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TTIP: l’accordo commerciale nel solco dell’«atlantismo»

Creato il 24 settembre 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

TTIP-UE-USA-atlantismo

di Claudio Giovannico 

All’interno dell’attuale scenario di progressiva trasformazione dell’ordinamento globale assume sempre maggiore rilevanza geostrategica la costituzione di vaste aree di libero scambio commerciale (free trade areas, FTA). Alla luce degli insuccessi del Doha Round, si registra la  tendenza nel superare gli esperimenti di respiro globale finora condotti, al fine di approdare verso modelli di tipo “regionale”.

Nel caso in cui le trattative dovessero concludersi con successo, il TTIP, acronimo di Transatlantic Trade and Investment Partnership, potrebbe diventare il più grande patto di libero commercio al mondo. Si tratta di un accordo commerciale tra Stati Uniti e Unione Europea, il quale ha lo scopo di rimuovere il maggior numero di ostacoli, tariffari e non, agli scambi e agli investimenti, al fine di creare uno spazio economico unico tra le due sponde dell’oceano Atlantico.

L’idea di una zona di libero scambio comune a Usa e Europa nasce già verso la metà degli anni ’90, quando gli Stati Uniti intuirono che, se avessero voluto mantenere la propria posizione di leadership mondiale di fronte all’imminente ascesa dell’Asia, avrebbero dovuto aumentare la cooperazione economica con il Vecchio Continente.

Di lì a poco, i rispettivi leader di Stati Uniti e Unione Europea, a quel tempo Bill Clinton e il Presidente della Commissione europea Jacque Santer, colsero l’importanza degli scenari che si andavano profilando e decisero di adottare la “New Trans-Atlantic Agenda”, in occasione della quale venne prevista proprio la creazione di uno spazio commerciale transatlantico.

Qualche anno più tardi, nel 1998, Stati Uniti e Unione Europea proseguirono sul percorso precedentemente tracciato, firmando a Londra l’accordo di avvio di un partenariato commerciale ed economico volto ad armonizzare standard, regole e procedure, il c.d. TEP (Trans-Atlantic Economic Partnership), che nei piani avrebbe dovuto fare da apripista alla creazione di una vera e propria area di libero scambio euro-atlantico, chiamata Trans-Atlantic Free Trade Area (TAFTA), ispirata al modello della North-Atlantic Free Trade Area (NAFTA), tra Stati Uniti, Canada e Messico.

Tuttavia, il dialogo economico e commerciale euro-atlantico si sarebbe, poi, interrotto bruscamente a causa di molteplici fattori, primi fra tutti le incertezze dell’opinione pubblica e le difficoltà incontrate sulla strada dell’armonizzazione di sistemi normativi molto differenti tra loro. Ciò nonostante, in seguito alla crisi economica del 2008 abbattutasi su ambedue le sponde dell’oceano Atlantico, a causa, anche, della rinnovata politica di riavvicinamento dell’Europa agli Stati Uniti, al G8 in Irlanda del Nord, nel giugno 2013, si è ufficialmente tornati a discutere di cooperazione commerciale nell’area transatlantica [1].

Le trattative negoziali intorno al TTIP sono ufficialmente iniziate, circa due anni or sono, nel luglio del 2013 e sono tutt’ora in corso, sebbene negli ultimi mesi si siano registrati forti accelerazioni volte a concludere l’accordo in maniera definitiva.

Obiettivo principale dell’accordo di partenariato commerciale transatlantico è quello di aumentare gli scambi e gli investimenti fra i due mercati, quello americano e quello europeo, al fine di generare opportunità di sviluppo economico e crescita del benessere sociale. Nelle intenzioni di chi promuove l’accordo, questo dovrebbe condurre a significativi benefici economici per ambedue le parti, nell’ottica di un patto “win-win”. Il processo di integrazione dei due mercati, che assieme rappresentano quasi la metà del PIL mondiale, dovrebbe svolgersi attraverso l’eliminazione degli ostacoli agli scambi commerciali bilaterali e agli investimenti, comportando la necessità di regole sempre più comuni.

