bodei, Il noi diviso: ethos e idee dell’Italia repubblicana, Einaudi, Torino 1998, è dovuto.↵
  5. Si vedano a questo proposito i lavori di Croce e Chabod.↵
  6. Mariuccia Salvati, Cittadini e governanti, la leadership nella storia dell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1997, pp.32-33. Per questioni di spazio, le questioni analizzate successivamente da Salvati non possono essere se non lievemente accennate, si consiglia dunque la lettura del saggio.↵
  7. http://www.storicamente.org/03simoncini_link1.htm↵
  8. Maurizio Fioravanti, È possibile un profilo giuridico dello Stato moderno?, in «Scienza e Politica», 31/2004, p. 47.↵
  9. M. Salvati, Cittadini e governanti, op. cit., p. 102.↵
  10. A questo proposito si veda il libro di Renzo De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Laterza, Roma-Bari 2000.↵
  11. R. De Felice, Il fascismo, le interpretazioni dei contemporanei e degli storici, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. XV.↵
  12. Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Bari, 1965, cit. in Nicola Tranfaglia, Dallo Stato liberale al regime fascista, Feltrinelli, Milano 1973, p. 53.↵
  13. Cfr., ivi, pp. XXI-XXVIII.↵
  14. N. Tranfaglia, Dallo Stato liberale al regime fascista, op. cit., p. 27.↵
  15. Cfr. David Forgacs – Stephen Gundle, Cultura di massa e società italiana: 1936-1954, Il Mulino, Bologna 2007.↵
  16. Massimo L. Salvadori, Gramsci e il problema storico della democrazia, Torino, 1970, cit. in R. De Felice, Il fascismo, op. cit., p. 13.↵
  17. Verbale della Commissione politica per il Congresso di Lione, in «Critica marxista», settembre 1963, cit. in R. De Felice, Il fascismo, op.cit., p. 14.↵
  18. M. Salvati, Cittadini e governanti, op.cit., p. 79.↵
  19. Da qui la sua teoria del partito come «novello principe», cfr. ivi p. 64.↵
  20. «[I]n Italia l’educazione dell’uomo, la formazione dell’individuo, cellula morale di base, è ancora in gran parte da fare. La miseria, l’indifferenza, una rinuncia secolare fanno sì che nella maggior parte degli italiani si debba deplorare la mancanza del senso geloso e profondo dell’autonomia e delle responsabilità. […] Manca in essi la concezione della vita come lotta e come missione, la nozione della libertà come dovere morale, la coscienza dei limiti del proprio diritto e di quello altrui», Carlo Rosselli, Socialismo liberale, Roma-Firenze-Milano, 1954, cit. in R. De Felice, Il fascismo, op.cit., pp. 128-129.↵
  21. Ivi, p. 135.↵
  22. Benedetto Croce, Chi è «fascista»?, in Scritti e discorsi politici, Bari, 1963, cit. in R. De Felice, Il fascismo,op. cit., p. 399.↵
  23. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Milano, 1967,cit. in R. De Felice, Il fascismo, op.cit., p. 518. Anche se la Arendt non considerava il fascismo italiano come un vero totalitarismo.↵
  24. M. Salvati, Cittadini e governanti, op.cit., p. 87.↵
  25. Ivi, p. 90.↵
  26. Per una maggiore spiegazione, cfr. ivi, p. 96.↵
  27. Cfr. ivi, pp. 97-100.↵
  28. Fulco Lanchester, La dottrina costituzionalistica italiana tra il 1948 e il 1954, in «Quaderni fiorentini», 28/1999, pp. 751-752.↵
  29. Cfr., ivi, p. XXIII.↵
  30. A questo proposito si veda l’introduzione di Mario Cattaneo, Terrorismo ed arbitrio, Cedam, Padova 1998, pp. IX-XXII.↵
  31. «Organizzato intorno all’asse Stato-società, il campo semantico “totalitario” si risolve in una molteplicità di espressioni che fanno a gara nel dimostrare la compattezza del processo di sussunzione della società nello Stato, l’inesistenza di residui, deviazioni, di contraddizioni entro la reductio ad unum realizzata dal “movimento della totalità”», Lo Stato totalitario: un campo semantico nella giuspubblicistica del fascismo, in «Quaderni fiorentini», 28/1999, p. 145.↵
