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Troppe parole danno fastidio

Da Marcofre

copertina diario etty hillesum

Come si sa, e se non lo sai allora te lo dico io, quando si raccontano storie… Be’, prima, ma anche durante, si pensa, riflette, eccetera. Tutte cose che possono apparire inutili, o superflue: se devi raccontare una storia, raccontala e basta.
Fosse così semplice. E in parte, per certi autori, lo è. Tuttavia…

Troppe parole danno fastidio

Nel “Diario” di Etty Hillesum (morta ad Auschwitz il 30 novembre 1943), a un certo punto trovi questo:

Mi sono resa conto che è così che voglio scrivere: con altrettanto spazio intorno a poche parole. Troppe parole mi danno fastidio. Vorrei scrivere parole che siano organicamente inserite in un gran silenzio, e non parole che esistono solo per coprirlo e disperderlo: dovrebbero accentuarlo, piuttosto.

E a questo punto potrei già passare alla “Domanda delle 100 pistole” e chiudere qui questo post, giusto? Perché abbiamo tutto.
Si tratta di una riflessione che si incontra sempre in lettere di autori recenti e meno recenti. La parola è efficace se è misurata, sobria.
Chi usa troppe parole, oppure parole altisonanti, cerca solo di abbindolare il lettore. La parola, come ripeto spesso, e non solo io per fortuna, non è poi così potente come si crede. Ha meno forza dell’oralità, e per questa ragione chi scrive con qualche ambizione, sa che deve cercare di trovare la parola giusta, quella che ha l’efficacia necessaria per conquistare il lettore.

Il ritorno del grande “Boh!”

E ancora una volta, ci troviamo a discettare (bello questo verbo, vero?) sul destino della parola: messa in un angolo dall’impero delle immagini, oppure travolta (e stravolta), da persone che ne abusano, o la usano proprio per piazzare la loro paccottiglia.
A volte viene da chiedersi se ne vale davvero la pena. Se insomma ha ancora del senso usare la parola, “semplice”, quando forse sarebbe meglio impiegarla connessa ad altre forme di espressione. E qui però ho la mia magica risposta:


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