Sebbene l’iter negoziale di questi due anni abbia incontrato non poche difficoltà, dovute alle forti perplessità prodotte in seno all’opinione pubblica, soprattutto in merito alla questione della tutela del consumatore e all’eccessiva segretezza delle contrattazioni, di recente si è registrata una forte ripresa con l’approvazione da parte del Parlamento europeo di una risoluzione in ordine al c.d. Rapporto Lange [2], documento che prende il nome dall’euro-deputato che lo ha redatto, e attraverso il quale si è tentato di rintracciare un compromesso con le posizioni ostili al partenariato transatlantico e ad alcuni dei suoi temi più delicati e discussi.

Un tortuoso iter negoziale. Il “rapporto Lange” e i temi controversi dell’accordo

I negoziati sull’accordo sono condotti dalle parti, Stati Uniti e Unione Europea, quest’ultima attraverso la propria istituzione della Commissione europea, sulla base di un mandato conferitole dal Consiglio [3]. Tuttavia, affinché l’accordo finale possa entrare in vigore dovrà essere approvato dal Parlamento europeo e dai vari Parlamenti nazionali, per poi essere infine ratificato dallo stesso Consiglio [4], sede esclusiva presso cui gli Stati membri possono esprimersi, votando a favore o contro gli accordi raggiunti. Tale percorso, disposto dai trattati europei, relativamente ad accordi commerciali con uno o più Paesi terzi, stabilisce la competenza dell’Ue in materia di politica commerciale comune, ai sensi dell’articolo 3, par. 1, let. e) del TFUE. Precedentemente, il Trattato sull’Unione Europea, all’articolo 47 aveva, invero, esplicitamente riconosciuto la personalità giuridica dell’Unione, quale soggetto di diritto internazionale, capace di negoziare e concludere in prima persona accordi e trattati vincolanti le istituzioni dell’Unione stessa e gli Stati membri [5].

In attesa che le trattative negoziali terminino nell’accordo definitivo, il Parlamento europeo segue costantemente l’andamento dei negoziati, attraverso discussioni e votazioni per la produzione di raccomandazioni volte a influire sui negoziati stessi, sebbene non possa prenderne parte, essendo la Commissione l’istituzione deputata a sedere al tavolo delle trattative.

Col Trattato di Lisbona sono state ampliate le competenze del Parlamento in questa materia. Come previsto al paragrafo 10 dell’articolo 218 del TFUE, al cui interno è stabilita l’intera procedura volta alle negoziazioni e alle conclusioni degli accordi commerciali, il Parlamento europeo “è immediatamente e pienamente informato in tutte le fasi della procedura”, prevedendo nello specifico la sua formale approvazione, e non la mera consultazione, affinché si possa definire l’accordo.

Dal luglio 2013 si sono susseguiti dieci round negoziali, ma è con l’ottavo tenutosi a Bruxelles, fra il 2 e il 6 febbraio 2015, che si è registrata una sensibile accelerazione ai lavori, sotto il segno del “fresh start” [6], il nuovo inizio, rilanciato dal Commissario europeo al commercio, Cecilia Malmstrom, in occasione della sua visita a Washington alcuni mesi prima, a dicembre 2014, rammentando che l’accordo sul TTIP rappresenta una priorità per la Commissione Juncker.

Un’ulteriore svolta si segnala in seguito all’approvazione, lo scorso 15 maggio, da parte del Senato degli Stati Uniti di una proposta di legge che conferisce al Presidente Obama una speciale autorità negoziale, la c.d. Trade Promotion Authority (TPA). Il c.d. “fast track” permetterebbe, dunque, a Obama di sottoporre l’approvazione degli accordi commerciali direttamente al Congresso, aggirando i tempi lunghi degli emendamenti.

Tuttavia, è con l’approvazione del “rapporto Lange” da parte del Parlamento europeo nella plenaria di Strasburgo dello scorso 8 luglio, che viene segnato un punto importante in favore di un esito positivo delle trattative sul TTIP.

Nello specifico, si tratta di un documento, redatto da Bernd Lange, eurodeputato tedesco appartenente al gruppo parlamentare S&D (Socialists and Democrats), da cui il nome del testo, che si propone di giungere a un compromesso sui punti più spinosi dell’accordo, clausola ISDS (Investor State Dispute Settlement) in primis, in modo tale da superare l’impasse che ha caratterizzato le precedenti discussioni e votazioni in materia.

