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Triathlon: la storia di Andrea Gabba tra Torino e Turchia, tra Nadia Cortassa e il Torino Triathlon

Creato il 08 novembre 2014 da Sportduepuntozero

triathlon - Andrea Gabba - foto Diego BarbieriQuesta è la storia di un triathleta che a quasi vent’anni sapeva nuotare a malapena e che a 23 ha concluso il suo primo Ironman (che di kilometri in acqua ne prevede 3,8, seguiti da 180 km di bicicletta e da una maratona); è anche la storia di un ragazzino calciatore con la passione per la bicicletta, diventato allenatore della nazionale italiana di triathlon e attuale tecnico della Turchia. Il protagonista è Andrea Gabba, torinese classe 1973, coach del Torino Triathlon e marito di Nadia Cortassa, olimpionica della “triplice” con un quinto posto ad Atene 2004 e con titoli nazionali e internazionali all’attivo. Lo abbiamo incontrato sulla pista di atletica dello stadio Primo Nebiolo, mentre alleva i giovani della sua società con Nadia.

Andrea Gabba, prima di diventare un allenatore affermato sei stato anche atleta. Raccontaci come sei arrivato al triathlon.

La mia passione è sempre stata il ciclismo ma la volontà dei miei genitori mi ha dirottato sul calcio, che peraltro era uno sport di famiglia, dal momento che mio nonno giocò in serie A negli anni ’30. Come centrocampista non ero male, anche se i risultati migliori li ho ottenuti a livello caratteriale. Il calcio mi ha aiutato a crescere, a stringere amicizie e a “svegliarmi”. Però mi mancava un po’ di cattiveria…

Quindi?

A 18 anni smisi. La passione per la bicicletta era rimasta ma ormai era tardi per diventare un ciclista di alto livello. Così, tra la voglia di pedalare e la corsa che avevo dal calcio, ho inizialmente pensato al duathlon, che però mi sembrava un po’ “incompleto”, e mi sono poi buttato nel triathlon. Non ero capace a nuotare ma il mio sogno era provare l’Ironman.

E ci sei arrivato?

Si, la prima volta avevo 23 anni e penso di essere stato il più giovane dell’epoca a concluderlo. Poi ho partecipato ad altri sette, compresi quello delle Hawaii (cui si accede qualificandosi e non con la semplice iscrizione). L’ultimo è stato nel 2003, ma sto facendo un pensierino per il 2016, per festeggiare i vent’anni dal primo.

Quando ti è venuto in mente che potevi diventare allenatore?

Ho sempre sperato di fare questo lavoro. Sono entrato nel triathlon nel ‘92, quando questo sport  era poco diffuso in Italia e di conseguenza mancavano un po’ gli allenatori. Eri quasi coach di te stesso, prendevi spunto dai tecnici delle singole discipline e sbagliando imparavi i metodi più corretti. Negli anni dell’università mi sono proposto di allenare i miei compagni di squadra. Poi nel 2000 sono entrato alla Torino Triathlon e ho cominciato a seguire uno dei primi settori giovanili.

Prima però hai conosciuto Nadia e hai iniziato a lavorare con lei.

Verso la fine degli anni ’90, ci allenavamo insieme alla Mito di Orbassano. Lei arrivava dal pentathlon, era un’esordiente di questo sport ed era ancora molto giovane. Nel 2003 è arrivata a vincere la prima medaglia italiana ai Campionati Europei, l’anno dopo ci siamo sposati e ad Atene è arrivata quinta alle Olimpiadi. In quegli anni ho capito che era meglio dedicarsi a lei e smettere di fare l’atleta…, anche perché poi, un po’ a sorpresa, è arrivata la proposta di allenare la nazionale azzurra femminile.

Parlaci del rapporto con gli atleti di alto livello.

Bisogna essere sempre preparati, essere un buon psicologo e saper studiare la giusta programmazione per ognuno. Se i risultati arrivano guadagni credibilità e fiducia.

E con i ragazzi più giovani?

Quando ho iniziato a seguire il vivaio del Torino Triathlon avevo pochi anni più di loro. Ora mi rapporto diversamente, i giovani di oggi mi vedono come una figura più autorevole. Mi piace seguire sia triathleti forti e sia alle prime armi. E non saprei dire da chi ricavo le migliori soddisfazioni. Naturalmente arrivare alle Olimpiadi è un’emozione unica, ma anche trasmettere la propria esperienza ai giovani e vedere che questi ti ascoltano è fantastico. In ogni caso, ciò che gratifica di più è iniziare a seguire un ragazzo e portarlo in alto, proprio come è successo con Nadia.

Nel ruolo di allenatore, quanto ti ha aiutato essere atleta?

Crescere in una famiglia e in una scuola in cui lo sport ricopriva un ruolo importante mi ha fatto capire che per ottenere risultati bisogna vivere con una certa forma mentale e facendo delle scelte. Essere stato triathleta, anche senza risultati eccezionali, mi aiuta perché so cosa significa fare certi allenamenti. Essere marito, oltre che allenatore, di Nadia, mi fa comprendere meglio come si sente un atleta, quali problemi può avere.

Raccontaci un po’ della tua esperienza in Turchia.

Il lavoro più grosso è stato cambiare la mentalità, l’alimentazione, la programmazione. Abbiamo “svecchiato” il gruppo nazionale, che ora comprende molti under 20 più due ragazze di buon livello che si sono qualificate per i giochi Olimpici Europei di Baku. Io vado e vengo, parlo in inglese ma pochi lo capiscono quindi spesso c’è il traduttore. Sono più che altro un direttore tecnico, devo formare gli altri allenatori; sarebbe difficile infatti avere un rapporto stabile con i ragazzi, poiché vivono in zone diverse della Turchia e non potrei seguirli tutti insieme neppure quando vado là. I risultati sono incoraggianti; molti sono saliti nel ranking e abbiamo anche un ragazzo tedesco di passaporto turco che può qualificarsi per i Giochi di Rio.

Nonostante gli impegni di tecnico non hai ancora rinunciato al triathlon “giocato”.

Questo sport è completo e non mi annoia mai. Diciamo che una volta all’anno gareggio, per rimanere in forma, per divertirmi e per mantenere viva la passione.

Andrea Gabba negli scatti di Diego Barbieri


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