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Tropico del Cancro: l’Inizio dell’Estate Boreale in Letteratura

Creato il 25 febbraio 2016 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Tropico del Cancro: l’Inizio dell’Estate Boreale in Letteratura

Un romanzo in prima persona si presta sempre ad un'interpretazione egotistica. Scrivere esclusivamente su ciò che si conosce e soltanto del proprio vissuto sembra limitativo rispetto alla visione d'insieme dell'oggettività. Se non fosse che l'oggettività è faziosamente pendula, a seconda del punto di vista di chi la proclama. Così, spesso, l'arbitrarietà dichiarata della prima persona riesce a penetrare la realtà di un'epoca meglio di un trattato sociologico che si ponga a monte questo obiettivo.

È questo il caso di Tropico del Cancro di Henry Miller, da noi letto nell'ormai classica collezione Oscar Mondadori, con la storica ed importante traduzione di Luciano Bianciardi riveduta da Guido Almansi. Il romanzo racconta le peregrinazioni esistenziali, poetiche e sessuali vissute dall'autore stesso nella Parigi degli anni '30 con un linguaggio caustico e privo di filtri. La sua fama è dovuta proprio alla survoltante trasposizione degli incontri sessuali tra Miller e le numerose prostitute della capitale francese, compiuta attraverso un piegamento verso il basso della lingua inglese (che però è il genere di lingua parlato tutti i giorni, e non solo dal popolo) che, come nota George Orwell nel saggio che conclude l'edizione Mondadori, Nel ventre della balena, mai fino ad allora era stata impiegata con tale inventiva per esigenze istintuali e terrene. Un esempio, tra i tanti: "Sì, lui sa accendere il fuoco ma io so infiammare una fica" (il riferimento è al fidanzato della sua amante).

Tropico del Cancro è un libro che vive di folate narrative violente ma sempre ben circoscrivibili. Il suo principale andamento è romanzesco, pur se non in senso tradizionale: si raccontano le avventure quotidiane di Henry Miller e della sua congrega di sedicenti artisti che più che con l'arte si rapportano prettamente con gli inciampi della vita di tutti i giorni. Lo scrittore americano era anche un acquerellista discreto e la sua opera letteraria riflette questo tipo d'approccio: rade pennellate per i personaggi, che rimangono solo schizzi, e concentrazioni sugli eventi, che spiegano più di ogni altro il senso urgente dei suoi derelitti amici. Il cibo, il sesso, la solitudine, l'alienazione degli immigrati e dei non-pacificati rappresentano il territorio d'indagine preferito dell'autore americano. Non c'è compiacenza in questo marcamento della distanza o rabbia (come in Céline nel quasi contemporaneo Viaggio al termine della notte), tranne per il capitolo incentrato sul periodo d'insegnante a Digione.

Soltanto in quell'occasione Miller si lascia andare all'acredine verso i suoi simili ("Nulla li distingueva dalle zolle su cui strofinavano le scarpe. Eran degli zeri, in tutti i sensi della parola, cifre che formano il nocciolo di una cittadinanza rispettabile e deplorevole"), oppresso dal clima di piattezza sociale di una tipica città di provincia ("Fuori, tetro e vuoto; dentro, tetro e vuoto"). Nella gioviale immensità di Parigi, Miller, a più riprese, sottolinea invece il motivo del suo amore verso la città francese marcandola dalla asettica New York, metropoli che annienta l'individuo coi suoi grattacieli di cemento. Nei bistrot e nei tuguri in riva alla Senna si può vivere all'avventura senza che i dettami della media borghesia ti costringano ad ogni passo a rientrare nelle "aiuole municipali". I francesi sono liberi in tal senso, perché lasciano alla genìa dei non-conciliati il piacere di lasciarsi andare al loro stile di vita.

La stesura di un libro, così, non è nemmeno un imperativo, al massimo un capriccio: "Questo non è un libro. È libello, calunnia, diffamazione. Ma non è un libro, nel senso usuale della parola. No, questo è un insulto prolungato, uno scaracchio in faccia all'Arte, un calcio alla Divinità, all'Uomo, al Destino, al Tempo, all'Amore, alla Bellezza... a quel che vi pare. Canterò per voi, forse stonando un po', ma canterò. Canterò mentre crepate, danzerò sulla vostra sporca carogna...".

E Miller canta dell'asfissiante ricerca di un pasto, uno alla settimana da scroccare ad amici che possano con questo lavarsi la coscienza, canta dell'anima di puttane con delicatezza serica (la storia di Lucienne e del suo amante è alta psicologia), canta con sussiego e meraviglia le impressioni che gli suscitano i quadri di Matisse.

Nei momenti di maggior acme emozionale lo scrittore americano lascia andare la penna avvalendosi della tecnica della scrittura automatica surrealista. Il risultato dà vita a grandiosi bozzetti dove trovano collisione poetica migliaia di concetti slegati tra loro che innervano nuove e forti reazioni chimiche di senso. Una maniera quasi alcolica di vedere e descrivere il mondo ma è lo stesso Miller a chiarire la fondatezza, oserei dire scientifica, del procedimento: "Mi riverso il succo dell'uva giù per la gola e ci scopro saggezza, ma la mia saggezza non nasce dall'uva, la mia ubriachezza non deve nulla al vino". Sono le pagine più ostiche del libro, dove ogni riferimento non può e non vuole nemmeno essere sviscerato del tutto, in grado però di raggiungere vette apicali di sapienza letteraria. È insomma, l'inizio dell'estate boreale dell'estasi, lo zenit che cala sul Tropico del Cancro di Henry Miller.


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