In effetti, negli ultimi mesi in Parlamento si è assistito ad un’anomala ed imprevista situazione. La salda governance basata sull’alleanza tra PPE (Partito popolare europeo) e quello socialdemocratico (S&D), decisa in seguito alle elezioni dello scorso anno e sfociata in una sorta di “larga coalizione”, è stata  scalfita in occasione delle votazioni in ordine all’accordo sul partenariato transatlantico e in particolare in relazione alla criticatissima clausola ISDS, con la quale si vorrebbe introdurre un arbitrato internazionale unico per risolvere le dispute tra gli Stati e le multinazionali, considerato troppo favorevole proprio a queste ultime.

Prima del voto sulla relazione proposta da Lange, la discussione in Parlamento aveva registrato una forte attività contraria all’accoglimento del trattato commerciale tra Usa e Ue, mediante l’approvazione di numerosi emendamenti avanzati da parte dei partiti maggiormente ostili all’accordo (Verdi e Sinistra radicale).

È bene ricordare che si tratta, comunque, di pareri non vincolanti, ma puramente consultivi per la stesura di un documento ufficiale. Ciò nonostante, sebbene il Parlamento europeo non sieda al tavolo delle trattative sul TTIP, il relativo testo finale, per diventare operativo, dovrà ricevere il voto favorevole di Strasburgo. Di qui, l’importanza e l’attenzione posta in ordine a ciò che accade nell’organo rappresentativo dell’Unione, soprattutto per quanto concerne il voto sul “rapporto Lange”.

Il progetto di relazione sul trattato sul commercio e gli investimenti fra Unione Europea e Stati Uniti ha ricevuto l’approvazione dell’Europarlamento il 28 maggio 2015 in Commissione Commercio Internazionale (INTA). Il testo rappresenta le indicazioni che il Parlamento Ue ha voluto fornire alla Commissione in merito al proseguimento dei negoziati, in linea con i rinnovati più ampi poteri previsti dal Trattato di Lisbona.

In seguito alla presentazione della relazione, la quale ingloba il parere di 13 commissioni permanenti, sono stati inoltrati ben 898 emendamenti, segno di quanto sia acceso il dibattito sul TTIP in seno alle istituzioni europee. Ciò nonostante, a fine giugno, i deputati della Commissione Commercio internazionale hanno dato il via libera a tutti gli emendamenti sulla relazione, pervenendo, infine, a un’intesa sull’ultima questione rimanente per raggiungere la maggioranza, vale a dire l’ISDS. Come riportato dal testo del compromesso, si è giunti a una nuova formula della discussa clausola di risoluzione delle controversie Stato-investitore, rimpiazzando il sistema precedentemente previsto [7] con uno “soggetto a principi più democratici” e che assicuri che i casi vengano trattati “in maniera trasparente in udienze pubbliche da giudici professionisti e indipendenti [8]. Viene, inoltre, previsto un meccanismo di appello più rispettoso della giurisdizione delle Corti Ue e di quelle degli Stati membri e dove gli interessi privati non possano minare gli obiettivi delle politiche pubbliche” [9].

I dubbi avanzati dalle opposizioni, dentro e fuori il Parlamento europeo, permangono, muovendo dall’idea per cui la clausola di protezione degli investimenti, ISDS, permetterebbe agli investitori privati di citare in giudizio i governi nazionali dinanzi a una corte privata d’arbitrato, dal momento in cui i primi dovessero ritenere che le leggi locali minaccino i loro interessi.

Tale meccanismo di risoluzione delle dispute tra Stato e soggetti privati viene letto come un vero e proprio attacco alla sovranità degli Stati, dato che un simile sistema condurrebbe a porre i singoli governi nazionali in una posizione di inferiorità rispetto alle grandi multinazionali e alle lobby societarie, le quali potrebbero minacciare di esercitare la suddetta clausola come ricatto per dirigere e influenzare le scelte di politica interna dei singoli Stati.

D’altro canto, i promotori del TTIP affermano che meccanismi privati di risoluzione delle dispute tra Stato e investitore, come l’ISDS, sono strumenti presenti nella stragrande maggioranza degli accordi commerciali finora conclusi. È notizia di alcuni giorni fa la citazione in giudizio dello Stato Italiano da parte di tre investitori del settore delle energia rinnovabile [10] di fronte ad un tribunale privato adito proprio in virtù di una clausola simile a quella della ISDS.

Basti pensare che con il Trattato di Lisbona sono state conferite all’Ue competenze in materia di protezione di investimenti per comprendere come ciò rappresenti una grossa opportunità per delineare un approccio più esaustivo in materia di commercio e investimenti e superare, pertanto, metodi risolutivi come l’ISDS che, seppur usuali nel campo degli accordi di investimento, conservano ampie zone d’ombra in ordine alla tutela dei diritti.

