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Turchia ed Europa ancora distanti: i nodi tornano al pettine

Creato il 18 dicembre 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Salvatore Denaro

Turchia ed Europa ancora distanti: i nodi tornano al pettine
Il possibile ripristino della pena di morte in un Paese come la Turchia fino a poco tempo fa sembrava assolutamente impensabile, se non altro per il lungo processo di avvicinamento nei confronti dell’Unione Europea iniziato nel 1963 con l’Accordo di Ankara. La questione di Cipro e l’instabilità politica causata dai tre colpi di Stato – l’ultimo dei quali nel 1981, senza considerare il tentativo del 1997 e quello presunto del 2010) –, reticenze culturali e religiose, nonché la questione dei diritti umani nell’Europa della CEDU (la Convenzione europea per i diritti dell’uomo, firmata sotto l’egida del Consiglio d’Europa nel 1950, è diventata tuttavia giuridicamente vincolante nello spazio comunitario solo nel 2009 con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona), quindici anni fa sembravano aver compromesso definitivamente l’ingresso di Ankara nell’Unione Europea. E invece nel 2001 la decisione di riformare il sistema giuridico turco eliminando la pena capitale (questa fu definitivamente abolita nel 2004 con la legge 5218 del 14 luglio [1]) rappresentò oltre che una decisione necessaria nel percorso di avvicinamento ai parametri fissati da Bruxelles, anche un segnale politico importante. Oltre alla sostituzione della pena di morte con l’ergastolo, la riforma prevedeva anche una maggiore libertà di pensiero e di espressione; il genocidio e i crimini contro l’umanità, per la prima volta contemplati all’interno del sistema giuridico turco, furono anch’essi puniti con l’ergastolo. Inoltre, fu stabilito che la tortura era da considerarsi un reato individuale, punibile con pene più severe se praticata da rappresentanti delle forze dell’ordine. Troppo poco, ma comunque un primo passo importante.

Nel 1999, anno del conferimento dello status di candidato ufficiale all’adesione, vi era dunque da un lato un’Europa rafforzata dalla moneta unica, che dibatteva del futuro dell’architettura costituzionale, e, dall’altro, un Paese – la Turchia – che decideva di intraprendere una serie di riforme nel campo economico e negli assetti giuridico e politico/istituzionale per andare incontro ai tre criteri indicati da Bruxelles (economico, politico e dell’acquis communautaire) imprescindibili per una futura membership europea. Senza dimenticare, ovviamente, l’adeguamento agli standard europei dei diritti civili e politici. In estrema sintesi, si può affermare che per anni è stata la Turchia a rincorrere il sogno europeo.

Ma dopo lo slancio avvenuto nei primi anni del 2000, le possibilità di vedere il primo Paese a maggioranza musulmana parte integrante di un futuro rilancio dell’Unione Europea si sono progressivamente affievolite. Proprio la recente dichiarazione di Erdoğan di tenere in seria considerazione il ripristino della pena di morte non è altro che l’ultima di una serie di fattori che spingono la Turchia nuovamente lontana dall’Europa. Tale affermazione è stata interpretata da alcuni osservatori come parte di una più complessa strategia politica in vista delle elezioni presidenziali del 2014 – ossia nel senso di una riforma costituzionale che permetta al leader dell’AKP di sostituire Gül – e che, in linea con altre misure, risponderebbe in ultima istanza ad una volontà di islamizzazione del Paese.

La ragione per cui il Primo Ministro turco è tornato a rievocare la pena capitale, soprattutto per i reati di terrorismo politico, risiede nella protesta di massa dei circa 700 detenuti curdi messa in atto attraverso uno sciopero della fame che in alcuni casi è arrivato a 69 giorni. A questa protesta si è aggiunta anche quella di cinque parlamentari e del sindaco di Diyarbakir: motivo del dissenso è l’isolamento cui è sottoposto l’ex leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, Abdullah Öcalan, che da 13 anni si trova nel carcere di Imrali, un’isola del Mar di Marmara, e che alla fine degli anni Novanta era scampato alla massima pena grazie anche all’intervento della Corte Europea dei Diritti Umani. La protesta curda riguarda anche il riconoscimento di alcuni fondamenti del processo di autodeterminazione, come ad esempio l’uso senza restrizioni della loro madrelingua, soprattutto nei processi e nel settore dell’istruzione. Importanti organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International denunciano quanto sta accadendo nelle carceri di Silivri, Sakran e di Tekirdag. Nelle prime due, coloro che hanno preso parte alla protesta sono stati messi in isolamento, mentre nella terza arrivano notizie di maltrattamenti e di uso della violenza da parte della polizia penitenziaria.