  32. M. Fioravanti, È possibile un profilo giuridico dello stato moderno?, in «Scienza e Politica», 31/2004 , p. 44. Cfr. anche M. Cattaneo, Diritto e forza, un delicato rapporto, Cedam, Padova 2005.↵
  33. Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, p. 7.↵
  34. Ci sarebbe moltissimo da dire sui rapporti fra le teorie kelseniane (per cui «Gesetz ist Gesetz») ed il totalitarismo. È stato Radbruch ad aver maggiormente analizzato la questione, soprattutto per quel che riguarda il totalitarismo tedesco. Ci si limita, qui, nel citare l’opinione di Cattaneo: «Non si tratta, evidentemente, di indicare nel positivismo giuridico la «causa» del totalitarismo, il che sarebbe, per non dire altro, ingenuo e riduttivo; si può però dire che, sul piano giuridico, il giuspositivismo così inteso favorisce e ha favorito l’acquiescenza nei confronti del totalitarismo. In definitiva, il punto chiave è la considerazione della certezza del diritto – che è chiaramente negata e rifiutata nel totalitarismo – quale principio giusnaturalistico, quale esigenza di giustizia e di libertà, e non quale principio di fedeltà alla legge positiva, qualunque essa sia», M. Cattaneo, Terrorismo ed arbitrio, op.cit., p. 126. Sulla diffusione di Kelsen in Italia si veda ad esempio l’introduzione di Renato Treves a H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 2000.↵
  35. Cfr. M. Cattaneo, Terrorismo ed arbitrio, op.cit., pp. 99-98.↵
  36. Alfredo Rocco, La trasformazione dello Stato, pp. 106-107, cit. in M. Cattaneo, Terrorismo ed arbitrio,op. cit., p. 270.↵
  37. Giuseppe Maggiore, Diritto penale totalitario nello Stato totalitario, ne «La Giustizia penale», 1939, pp. 140-143, cit. in M. Cattaneo, Terrorismo ed arbitrio, op.cit., p. 282.↵
  38. M. Cattaneo, Terrorismo ed arbitrio, op.cit., pp. 282-287.↵
  39. Cfr. Pietro Costa, Lo Stato totalitario, op.cit., pp. 79-80.↵
  40. Cfr. M. Cattaneo, Terrorismo ed arbitrio, op.cit., pp. 101-102.↵
  41. Cfr. P Costa, Lo Stato totalitario, op.cit., pp. 67-72.↵
  42. Ivi, p. 110.↵
  43. «La critica dei diritti è uno dei crocevia obbligati della retorica fascista e si avvale di uno stereotipo che, circolante nei più diversi meandri della cultura politico-giuridica ottocentesca, giunge al fascismo attraverso molteplici (ed eterogenei) canali – da Rocco a Gentile, dal nazionalismo al neoidealismo; è uno stereotipo che, unificando illuminismo, rivoluzione francese e liberalismo (e socialismo, anch’esso per Rocco orientato in ultima istanza alla felicità del singolo) imputa ad essi in blocco un’antropologia ed una dottrina sociale viziate di “individualismo”, atomismo”, “edonismo”», ivi, p. 79.↵
  44. Ivi, p. 90.↵
  45. Giovanni Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, cit. in P. Costa, Lo Stato totalitario, op.cit., p. 102.↵
  46. Cfr. P. Costa, Lo Stato totalitario, op.cit., pp. 102-105.↵
  47. G. Gentile, Che cosa è il fascismo, Firenze 1925, pp. 35-36, cit. in M. Cattaneo, Terrorismo ed arbitrio, op. cit., p. 257.↵
  48. Cfr. M. Salvati, Cittadini e governanti, op. cit., p. 103. Inoltre: «il fine del fascismo è realizzare la nazionalizzazione degli “italiani” (come insieme, come nazione); in ciò che differisce dai regimi liberali per i quali l’obiettivo è formare il cittadino, l’italiano individuo. Per attuare questo scopo, il regime ricorre abbondantemente ai miti (il mito della nazione, del Duce, di Roma, ecc.). Si tenga conto, peraltro, che nel Novecento il rapporto tra mito e politica è intenso ovunque tra le due guerre, sia a destra che a sinistra, e risponde alla crisi del lessico politico tradizionale: in comune c’è da considerare il mito come il canale privilegiato di riaggregazione di una società frantumata», ivi, p. 104.↵
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    4. MARIO CATTANEO, Terrorismo ed arbitrio, Cedam, Padova 1998
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