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Turchia, zero problems towards Iran?

Creato il 17 ottobre 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

turchia-iran

di Francesco Minici

Il rapporto tra Turchia e Iran nell’ultimo anno ha segnato il passo dell’evoluzione magmatica del quadro regionale. Tutti i tradizionali schieramenti del Medio Oriente sono in sommovimento. Il Califfato dell’IS ha avuto l’effetto di rivedere antiche strategie e alleanze. E’ indubbio che la maggiore difficoltà risieda nel delineare una prospettiva stabile che abbracci il medio periodo. Le variabili da considerare sono molteplici sia dal punto di vista economico sia da quello politico. Il reciproco interesse dei due Paesi a porsi come guida della regione risente della necessità di normalizzazione della situazione nell’area. Vari dossier imporrebbero ragionate scelte dei due governi più cooperative mentre interessi più particolari sembrerebbero allontanare in stringenti divergenze le due capitali.

 Un tavolo a tre lati per la bilaterale Procedendo con un ordine cronologico occorre ricordare che lo scorso gennaio Turchia e Iran hanno rafforzato le proprie relazioni attraverso la firma di tre accordi di cooperazione bilaterale. Il Premier turco Erdoğan, dopo una visita diplomatica a Teheran, sottoscriveva tali accordi suggellando quello che a detta di molti analisti è stato definito come un turning point per tutto il Medio Oriente. La prospettiva di un possibile riavvicinamento politico tra i due Paesi prendeva slancio da interessi economici mutuamente sostenibili. Un tavolo di discussione a tre dimensioni. Da un lato il commercio, dall’altro le questioni energetiche e nell’ultimo quelle più propriamente politiche. Dal punto di vista commerciale l’accordo non ha incontrato particolari intoppi. In pratica si è trovata una corsia preferenziale per la riduzione delle tariffe doganali negli scambi di merci tra i due Paesi (risorse energetiche e transizioni bancarie). Spinose rimanevano però le posizioni della bilaterale sulla questione siriana. In tal senso gli accordi di gennaio risultavano forieri di buoni presagi per ciò che concerneva la rimodulazione degli equilibri geopolitici dell’area mediorientale tra Ankara e Teheran. La prima spinta verso il Mediterraneo, la seconda nel Medio Oriente continentale. È bene rimarcare un altro passo di riavvicinamento tra i due governi.

Lo scorso giugno, infatti, il Presidente iraniano Hassan Rouhani è stato protagonista di una visita in Turchia. Una delegazione di alto livello composta da oltre cento delegati è atterrata ad Ankara dopo 18 anni dall’ultima visita di un rappresentante di vertice iraniano in suolo turco. All’ordine del giorno ancora gli scambi commerciali, le politiche energetiche e la persistente crisi siriana. Una bilaterale che in un’ottica prettamente realista cerca punti d’incontro per garantire una minima fiducia reciproca per affrontare questioni più spinose e bisognose di cooperazione.  Nella seconda metà di settembre, infatti, il nuovo Ministro dell’Economia turco Nihat Zeybekci, in un’intervista rilasciata alla radio iraniana IRNA ha sottolineato che l’espansione delle relazioni economiche con Teheran rappresenta a tutt’oggi una priorità per il governo di Ankara, visto che un accordo di cooperazione tra i due Paesi ne aumenterebbe il comune interscambio. L’obiettivo è raggiungere i 30 miliardi dollari. Le aziende maggiormente coinvolte ricomprendono quelle turche impiegate nel settore edilizio. Pietra angolare dell’incontro è considerata la decisione turca di eliminare le sanzioni economiche gravanti sulla Repubblica Islamica. Un passo importante, metro di una buona volontà negoziale dettata da interessi contingenti. Le sanzioni imposte dall’evoluzione peripatetica della questione nucleare iraniana avevano giocoforza impedito uno sviluppo lineare dell’interscambio commerciale tra le due economie che per vicinanza e forza propulsiva sembrano risultare complementari in molti settori.