Oltre alla vexata quaestio in ordine alla clausola sulla protezione degli investimenti, altri due sono i nodi più complicati da sciogliere nell’ambito delle trattative che possono condurre a definire l’accordo sul partenariato transatlantico: la commercializzazione di prodotti agricoli, e i relativi standard di sicurezza alimentare, e la tutela del settore pubblico.

In merito al primo punto, si teme, principalmente, che l’accordo possa permettere l’ingresso in Europa di carne trattata con ormoni e prodotti agricoli geneticamente modificati (OGM), già presenti sul mercato statunitense. La commercializzazione di prodotti alimentari geneticamente modificati è, al momento, regolata con attenzione in Europa, tant’è che, nel corso delle trattative, gli Stati Uniti hanno palesato la volontà di superare i rigidi controlli europei sui prodotti delle grandi multinazionali americane agritech. Tuttavia, il punto resta fra i più controversi, date le resistenze di molti Stati europei (Germani, Francia, Paesi Scandinavi e soprattutto Italia) a consentire a un simile cambio di rotta nella legislazione sulla sicurezza alimentare. L’importanza della materia è d’altro canto giustificata dagli ulteriori problemi che porrebbero settori contigui all’agroalimentare, a cominciare da quello medico-farmaceutico [11].

Nelle scorse settimane l’Unione Europea, sotto impulso del Commissario al commercio internazionale Cecilia Malmstrom ha prodotto un breve documento [12] nel quale si espongono le ragioni favorevoli all’accordo. Si è cercato di tranquillizzare, così, i timori avanzati dall’opinione pubblica, in particolare sul tema della sicurezza alimentare e sugli standard qualitativi di produzione, affermando che l’intento principale che sta alla base del partenariato commerciale con gli Usa resta la facilitazione degli scambi, ma nel rispetto delle rispettive regole in materia.

Eppure, appare difficile pervenire ad una completa integrazione dei mercati senza lo strumento dell’armonizzazione normativa. D’altronde, il rafforzamento della compatibilità tra la regolamentazione dell’Unione Europea e quella degli USA è sempre stato uno degli obiettivi che ha sin da subito caratterizzato i negoziati, in quanto ritenuto elemento indispensabile nel processo di implementazione degli scambi commerciali, superando per quanto possibile le differenze normative che ostacolano i traffici commerciali e generano costi aggiuntivi. Giungere a una maggiore compatibilità consentirebbe, dunque, alle imprese di conquistare nuovi mercati, amplierebbe, inoltre, la scelta dei consumatori, ma, d’altro canto, si teme possa abbassare il livello di protezione in materia di salute, sicurezza, ambiente e tutela dei consumatori stessi. Senza contare le paure in merito alle denominazioni di origine controllata, non riconosciute negli USA, e ai danni che potrebbero subire le piccole e medie aziende operanti nel settore, facilitando invece l’attività dei colossi multinazionali dell’agri-business. In merito a quest’ultimo aspetto, si sta spingendo affinché nel TTIP vengano incluse le previsioni inserite nel CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement), l’accordo economico globale tra Ue e Canada in attesa di approvazione presso le istituzioni europee, per cui si riconosce status speciale e protezione sul mercato canadese a numerosi prodotti agricoli europei con un’origine geografica specifica (IG). 

Altre incertezze riguardano, ancora, il tema del settore pubblico dei servizi. Le principali preoccupazioni investono la possibilità che con l’accordo sul commercio transatlantico settori del pubblico, quali sanità e istruzione, subiscano processi di privatizzazione. Nelle intenzioni dei negoziati si vuole vincolare il livello autonomo di liberalizzazione di entrambe le parti al livello di liberalizzazione più elevato raggiunto dagli attuali accordi di libero scambio, conformemente all’articolo V del General Agreement on Trade in Services (GATS, Accordo generale sul commercio di servizi) [13]. Per questa ragione, le opposizioni al TTIP, soprattutto in Europa, hanno chiesto a gran voce l’esplicita esclusione dei servizi pubblici dalle materie del negoziato.