Ma è nello stesso popolo turco che serpeggia oggi un sempre più elevato sentimento di sfiducia nei confronti dell’Europa unita a causa della rigidità dimostrata sia da Bruxelles sia dagli stessi Stati membri. Nello scorso mese di ottobre il Ministro dell’Economia turco, Zafer Çağlayan, ha duramente attaccato “l’ipocrita Unione Europea, che ha fatto aspettare per 50 anni la Turchia davanti alla sua porta”. Storicamente, Paesi del calibro di Francia e Germania, hanno più volte espresso le proprie perplessità verso una possibile membership turca, poiché potrebbe rappresentare una minaccia insostenibile per i fragili equilibri che contraddistinguono le istituzioni europee. Infatti la Turchia, con i suoi circa 80 milioni di abitanti, riuscirebbe ad ottenere una rappresentanza nel Parlamento europeo pari a quella della Germania e di molto superiore a quella della Francia. Ed è stato soprattutto l’ex Presidente Nicolas Sarkozy, contrapponendosi soprattutto a Gran Bretagna, Italia e – non da ultimo – Stati Uniti, ad opporsi ad un possibile ingresso di Ankara: pur rimarcando l’obiettivo comune (ossia fare della Turchia un ponte tra Oriente e Occidente), e ben al di là della polemica relativa al riconoscimento del genocidio armeno, per Sarkozy non solo era necessario che l’Europa avesse dei confini ben determinati, ma anche che all’interno di questi non vi fosse un forte alleato americano eventualmente capace di influenzare le scelte direttive dell’Unione Europea. L’avvento ora di François Hollande ha notevolmente ammorbidito le valutazioni di Parigi.

Un’altra ragione piuttosto delicata riguarda la questione religiosa. Una scuola di pensiero vede nell’islam moderato della Turchia un’opportunità per l’Europa di intensificare il dialogo con il mondo musulmano, superando la visione cristiano-centrica alla quale si sarebbero ispirati i Padri fondatori e non solo (nel 1997 l’allora Primo Ministro Mesut Yilmaz reagì duramente quando l’ex cancelliere tedesco Helmut Kohl affermò che “l’Europa è un club cristiano”). Ma secondo un’ipotesi che fino ad oggi ha avuto maggior seguito, un’eventuale adesione di Ankara all’Unione Europea porterebbe circa 75 milioni di musulmani a diventare cittadini europei a tutti gli effetti. Se a questa cifra sommiamo i 38 milioni già presenti all’interno dei Ventisette, ecco che l’impronta fortemente cristiana del vecchio continente verrebbe messa seriamente in discussione.

Fattori culturali e politici, questioni irrisolte (Kurdistan e Cipro), e non da ultimo la vulnerabilità del sistema di protezione dei diritti umani, hanno quindi rappresentato i fattori determinanti delle perplessità che animano l’Unione Europea nei confronti della Turchia. Eppure, negli ultimi tempi Bruxelles ha tentato di riallacciare i rapporti con le autorità turche annunciando più volte un reale impegno nel voler procedere sulla strada dell’integrazione. Al di là della liberalizzazione dei visti (che secondo quanto espresso dal portavoce del Commissario per gli Affari interni Cecilia Malmström verrà implementata dopo la firma da parte di Ankara dell’accordo di riammissione), lo scorso maggio il Commissario europeo all’Allargamento Stefan Füle, nel corso di una visita ad Ankara, ha espressamente dichiarato che l’ingresso della Turchia potrebbe apportare “un nuovo dinamismo e un nuovo slancio alle nostre relazioni dopo un periodo di ristagno, fonte di frustrazione per le due parti”. Appare evidente come le parole del Premier turco circa il possibile ripristino della pena di morte rappresentino una frenata ai buoni propositi di qualche mese fa. Oltre a ciò, è recentemente arrivato da Erdoğan un vero e proprio ultimatum all’Europa: “2023, questa è la data in cui la Turchia sarà membro dell’Unione Europea, o non lo sarà mai più”.