Dal punto di vista energetico, molto si è discusso del prezzo del greggio d’importazione iraniana. La questione è delicata. Tornando alla metafora del triangolo pare corretto affermare che sia stato il lato più ruvido e che maggiormente ha impegnato Erdoğan e Rouhani in una serrata discussione. In buona sostanza Ankara dal 2012 lamentava una differenza di trattamento nel prezzo delle importazioni provenienti dall’Iran rispetto a quelle da Azerbaijan e Russia. In particolare il maggior nodo risiedeva nell’allontanare la possibilità di procedere con un arbitrato internazionale avanzato da Ankara alla Corte Internazionale di Arbitrato e che avrebbe aperto una controversia internazionale di difficile ricomposizione. La questione non è stata risolta ma entrambi gli interlocutori sono giunti alla conclusione che la via di negoziati diretti sia preferibile a quella che coinvolge un terzo giudicante.
La Turchia importa attualmente già 10 miliardi di metri cubi all’anno di gas naturale dall’Iran ed in caso di esito positivo della questione le forniture potrebbero raddoppiare. Non è mistero che Rouhani miri a sottrarre il Paese dal giogo delle sanzioni al fine di migliorare la bilancia commerciale con un incremento delle esportazioni energetiche.  Per la Turchia, invece, la partnership con Teheran sarebbe un tassello ulteriore del progetto di diversificare l’approvvigionamento interno e continuare nel perseguimento dell’obiettivo di lungo periodo di trasformare il Paese in un hub per le risorse energetiche che dal Medio Oriente confluiscono verso l’Occidente.

L’Iran invece potrebbe trarre vantaggio dalla questione ucraina per sostituirsi o affiancare la Russia come fornitore di gas al mercato europeo. Un’impressione rafforzata dalle dichiarazioni del Ministro del Petrolio iraniano, Ali Majedi, che ha annunciato che la Repubblica Islamica dell’Iran sarebbe pronta ad assicurare le forniture di gas ai Paesi dell’UE. L’11 agosto Majedi dichiara: «nel momento in cui l’Europa cerca di diversificare le forniture di idrocarburi, l’Iran, che possiede risorse di gas tra le più ricche del mondo, potrebbe fornire del gas all’Ue attraverso il gasdotto Nabucco». Il Nabucco diventerebbe fondamentale e la normalizzazione dei rapporti con la Turchia prioritario. Lo stesso Majedi infatti aggiunge: «esistono diversi itinerari, quali quelli che passano per la Turchia, la Siria, il Caucaso ed il Mar Nero. L’itinerario turco è di gran lunga il migliore».
Le potenzialità quindi di un Iran di nuovo protagonista al tavolo della finanza internazionale sono potenzialmente enormi. Muoversi per primi nel Paese condividendo con questo un mutuo vantaggio è per la Turchia segno di lungimiranza e di una profondità strategica che darebbe al Paese un vantaggio comparato rispetto a eventuali futuri competitors.

In tal senso la nuova West-detente iraniana si è particolarmente giovata del riconoscimento da parte della Turchia del diritto allo sviluppo del proprio controverso programma nucleare a fini pacifici. Il 24 novembre 2013 è la data del raggiungimento dell’accordo ad interim di Ginevra, ufficialmente intitolato piano d’azione comune e primo accordo formale tra Stati Uniti ed Iran in 34 anni. L’attuazione dell’accordo tra Iran e i Paesi P5+1 a Ginevra, inizia formalmente il 20 gennaio 2014 con una prima deadline segnata al 20 luglio 2014. L’accordo interinale di Ginevra è in vigore da un anno, alla data della firma, mentre un nuovo accordo dovrebbe vedere la luce prima della fine di Novembre. Al momento però persistono grandi divergenze. Giorni intensi anche su questo versante che rischiano di avere un effetto a catena su tutta l’area.