Benché nel dépliant “Top 10 myths about TTIP” la Commissione europea specifichi con forza che tutti gli  accordi commerciali UE salvaguardano la libertà dei governi di gestire i servizi pubblici come ritengono più opportuno, anche in questo caso si esprimono forti preoccupazioni sulla possibilità che le grandi multinazionali possano sfruttare il funzionamento della clausola ISDS  per chiedere consistenti risarcimenti ai governi ogni qual volta essi modifichino le proprie politiche sull’accesso ai pubblici servizi. Si teme, pertanto, il determinarsi di una sorta di “stasi legislativa”, in cui i governi non oserebbero modificare la legislazione per timore di incorrere in responsabilità ai sensi della clausola ISDS [14]. Secondo l’economista e politologo Cristoph Scherrer, come esposto nella sua pubblicazione, “The transatlantic trade and investment partenership (Ttip): Implications for Labor” [15], si replicherebbe quel rapporto di forza esistente oggi tra Stati fortemente indebitati e colossi finanziari che sono i maggiori compratori dei loro titoli di Stato.

Una “NATO economica” per contrastare l’espansione cinese

Il fatto che un accordo commerciale finalizzato ad unire due mercati che insieme costituiscono circa la metà del PIL mondiale non sia dettato da mere ragioni economiche è cosa facilmente comprensibile e poi nemmeno così celata dalle stesse parti in causa.

Nelle intenzioni del grande promotore di questo accordo, Barack Obama, il TTIP rappresenterà la propria eredità politica, come colui che avrà permesso al blocco transatlantico di rafforzarsi in questi tempi di espansionismo asiatico. Del resto, il TTIP ha il chiaro scopo di preparare al meglio l’Unione Europea e gli Stati Uniti per la battaglia economica contro i BRICs e, in particolare, la Cina.

Pertanto, l’obiettivo politico, o meglio geopolitico, dell’accordo tra Bruxelles e Washington sarebbe quello di estromettere la Cina, o quantomeno ridimensionarne l’ascesa, quale prossimo attore globale egemone, in considerazione del fatto che è attualmente tra i principali partner economici di gran parte dei Paesi europei. Un risultato al quale pervenire mediante la contemporanea stipula di altri trattati commerciali con Paesi terzi in linea con la strategia dell’abbandono della prospettiva del consenso multilaterale a livello globale in favore di quella bilaterale (o multi-bilaterale).

All’interno di questo disegno geostrategico si inserisce il TPP (Trans-Pacific Partnership), l’accordo di libero scambio gemello del TTIP, anch’esso ancora in fase di negoziazione, tra USA e diversi Paesi indio-latini e asiatici (Australia, Brunei, Cile, Canada, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam), esclusa, ovviamente, la Cina. Il TPP rappresenta chiaramente lo strumento economico della strategia politica condotta dagli Stati Uniti del c.d. “pivot to Asia”, che ha lo scopo di riunire alcune delle più emergenti economie situate nell’area del Pacifico all’interno di un regime di corporate governance giuridicamente vincolante, convincendo i singoli Stati ad aderire al progetto attraverso garanzie di protezione dall’espansionismo cinese e la prospettiva di libero accesso al mercato statunitense.

Tuttavia, il timore che serpeggia in Asia – e non solo in Cina – è che il TTIP, a differenza del WTO, il quale si concentra esclusivamente sulla riduzione delle tariffe doganali, punti a fondare un nuovo sistema commerciale globalizzato, attraverso nuove regole su proprietà intellettuale, lavoro, competitività, interventi statali, in un’ottica escludente per i mercati asiatici.

Eppure, malgrado un recente ridimensionamento del boom economico cinese e una forte ripresa americana, la Cina, ad oggi, conserva una grande forza attrattiva verso i restanti Paesi asiatici. È di tutti questi il primo partner commerciale e le proposte di liberalizzazione degli scambi che essa avanza risultano più accettabili rispetto a quelle americane, basandole su politiche di aiuti allo sviluppo infrastrutturale e grossi investimenti all’estero, posizione che condivide tra gli altri con Giappone e Corea del Sud. Inoltre, basa la propria strategia politico-economica sulla centralità asiatica, risultando più appetibile rispetto a un TPP che, contrariamente, ha come fulcro il continente americano.

Infine, vi è la suggestione del versante europeo. Sebbene, al momento, la Cina si sia limitata alla stipula di accordi bilaterali con i singoli Stati membri dell’Unione Europea, un domani potrebbe andare oltre, sfruttando il ponte con la Russia e, magari, più in là, la naturale propensione della Germania a proiettarsi verso Est. La prospettiva sarebbe quella di uno spazio commerciale euroasiatico, gestito in modo multilaterale e autonomamente rispetto agli USA e del quale il progetto della “Nuova Via della Seta” [16] potrebbe rappresentare la naturale cintura economica.