Parole chiare, che giungono da un Paese che negli ultimi tempi è in controtendenza rispetto alla crisi economica che contraddistingue il vecchio continente e che ha avuto nell’ultimo anno la possibilità di smarcarsi da una connotazione prettamente euro-mediterranea. Per quanto riguarda il primo aspetto, il tasso di sviluppo dell’economia turca nei primi nove mesi dell’anno si attesta al 2,6% (3,4% primo trimestre, 3% secondo e 1,6% terzo). A livello commerciale le buone notizie arrivano dall’aumento dell’export e da una leggera compressione dell’import. L’interscambio con l’esterno (322 miliardi di dollari) è aumentato del 2,9%, mentre è indicativo che le importazioni turche dai Paesi UE (71,6 miliardi di dollari in valore nel 2012) sono diminuite del 6,2%. In un contesto di crisi internazionale sono numeri che evidenziano come la Turchia di oggi sia un Paese che oltre a godere di una buona salute sulla finanza pubblica, ha anche registrato una crescita economica per l’anno 2011 dell’8,5%, tale da garantirgli di posizionarsi al sedicesimo posto tra tutte le economie del mondo per volume di PIL. Ma nuove dinamiche hanno riguardato anche la politica estera: prima la politica degli “Zero problemi” impressa dal Ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu, poi le opportunità di “leadership regionale” aperte dagli scenari delle cosiddette “Primavere arabe”. Scenari che hanno spinto il Paese a prendere posizioni più marcate, specie nei confronti della Siria – ai confini della quale si gioca una partita importante e che comprende anche la dimensione curda – ed, inevitabilmente, con l’Iran. In questo caso la politica di Ankara nei confronti di Teheran è in linea con quella adottata dall’Occidente e può rivelarsi strategicamente decisiva.

Insomma, siamo di fronte ad una Turchia profondamente diversa rispetto a quella di qualche anno fa, una Turchia pronta ad invertire i ruoli, pronta a non rincorrere più il sogno europeo ma ad essere rincorsa. Al forum italo-turco dello scorso 12 novembre proprio Ahmet Davutoğlu ha dichiarato che “la Turchia è storicamente una parte dell’Europa e noi saremo sempre europei anche se verremo rigettati. Non c’è il bisogno di aiuti economici. Non abbiamo bisogno dell’UE come nel 2004, ma anzi siamo pronti a fornire noi aiuti economici. Noi vogliamo essere parte dell’Europa in maniera uguale agli altri Paesi membri”. Come a dire che la Turchia potrebbe non rappresentare più un peso, ma la cura per un’Europa in affanno.

Alla luce di ciò, gli scenari futuri appaiono quanto mai complicati e difficili da prevedere. Ma già il 2013 potrebbe dare qualche risposta ad alcuni interrogativi circa le prossime mosse di Bruxelles. Quest’ultima accelererà il processo di adesione di un Paese strategico dal punto di vista culturale ed economico oppure continuerà a diffidare di uno Stato che pensa di reintrodurre la pena di morte, che non ha risolto la questione cipriota e quella curda, che non ha ancora riformato a sufficienza il sistema giudiziario e quello delle libertà e dei diritti civili e politici? L’appoggio ai ribelli siriani da parte del Governo turco potrebbe da solo rappresentare un elemento determinante per sancire la convergenza con la politica estera europea nello scacchiere mediorientale e quindi facilitare il percorso di adesione?

* Salvatore Denaro è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)

[1] Nel maggio dello stesso anno la Costituzione fu emendata cancellando qualsiasi riferimento alla pena di morte; nel 2006 Ankara ha inoltre ratificato il secondo Protocollo opzionale al Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici.


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