I nodi da sciogliere La questione siriana, il problema kurdo e lo Stato Islamico (IS). In relazione alla Siria prima e all’IS poi, Turchia e Iran si ritrovano invece a sostenere ruoli diversi. Erdoğan, pur avendo abbassato i toni negli ultimi mesi, alla luce dell’evidente fallimento della propria politica siriana, era e rimane uno dei più convinti sostenitori dell’opposizione che si batte contro Bashar al-Assad. L’Iran, al contrario, è il principale alleato del regime siriano. Le divergenze riguardano anche l’Iraq. L’AKP [1], come l’Iran, desidera che l’Iraq mantenga la propria integrità territoriale, anche perché l’eventuale indipendenza del Kurdistan iracheno potrebbe avere conseguenze destabilizzanti sulla stessa Turchia, vista la considerevole e minoranza curda che vive entro i propri confini e il fatto che il processo di pace in corso da ormai due anni sembra ora avviarsi su un binario morto. In tutto questo quadro già di per se allarmante rientra l’ascesa dell’IS. Lo Stato Islamico può alterare le dinamiche regionali e spingere forze rivali a collaborare. La violenza e le dinamiche settarie sia in Siria che in Iraq, insieme alla morfologia del territorio e ai facili collegamenti transfrontalieri, hanno fatto sì che l’IS divenisse una minaccia crescente per la sicurezza regionale. Probabilmente, Bashar al-Assad ha contribuito a rafforzarne il fenomeno. In primo luogo, la repressione brutale contro i civili siriani ha permesso all’IS di giocare su un impianto propagandistico ben oleato ed in linea con i moderni tempi della comunicazione per attirare combattenti dall’estero e il sostegno finanziario degli esuli. In secondo luogo, fino a poco tempo la strategia militare di al-Assad era orientata a confrontarsi contro l’opposizione sunnita ma senza entrare in scontro diretto contro IS. Corollario di tale scelta strategica è il fatto che proprio la minaccia del Califfato avrebbe costretto gli oppositori del regime a rivalutare le proprie posizioni. Allo stesso modo, le politiche settarie dell’ex Premier iracheno al-Maliki hanno dato ossigeno a questo gruppo e, indirettamente affidato ai curdi un ruolo regionale indispensabile.

Le moderne relazioni internazionali sono segnate da un intreccio tra vari dossier che non possono essere sottovalutati né trattati con sfasamenti temporali.

La questione curda Altri problemi per il neo designato Premier Davutoğlu arrivano dai curdi. I ribelli curdi hanno espresso dubbi sull’opportunità di continuare a rispettare la tregua con le autorità turche, accusando il governo di Ankara di aver avviato una guerra contro la minoranza, con le sue scelte di fronte all’avanzata dell’IS in Siria. Il consiglio esecutivo del PKK in una nota ha posto chiaro il proprio intendimento «di intensificare la lotta in ogni campo e con ogni mezzo per rispondere alla guerra avviata dall’AKP contro il nostro popolo». La nota accusa il governo dell’AKP di approfittare degli sforzi di pace del leader del PKK Abdullah Öcalan, affermando che la tregua in vigore da marzo 2013 è ora “priva di senso”. A ciò si aggiunge che sono oltre 1 milione i rifugiati confluiti dalla Siria sul territorio turco. Il massiccio esodo delle ultime settimane di settembre ha spinto l’UNHCR ad organizzare un ponte aereo come parte di una vasta operazione per portare aiuto in Turchia per l’ondata di profughi in fuga dal nord della Siria. È bene ricordare che la Turchia si è dimostrata un membro affidabile per la comunità internazionale nella gestione dell’afflusso dei profughi. Il grande peso umanitario sulle sue frontiere ha però imposto al governo di Ankara di investire nel 2013 più di un miliardo di dollari per spese umanitarie, sottraendo risorse agli investimenti e rallentandone dunque le ambizioni di crescita su scala regionale. Secondo un punto di vista incline alla realpolitik è bene ricordare che Erdoğan teme che il fiume di rifugiati verso il Kurdistan turco faccia da cerniera tra curdi siriani e turchi, proiettando il pericolo di una futura scissione indipendentista nel territorio.

Il governo turco ha in un primo momento rifiutato agli USA l’uso delle basi per i raid anti-IS, dichiarando di essere pronto ad accogliere altre migliaia di profughi; contestualmente però il 22 settembre autorevoli media internazionali hanno dato informazioni riguardanti la chiusura della frontiera di sei degli otto punti aperti vicino a Kobane in seguito a scontri esplosi tra le forze turche e dimostranti curdi e per bloccare il flusso di combattenti verso la Siria, segnale di un atteggiamento attendista o quantomeno prudente. Risalta il timore turco per una sorta di snowball effect della questione siriana. In poche parole, i combattimenti in corso si svolgono troppo vicini al confine turco. La Turchia teme che senza una strategia a lungo termine le forza alleate siano incapaci di gestire sia la fase operativa che i possibili futuri scenari. Nondimeno, eventuali prevedibili vuoti di potere, potrebbero riflettersi sugli equilibri confessionali, generando fasi cicliche di radicalizzazione e instabilità che la Turchia teme di dover fronteggiare in solitudine. Più in particolare il timore è che il PKK possa uscire più forte e sicuro dalla lotta contro l’IS. Tra le sue file, secondo autorevoli stime, combattono centinaia di jihadisti turchi e parte del greggio siriano transita in Turchia per essere venduto, fornendo una notevole forza di finanziamento al Califfato.