Quali prospettive per l’Europa. Lo spettro di una “disintegrazione europea”?

Il Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti, a detta dei suoi promotori, stimolerà la crescita in Europa e negli Stati Uniti. Proiezioni fatte proprie dalla Commissione Europea indicano vantaggi netti positivi attraverso la rimozione di quelle barriere commerciali non tariffarie tra gli Stati, quali i differenti standard in vigore nell’Ue e negli USA. La logica sottostante è quella delle tradizionali liberalizzazioni, basate sul principio per cui la riduzione del costo degli scambi favorisce un più alto volume dei commerci con vantaggi economici generali.

Nelle molteplici dichiarazioni di questi due anni di trattative sul TTIP si è ripetuto costantemente che l’obiettivo principale dell’accordo fosse aprire i due mercati, statunitense ed europeo, abbattendo le barriere doganali e favorendo la creazione di standard commerciali comuni, enfatizzando le ricadute benefiche che la costituzione di un mercato unico completamente liberalizzato avrebbe potuto generare.

Le tariffe doganali tra Usa e Unione Europea sono già sufficientemente basse (tra il 3 e il 4% in media), pertanto eliminarle potrebbe avere sì effetti positivi sul commercio, ma di certo non rivoluzionari. Il vero obiettivo, piuttosto, è la riduzione degli ostacoli derivanti dalla regolazione economica, ritenuta troppo forte e pervasiva, soprattutto dagli Stati Uniti in riferimento al mercato europeo.

Invero, la sfida dell’integrazione di due mercati di simili proporzioni parte innanzitutto dal complesso processo di armonizzazione dei sistemi normativi esistenti. Un’area comune di libero scambio al cui interno siano presenti differenti architetture istituzionali, monetarie e fiscali non sembra rispettare il principio liberistico di una corretta concorrenza. D’altro canto, non risulterebbe possibile all’Ue competere con un Paese come gli Stati Uniti, il quale non ha limiti nel rapporto deficit/PIL e con una FED che può intervenire sui cambi e acquistare titoli di Stato, mentre nell’Ue vi sono limiti rigorosi che generano politiche deflazionistiche [17]. L’Unione Europea,  con l’attuale contesto economico d’austerità, alta disoccupazione e debole crescita, incontrerebbe serie difficoltà a competere con gli USA in un mercato liberalizzato di tal tipo.

Simili timori vengono confermati dal lavoro di ricerca condotto dallo studioso della TUFTS University di Boston, Jeronim Capaldo, recante il titolo “TTIP: disintegrazione europea, disoccupazione, instabilità” [18]. Secondo Capaldo dagli studi di ricerca promossi dalla Commissione emergerebbe l’inquietante dato per cui qualsiasi vantaggio si realizzi nel commercio transatlantico esso avverrà a spese del commercio intraeuropeo, ribaltandone il relativo processo di integrazione economica.

La tesi viene argomentata, asserendo che i dati riportati sugli effetti del TTIP, dai suoi promotori, si basano su ricerche che hanno tutte utilizzato il medesimo modello di analisi, il Computable General Equilibrium model (CGE), risultato inadeguato per lo studio delle politiche commerciali. Parecchi di questi studi [19] avrebbero in comune lo stesso modello economico e la stessa base di dati, motivo per il quale la loro convergenza di risultati, dunque, non sorprenderebbe e non può, pertanto, essere considerata come una conferma delle loro previsioni.

I limiti dei modelli CGE come strumenti di valutazione delle riforme del commercio sono emersi durante le liberalizzazioni degli anni ’80 e ’90. Il problema maggiore con questi modelli è la loro ipotesi di un processo tendente a un nuovo equilibrio macroeconomico dopo che il commercio è stato liberalizzato. In particolare, una volta tagliate le tariffe e i costi commerciali e una volta che tutti i settori vengono esposti a una più forte concorrenza internazionale, questi modelli presuppongono che i settori più competitivi dell’economia assorbiranno tutte le risorse, compreso il lavoro, liberate dai settori in crisi. In pratica, però, questo meccanismo di “pieno impiego” funziona raramente. In molti casi, i settori meno competitivi si contraggono velocemente mentre i più competitivi crescono lentamente o non abbastanza, lasciando molti lavoratori disoccupati.

