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Turchia: dove le buone idee pagano

Da Istanbulavrupa

Turchia: dove le buone idee pagano(inchiesta pubblicata su Develop.med dell’Istituto Paralleli)

Elena Pallotta non ha avuto paura di affrontare un’avventura all’estero: fiorentina, ingegnere con master in business administration, un passato nella consulenza strategica e nello sviluppo immobiliare, oggi è gelataia di successo in Turchia. Ha aperto il primo negozio a luglio dello scorso anno, ne aprirà altri tre a breve, pensa di poterne aprire trenta nell’arco di cinque anni. Quella di Elena Pallotta è una delle 906 imprese italiane in Turchia. DevelopMed è andato a Istanbul a conoscere i soggetti che operano per promuovere le relazioni economiche tra Italia e Turchia.

La Confindustria e l’Ice stanno organizzando – insieme ad altri partner istituzionali, dal 1° al 4 maggio – una missione imprenditoriale a Istanbul. Sono state invitate a partecipare soprattutto aziende del comparto dei macchinari industriali, delle infrastrutture, dell’energia e delle energie rinnovabili; sono previsti un convegno con presenza istituzionale ai massimi livelli, approfondimenti settoriali e incontri bilaterali con aziende turche. Le ragioni di questa iniziativa sono esplicitamente evidenziate nel comunicato ufficiale dell’Ice: “rafforzare le relazioni economiche con la Turchia e approfondire le opportunità di collaborazione industriale offerte alle imprese italiane”. Il paese guidato da 10 anni dal Partito della giustizia e dello sviluppo è infatti un attore economico in rapida crescita e ormai immerso nella modernità (l’incremento del Pil si è attestato attorno all’8% nel 2011), capace di attrarre in misura sempre più incisiva – anche per coprire squilibri strutturali nella bilancia dei pagamenti – investimenti diretti dall’estero. Secondo i dati resi noti proprio dall’ufficio Ice di Istanbul nella nota congiunturale di febbraio, l’Italia è il quarto partner commerciale della Turchia: l’interscambio complessivo è stato di 21,3 miliardi di dollari nel 2011 (+ 28% rispetto all’anno precedente), con un attivo di 5,6 miliardi; sono in totale 906 le imprese italiane che operano nel paese secondo i dati – non sempre però attendibili – diffusi dal ministero dell’economia, con investimenti pari a 98 milioni di dollari nel 2011 (quasi triplicati rispetto al 2010). Tuttavia, i funzionari e analisti italiani invitano a contestualizzare questi numeri. “Pur nel dinamismo delle relazioni dei due Paesi – si legge sempre nella nota di febbraio – la quota di mercato italiana sul totale delle importazioni della Turchia continua ad oscillare intorno a valori non elevati: 7,1% nel 2004; 6,5% nel 2005; 6,3% nel 2006; 5,9% nel 2007; 5,5% nel 2008, 2009 e nel 2010. Nel 2011 tale valore e’ stato del 5,67%.” Anche per ammontare degli investimenti e per numero di imprese, l’Italia ha un peso secondario: investono significativamente di più olandesi (1573 milioni di dollari), americani (1403 milioni) francesi (985 milioni), britannici (895 milioni), tedeschi (520 milioni); sono molto più numerose le imprese tedesche (4779), britanniche (2334), o persino iraniane (2140) e azerbaigiane (1049).

Quelle italiane rappresentano il 3,1% del totale; operano prevalentemente nel settore bancario, dell’energia, delle infrastrutture e dell’industria della difesa. Sono imprese storiche: come le Generali, che festeggeranno nel 2013 il 150° anno di attività; come la Astaldi, che sta costruendo la metropolitana Kadıköy-Kartal sulla sponda asiatica di Istanbul e un nuovo ponte sul Corno d’oro; come la Ferrero, che ha avviato la realizzazione – con un investimento da 90 milioni di dollari – di uno stabilimento per la produzione dal 2013 della Nutella e della linea Kinder; come la Indesit, come la Barilla, come la Pirelli. Ma non mancano gli imprenditori sorprendentemente innovativi. Tra i grandi spicca Unicredit attraverso Yapı Kredi, dal 2006 controllato paritariamente insieme al gruppo Koç (il maggior gruppo industriale e finanziario turco): la quinta banca della Turchia, con 900 filiali e 17000 dipendenti. Nicola Longo Dente, head of international and multinational relationship banking, è a Istanbul da luglio ma ne è già entusiasta; nel suo ufficio dello Yapı Kredi Plaza, ha spiegato a Develop.med perché a suo avviso è un’ottima e profittevole idea per le aziende italiane investire in Turchia: stabilità macroeconomica, economia in costante espansione, un ampio mercato dalla elevata propensione al consumo, unione doganale con l’Ue, manodopera qualificata e con costi ridotti, costo dei trasporti accettabile, privatizzazioni, vantaggi fiscali, ostacoli burocratici in via di progressivo sgretolamento. “ In Turchia anche la politica ha un approccio finalizzato al business”. Con l’Asia, non c’è paragone: i costi della manodopera sono leggermente superiori ma la differenza di qualità è sensibile, la capacità artigianale ad esempio è consolidata; inoltre, è decisiva la flessibilità negli ordini: non necessariamente legati a grandi quantitativi. Importanti anche le similarità tra le classi imprenditoriali italiana e turca: le joint-venture (ad esempio la Tofaş, tra Koç e Fiat) funzionano splendidamente.