Nei giorni scorsi Öcalan ha fatto sentire la sua voce con un comunicato in cui esprime impazienza nel conoscere la posizione dell’AKP nel processo di pace e non tralasciando invettive contro il governo di Ankara, reo a suo dire, di essere più disposto a negoziare con l’IS che con i curdi. Il riferimento ai 49 ostaggi turchi rilasciati dall’IS attraverso l’attivazione di canali diplomatici appare evidente. La chiusura del processo di pace con i curdi – acclamato da vari leader militari del PKK – vanificherebbe non solo un percorso ormai biennale che sembrava avviato, secondo molti analisti, a buoni risultati ma creerebbe un pericoloso vulnus nell’azione esterna del neo Presidente Erdoğan.

La strategia turca contro l’IS – La strategia turca è nondimeno rischiosa. Nel suo discorso presso il Council on Foreign Relations di New York il Presidente Recep Tayyip Erdoğan ha attirato a sé l’attenzione con queste parole: «Quando diciamo la parola “operazione”, la gente pensa alle (…) bombe; ma un’operazione non è solo questo. Le operazioni sono politiche e diplomatiche. E coinvolgono discussioni, i tanti contatti». Le osservazioni di Erdoğan rinforzano l’ipotesi di uno scambio di ostaggi con l’IS. Da notare come il termine “diplomazia” sia normalmente associato ad un negoziato per la liberazione di ostaggi in mano ad uno non-state actor dato che l’IS è formalmente definito un gruppo terroristico. Con “diplomazia” si presupporrebbe un riconoscimento seppur tacito dell’IS a livello politico che minerebbe la linea ferrea tenuta dall’Occidente sulla questione e alla quale l’Iran pare essersi perfettamente allineato. Dal punto di vista turco, dunque, l’unico modo per combattere l’IS è quello di sostenere i jihadisti sunniti moderati recuperando il corpo politico sunnita, ora isolato, nel processo politico presente e/o futuro in Siria e in Iraq.

La Turchia avverte inoltre che qualsiasi intervento militare contro il blocco sunnita da forze esterne di curdi, milizie sciite o occidentali non può che radicalizzare i sunniti spingendoli nelle mani di IS. La linea di demarcazione tra interessi turchi e occidentali passa sempre per Damasco. Dall’inizio della crisi in Siria, la Turchia è stata irremovibile nel suo intento di regime change, premendo per la creazione di una zona cuscinetto in Siria, sotto forma di una zona cuscinetto che aiutasse a gestire l’afflusso di rifugiati. Entrambe queste richieste sono obiettivi strategici per Ankara, mentre per l’attuale coalizione guidata dagli Stati Uniti, ipotesi irrealizzabili. Quanto detto ben misura da un lato il peso delle difficoltà di recuperare Ankara ad uno sguardo d’insieme con la coalizione dell’Occidente e dall’altro un atteggiamento quanto meno ambiguo tenuto dal governo turco.

L’Iran e l’IS – D’altro canto, l’Iran si è de facto dimostrato disponibile a collaborare con l’Occidente contro l’IS. Molti media sono stati solerti a chiosare gli ultimi sviluppi dei rapporti diplomatici con la definizione di un Iran nuovo alleato dell’Occidente. Se è indubbio un tentativo di accomodamento e riavvicinamento di Teheran con l’Arabia Saudita, le operazioni congiunte condotte sul campo con l’Occidente sia in Siria che in Iraq dalle forza filo-iraniane sono state organizzate da contatti a livello di intelligence. Una circostanza lontana dal poter essere definita alleanza.

Ad ogni modo il discorso di Hassan Rouhani alle Nazioni Unite sublima la svolta interventista della Repubblica islamica in Medio Oriente. Una svolta che non ha perso il leitmotiv rivoluzionario e in cui non sono mancate le asprezze. Il problema sono le sanzioni. È bene ricordare infatti che l’Iran sta sperimentando un sostenuto momento d’inflazione dei prezzi dei beni di prima necessità, sta corrodendo il potere di acquisto della moneta. Nel medio periodo la tenuta stessa del regime potrebbe essere minata. Il buon esito del dossier nucleare è quindi prioritario per il Paese ed un alleviamento delle sanzioni indispensabile. L’effetto a breve termine di un risultato positivo delle negoziazioni potrebbe dare una grande spinta psicologica per i principali attori economici iraniani. L’impulso per l’economia consoliderebbe un percorso di crescita che si stima possa attestarsi intorno al 5% nel 2015, producendo una conseguente spinta per le importazioni di merci e servizi occidentali, soprattutto per colmare le lacune generate dal regime sanzionatorio. Nel medio termine (da tre a cinque anni), l’Iran potrebbe gradualmente spostarsi verso l’importazione di materie prime e prodotti intermedi che incrementino la sua produzione interna monetizzando dall’interscambio di risorse energetiche. Allo stesso tempo, la crescita dell’industria nazionale iraniana potrebbe attivare un circolo virtuoso di crescita basata sulle esportazioni con un tasso annuo del 6-7%.