Contrariamente, Capaldo, nell’affidarsi al Modello Globale di Politica Economica delle Nazioni Unite, giunge a risultati diametralmente opposti, rilevando uno scenario di contrazione del PIL, dei redditi personali e dell’occupazione, il quale favorirebbe, quella che viene definita, una vera e propria “disintegrazione economica dell’Europa”. Il GPM (United Nations Global Policy Model) è un modello econometrico globale incentrato sulla domanda, che poggia su una base dati macroeconomica completa e coerente per ogni Paese, potendo stimare gli effetti di un cambiamento di politica come quello del TTIP anche su Paesi esterni al blocco commerciale preso in esame, in quanto il resto del mondo non rimane immobile quando due economie si integrano.

Lo scenario rappresentato, pertanto, mostra un processo di graduale sostituzione del commercio intraeuropeo con quello transatlantico, ponendo l’Unione Europea in una situazione di maggiore vulnerabilità rispetto alle evoluzioni degli scenari macroeconomici degli Stati Uniti, per le motivazioni poc’anzi esposte (profonde differenze tra le rispettive strutture istituzionali, monetarie ed economiche).

Ad ogni modo, prescindendo dalle previsioni e dai diversi metodi di analisi, vi è di certo che una chiusura dei negoziati in tempi brevi (si parla della fine del 2015) potrebbe avere un effetto negativo sulla qualità dell’intesa. Considerando che la parte più controversa dell’accordo, ancora da discutere appieno, verrebbe trattata nell’arco di pochi mesi, con tempistiche troppo ravvicinate per permettere un’adeguata formazione del consenso, si corre il rischio concreto che la volontà degli Stati Uniti di concludere l’accordo prima della campagna elettorale per le presidenziali USA finisca per imporre termini di intesa poco trasparenti e meno favorevoli all’Unione Europea.

* Claudio Giovannico è OPI Contributor

[1] Per una più ampia e dettagliata ricostruzione storica, si rinvia a: Borsani D., “TTIP/TAFTA: Stati Uniti ed Europa alla prova dell’area di libero scambio transatlantica”, Commentary ISPI, 16 luglio 2013

[2] Relazione di iniziativa di Bernd Lange recante “Raccomandazioni del Parlamento europeo alla Commissione sui negoziati riguardanti  il partenariato transatlantico su commercio e investimenti”: http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-%2f%2fEP%2f%2fNONSGML%2bREPORT%2bA8-2015-0175%2b0%2bDOC%2bPDF%2bV0%2f%2Fit;   

[3] Il 9 ottobre 2014 il Consiglio dell’Unione europea ha pubblicato le direttive di negoziato, che erano state adottate dal Consiglio “Affari esteri” (Commercio) il 14 giugno 2013. Tali direttive autorizzavano la Commissione europea a intavolare un negoziato formale in materia di rapporti bilaterali con gli Stati Uniti. Le direttive formulano i temi e gli obiettivi da perseguire in sede negoziale attraverso i seguenti elementi chiave: accesso al mercato, questioni normative e ostacoli non tariffari, norme.

[4] Art. 218, par. 5 e 6, del TFUE: secondo cui è necessario che il negoziatore proponga la firma dell’accordo, solitamente autorizzata dal Consiglio con una propria decisione. E’ possibile che quest’ultimo proponga altresì l’applicazione provvisoria del testo prima della sua entrata in vigore. Di norma è la Commissione ad apporre la propria firma all’accordo ed a presentare al Consiglio due proposte di atti, l’una relativa alla firma e l’altra alla conclusione dell’accordo medesimo; il Consiglio, sempre su proposta del negoziatore, adotta una decisione relativa alla conclusione. Tale decisione equivale ad una ratifica.

[5] Cfr. art. 216, par 2 del TFUE

[6] Dullien S., Garcia A., Janning J. – “A fresh start for TTIP”, ECFR Policy Brief, february 2015

[7] Il meccanismo prevedeva l’inserimento di una clausola in base alla quale gli investitori stranieri potessero adire un arbitro internazionale, invece che il sistema giurisdizionale interno, per ricevere compensazione monetaria, o altra forma di risarcimento, qualora un Governo, che sia parte contraente di un trattato commerciale, abbia violato le norme del trattato medesimo. La ratio della norma è quella di assicurare maggiore imparzialità nel decidere sulle controversie in essere.