Non mancano lati negativi, ovviamente: l’eccessiva e rischiosa propensione all’indebitamento privato, ad esempio; oppure, investimenti ancora molto modesti nella ricerca e nello sviluppo, con conseguente importazione delle tecnologie produttive; e soprattutto, “l’arroganza che deriva dal successo, che porta a inebriarsi e a strafare”. Nicola Longo Dente, sostanzialmente, condivide il passaggio della nota congiunturale dell’Ice in cui si afferma che “la strada da intraprendere per le imprese nazionali è quella di continuare a credere nel valore strategico del mercato turco, proponendosi con più attivismo in alcuni settori molto rilevanti per lo sviluppo futuro della Turchia (protezione ambientale, tecnologie per il restauro ed il territorio, infrastrutture, energie rinnovabili).”

La Camera di commercio italiana in Turchia

Imprese italiane più numerose, missioni sempre più frequenti. Ad occuparsene, con entusiasmo e competenza, è anche la Camera di commercio italiana in Turchia: un ente fondato nel 1885 che ha sede nella prestigiosa Casa d’Italia insieme all’Istituto italiano di cultura (ma dispone di un ufficio operativo anche presso l’ambasciata di Ankara). Il suo segretario generale Fatih Ayçin, che la guida da 10 anni dopo aver lavorato per la Pirelli, ci ha confermato l’aumento e l’ispessimento dell’attenzione reciproca tra Turchia e Italia – pur con qualche riserva. La camera, che è un ente privato con circa 600 associati, fondamentalmente offre informazioni e consulenza alle imprese (linguistica, burocratica, di ogni tipo) e organizza missioni istituzionali e commerciali: circa 30 all’anno in Turchia, oltre a delegazioni di buyers turchi in Italia; ha accordi di collaborazione con le fiere di Milano e di Verona, dove nel 2011 ha portato circa 150 compratori e circa 300 espositori turchi, oltre che con un numero in crescita di camere di commercio regionali e comunali (solo per citarne alcune: Lombardia, Piemonte, Trieste, Napoli, Salerno, Calabria); realizza anche eventi formativi e di rappresentanza. C’è attenzione, c’è interesse, c’è attrazione, ci sono soprattutto enormi opportunità di business: ma anche il dottor Ayçin lamenta la scarsa propensione delle imprese italiane all’internazionalizzazione e una conoscenza spesso approssimativa e caricaturale della Turchia nel nostro paese, da cui consegue un peso in valore assoluto limitato rispetto ai nostri concorrenti; fanno decisamente meglio, ad esempio la Germania o l’Olanda: che possono sfruttare gli immigrati di ritorno, le seconde generazioni che tornano in Turchia per fare impresa.

I 16 gusti del Business

Chi invece non ha avuto paura di un’avventura all’estero è Elena Pallotta: fiorentina, ingegnere con master in business administration, un passato nella consulenza strategica e nello sviluppo immobiliare, oggi gelataia di successo. Ha aperto il primo negozio a luglio dello scorso anno, ne aprirà altri tre a breve, pensa di poterne aprire trenta – a Istanbul, ma non solo – nell’arco di cinque anni. Tutto pianificato e studiato nei minimi dettagli: dal nome (Muà, il suono del bacio schioccato sulla punta delle dita) al logo, dal gelato con soli prodotti turchi e naturali allo stile inconfondibile di coppette e divise, dal marketing sofisticato e non invadente alla diffusione dell’italianità attraverso la lingua e la cortesia. Imprenditrice per sopravvenuta vocazione, ha pensato al Mediterraneo per il concretissimo sogno: e ha scelto la Turchia per la sua stabilità finanziaria e politica, per le caratteristiche del mercato (molti giovani, borghesia rampante), per la competizione non agguerritissima e commercialmente battibile nel settore dei gelati; si è dovuta scontrare con qualche ostacolo burocratico (soprattutto legato alle traduzioni dei documenti), ha beneficiato dell’abolizione dell’obbligo di un socio turco per le imprese straniere. Il modello è quello della piccola gelateria di quartiere – la prima è a Yeniköy, sul Bosforo – facilmente riproducibile nell’organizzazione; impiega da 3 a 5 persone secondo la stagione, offre 16 gusti a rotazione (solo prodotti freschi, niente fragole d’inverno), coinvolge i bambini in corsi per imparare a fare il gelato: e i genitori ne approfittano, invogliati dal sapore d’Italia.

Le buone idee qui pagano. E il consiglio dell’Ice è quello di radicarsi, di legare i flussi commerciali oggi prevalenti attraverso le esportazioni all’insediamento produttivo e strategico: “non vi è dubbio che il consolidamento delle quote di mercato dovrebbe avvenire preferibilmente attraverso un controllo diretto e maggiore della produzione in loco, considerato che i flussi di vendite, se non costantemente accompagnati da azioni di collaborazione industriale ovvero di investimento produttivo vero e proprio, non possono assicurare il mantenimento durevole di una forte presenza economica e industriale nel Paese”. La missione di maggio dovrà farne tesoro.



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