Da un punto di vista del quadro politico regionale l’Iran pare abbia attraversato e superato un momento di ripiegamento. L’IS è certamente un nemico: ha preso di mira le popolazioni sciite nel nord dell’Iraq, messo in serio pericolo il governo stesso a Baghdad forzando alle dimissioni il loro uomo più fidato, Nouri al-Maliki. In Siria poi, gli uomini del Califfato hanno combattuto duramente contro al-Assad, uccidendo sul campo anche molti iraniani arruolati nelle file dell’esercito lealista.

Conclusioni – Un’analisi corretta dell’attuale posizione e stato di sviluppo dei rapporti bilaterali tra Turchia e Iran non può che riservarsi un angolo di visuale attendista. Una mutua diffidenza di fondo e strategie contrastanti verso obiettivi condivisibili però potrebbe creare più di un’incomprensione e minare la tenuta della rete commerciale che ad oggi parrebbe essere mutualmente benefica. Risulta altresì particolare che nel momento forse peggiore per le relazioni turco-statunitensi (Siria, finanziamento IS, etc.) si assiste forse al momento migliore per le relazioni tra Teheran e Washington. Certo la situazione dei due Paesi è all’opposto. I contorni della contingenza attuale risentono della magmatica evoluzione dei rapporti nell’aerea mediorientale e molte questioni si aprono. Da un lato la Turchia potrebbe aver abbandonato la strategia dello zero problems with neighbours convogliando verso una posizione più attendista che ricerchi nuove partner di pace e per la pace in un’ottica di breve periodo.

Nel lungo periodo, invece, un Iran fuori dall’isolamento aprirebbe per la Turchia un gioco competitivo per accaparrarsi investimenti diretti esteri da parte delle imprese multinazionali. Questo è il maggior collo di bottiglia che potrebbe intervenire nei rapporti economici tra i due Paesi. In tale dinamica il vantaggio che l’Iran potrebbe vantare è la sua diaspora, che aspetta un ambiente privo di sanzioni per ritornare ad investire. Va notato che un tal sviluppo della situazione è in linea con la Resistence Economy, progetto della Repubblica islamica per lo sviluppo economico del presente e futuro. Un tale scenario potrebbe trovare però oppositori sia tra le Guardie della rivoluzione che all’esterno. Il 17 settembre il comandante della Guardia Rivoluzionaria, Mohammad Ali Jafari, ha dichiarato, «Al momento, c’è una buona cooperazione e interazione con il governo».

E’ importante notare infine che attraverso un accomodamento spaziale Turchia e Iran potrebbero nel breve futuro trovare più occasioni di cooperazione che conflitto (flussi energetici, import/export di beni e servizi). L’ottica di perseguire una crescita sostenuta delle rispettive economie presuppone però un Medio Oriente pacificato o comunque stabilizzato e ciò non può che intrecciare i destini dei due più grandi player regionali nel bene e nel male.

Francesco Minici è Dottore in Relazioni Internazionali (Università per stranieri di Perugia)

[1] Il Partito per la giustizia e lo sviluppo (in turco Adalet ve Kalkınma Partisi) è il partito islamico-conservatore che conserva la maggioranza in Turchia dal 2001.

[2] Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Partîya Karkerén Kurdîstan); in turco: Kürdistan İşçi Partisi) è un movimento politico clandestino armato, sostenuto dalle masse popolari stanziate nei territori del sudest della Turchia, popolata dall’etnia curda.

[3] Il partito curdo è ancora considerato un’organizzazione terroristica da parte del governo turco. Erdoğan ha tracciato delle somiglianze tra PKK e IS. Si consulti: http://www.hurriyet.com.tr/gundem/27291625.asp.

Photo credit: MKA/HSN/HMV

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