[8] Nello specifico, la proposta, ufficialmente presentata alcuni giorni fa, prevede un organismo composto da giudici, in possesso di elevate qualifiche, nominati da una commissione congiunta tra Usa e Ue, scelti volta per volta per sorteggio. Tuttavia, tale proposta andrà discussa con il Consiglio e il Parlamento europeo prima di essere inserita nei negoziati in corso con Washington.

[9] Il testo del compromesso: http://www.eunews.it/wp-content/uploads/2015/07/compromesso-Ttip.pdf

[10] Il belga Blusun S.A., il francese Jean-Pierre Lecorcier e il tedesco Michael Stein. Le tre aziende sostengono di essere state penalizzate dalla decisione dello Stato italiano di tagliare gli incentivi per l’energia fotovoltaica  – terminati nel 2013 con un decreto del 2012 – e per questo hanno deciso di rivolgersi a un arbitrato privato.

[11] Una ricerca pubblicata da Corporate Europe Observatory e SumOfUs fa luce sui gruppi d’interesse che stanno cercando d’influenzare la Commissione Ue durante i negoziati transatlantici. Il settore più attivo resta l’agribusiness, ma anche altri stanno moltiplicando i propri sforzi. Cfr.: http://corporateeurope.org/international-trade/2014/07/who-lobbies-most-ttip e http://corporateeurope.org/international-trade/2015/07/ttip-corporate-lobbying-paradise

[12] L’opuscolo “The top ten myths about TTIP”, che si propone di ristabilire – nelle parole del Commissario Malmstrom – “quale sia effettivamente la realtà” del TTIP: http://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2015/march/tradoc_153266.pdf

[13] Per approfondire l’argomento, si rinvia a: Spagnuolo F., “I servizi pubblici nella World Trade Organization tra libero mercato e tutela dei diritti” in Amministrazione in cammino, http://amministrazioneincammino.luiss.it/wp-content/uploads/2010/03/Spagnuolo.pdf

[14] Si pensi alle cause promosse da diversi colossi petroliferi statunitensi presso i tribunali arbitrali del NAFTA ai danni del Canada, colpevoli di aver votato moratorie sull’estrazione dello shale gas a difesa della salute dei cittadini, adducendo, motivazioni legate alla perdita di guadagno potenziale derivante da tale decisione.

[15] Scherrer C., “The transatlantic trade and investment partenership (Ttip): Implications for Labor”, Munchen 2014, http://www.uni-kassel.de/einrichtungen/fileadmin/datas/einrichtungen/icdd/Publications/Volume_5.pdf

[16] Con Silk Road Economic Belt (via della seta economica) si intende la via terrestre che attraversa l’Asia centrale ed arriva in Europa passando per Iran e Turchia. La 21st Century Maritime Silk Route Economic Belt (via marittima della seta economica del 21° secolo) è invece la via marittima che, partendo dalla regione costiera del Fujian, prosegue per lo stretto di Malacca, Kuala Lumpur, Sri Lanka, Nairobi, Gibuti, per poi arrivare nel Mediterraneo.

[17] Savona P., “La zona di libero scambio tra le due sponde dell’Atlantico: problemi e prospettive”, in Aspenia online, http://www.aspeninstitute.it/aspenia­online

[18] Capaldo J., “TTIP: disintegrazione europea, disoccupazione, instabilità” in Global Development and Environment Institute Working Paper n. 14-03, october 2014

[19] Gli studi econometrici citati sono: Ecorys (“Non-Tariff Measures in EU-US Trade and Investment – An Economic Analysis”, ECORYS Nederland BV, 2009) CEPR (“Reducing Transatlantic Barrier to Trade and Investment. An Economic Assessment”, Centre for Economic Policy Research, London, 2013) CEPII (“Transatlantic Trade: Whither Partnership, Which Economic Consequences?, Centre d’Etudes Prospectives et d’Informations Internationales, Paris, 2013) e Bertelsmann Stiftung (“Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), Bertelsmann Stiftung, 2013). Il più influente tra questi è stato quello del CEPR, sul quale la Commissione ha fatto grande affidamento, citandolo quale report indipendente sebbene nella stessa prima pagina del rapporto la Commissione europea è indicata come cliente per il quale la ricerca è stata condotta.

Photo credits: Geert Vanden Wijngabert/TT

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