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Tutte le cose sono fotografabili.

Da Borful

Tutte le cose sono fotografabili.

©1967 Jonathan Brand - Garry Winogrand at work.

Questo post è per l'amico Daniele di Poliradio. Lui "parla e suona" fotografie alla radio. Le parla e le suona con le voci di chi le fa e di chi le guarda. Stavolta mi chiede di parlargli di qualcosa che non esiste: la Street Photography. Lo faccio volentieri perché proprio l'altro giorno ne ho parlato con Garry Winogrand in un seminario. Lui è tornato un momento con noi per dirci che son tutte balle quelle che han scritto su di lui dagli anni Novanta in poi.
Quando scendeva per le strade di New York negli anni Sessanta a fotografare le donne che gli piacevano, i tipi da film che circolavano, gli anonimi e i famosi, le scimmie, i neri, le foche, le auto decapottabili, i tizi dei circhi, i tizi della politica, le vetrine dei negozi, e qualsiasi altro fenomeno che accendesse la compulsione ossessiva di cui era portatore sano, a tutto pensava, meno che all'idea bislacca di star facendo lo street photographer.
 Faceva il photographer, e che photographer, mica come il ph che mettono sui loro siti i fotografanti italici vogliosi di farsi belli nel paese dove quasi nessuno parla inglese, ma tutti restano a bocca aperta appena ne incontrano qualche vocabolo, acronimo, definizione. Anzi se vuoi fregare qualcuno qui da noi diglielo in inglese, sentirà di meno il dolore di ciò che gli stai facendo da dietro. Qualcuno persino ci godrà.
Winogrand scrive che "tutte le cose sono fotografabili", mica solo quelle di un genere o in un posto. Mica solo giocando con le fotocamerine digitali finto antiche che van di moda oggi, disturbando il prossimo con un ego narciso, aggressivo e smisurato. Winogrand non è grande perché aveva la Leica M4 o perché usava il 28mm o ancora perché camminava per New York. Winogrand è grande perché a New York, negli anni Sessanta, in mezzo al flusso di quella che all'epoca era l'unica vera capitale culturale e artistica del mondo, come prima lo fu la Parigi dell'Ottocento, riusciva a scovare l'autenticità e a trattenerne traccia sul negativo.
 L'autenticità, non la verità o il cliché modaiolo o quello che i guru assoldati dall'ufficio marketing di qualche produttore di fotocamere dicono che si debba fare (decaloghi, tecniche, sermoni, tutto purché si comperi l'ultimo modello che sta per uscire proprio domani). L'autenticità esiste, non è un genere di comodo e non appartiene nemmeno al fotografo che la prende dove la trova. La trova e poi non la trova più. Inutile cercare ancora nei soliti posti perché ormai è altrove. L'autenticità è un fenomeno storico, contingente, a termine in un dato manifestarsi perché trasmigra in uno nuovo. Quello nuovo interessa trovare. Fare oggi l'imitazione di Garry e dei suoi simili equivale a dipingere quadri impressionisti o costruire cattedrali neogotiche. Falsi inutili, anzi no, utili a chi deve passare il tempo sentendosi apprezzato da un circolo di qualche tipo, dalla bocciofila al social network. Utile poi a chi vende ferramenta che in qualche modo dev'essere pur usata facilmente, consumata rapidamente e ricomperata migliore di prima. Una ruota che gira dove ognuno prende i suoi, ma che con l'autenticità, la vita e l'arte nulla ha a che fare.
Ho finito Daniele. Scusa la lunghezza. Ti saluto con affetto e resto in ascolto delle tue prossime fotografie parlanti e suonanti.
Post Scriptum.
Le mie parole suonano insieme a Francesco De Gregori (4 cani per strada) e Bruce Springsteen (Streets of Philadelphia).


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