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Tutti dovremmo saper ballare

Da Robertodragone

Da circa un anno sto scrivendo un racconto. L’idea mi venne l’estate del 2011, quando, passeggiando con amici, mi ritrovai in una festa di paese di una cittadina di montagna, una di quelle abitate per lo più da vecchietti che hanno la loro sedia personale nel bar di fiducia. Decidemmo di fermarci per qualche minuto a quella festicciola, che in realtà aveva un’aria molto ordinata, come se ogni movimento fosse già stato prestabilito. C’era un’atmosfera quasi irreale, così, non ricordo precisamente in che modo, chiesi spiegazioni a quell’amica che, nel gruppo, abitava in quella cittadina. Lei mi disse che d’estate c’era una festa ogni sera in quel parco. Semplicemente le persone si ritrovavano in strada piuttosto che restare in casa. Quelle parole mi scatenarono decine di pensieri, ma ricordo che mentre lei mi parlava, e gli altri miei amici giocavano a farsi belli davanti alle ragazze, io mi inoltrai nel parco per osservare tutto da vicino.

Mi ritornò l’impressione che fosse tutto già prestabilito, come se ogni persona seguisse un copione e tutto fosse uno spettacolo. La festa era organizzata in modo che un cerchio di sedie circondassero diverse file di ballerini che danzavano al ritmo di canzoni vecchie quanto mio nonno. Ciò che mi colpì fu le espressioni delle persone sedute, poiché erano completamente immobili. Nessuno parlava con il vicino o canticchiava le parole di quelle canzoni che anche io sapevo, nonostante non le avessi mai ascoltate, veramente, in vita mia. Mi sembrava di stare a un teatro, e qui nacque l’idea per il racconto. Guardando bene la scena notai che i vecchietti che ballavano (perché erano tutte persone anziane) erano sgraziati e impacciati nel seguire i movimenti che una giovane ballerina, che aveva l’aria di essere stanca di sorridere per finta, mostrava a tutti loro, ma nonostante questo sembravano sereni. Così, chissà perché, poi, mi venne in mente il fatto che molto probabilmente molti tra i vecchietti seduti desideravano ballare, cioè volevano alzarsi e lasciarsi andare. Ma c’era qualcosa che li fermava, pensai al fatto che avevano vergogna, che alzarsi e ballare significava abbattere quei pensieri che non lasciano fare alle persone quel che vogliono fare, perché hanno timore (o chissà cosa) del giudizio altrui. In quel determinato contesto, vidi una vera e propria metafora della vita, che mi scatenò l’idea per il racconto. Al centro del cerchio c’era chi si lasciava andare, chi viveva a dispetto del giudizio altrui, rappresentato dal cerchio di persone che osservava i ballerini, che però non giudicava perché stavano tutti zitti; poi c’era il cerchio di osservatori, vecchietti che passavano intere settimane a guardare chi viveva senza avere il coraggio di alzarsi e ballare.

Non sono un ballerino, anzi, non ho un ottimo controllo del mio corpo e non posso camminare senza inciampare, far cadere qualcosa oppure chissà cos’altro, quindi alle feste ho sempre evitato di ballare, a meno che non mi trovassi in una situazione intima, con amici che mi hanno visto fare cose ben più imbarazzanti che tentare di dare movimenti sinuosi al mio corpo (no comment). Quella sera, però, in me si scatenò qualcosa. Volli silenziosamente dimostrare a tutti i presenti che avevano il culo a diretto contatto con una sedia, che la differenza tra vivere e non vivere erano soltanto dieci passi. Mi mossi diretto verso il centro delle file di vecchietti ballerini, e iniziai a seguire la donna svampita che cercava di ideare movimenti al ritmo di musica che non fossero rischiosi per i fragili bacini dei ballerini. Mi raggiunse un amico, mentre il resto della comitiva preferì restare in disparte e guardarci.

Scrivo quel racconto da poco più di un anno, senza mai riuscire a trovare l’ispirazione per continuarlo. Iniziai a scriverlo a mano quella sera stessa, sull’autobus di ritorno a casa. Da qualche parte nei miei cassetti c’è un quaderno con su tutti gli appunti riguardo quella festa surreale, con un piccolo disegno che riprende tutta la scena dall’alto: il cerchio di sedie, i vecchietti immobili (perché è un disegno, certo, ma non che i vecchietti in carne e ossa fossero molto diversi) e la ballerina svampita dal sorriso spento.

Tengo molto a questo racconto perché narra la storia della mia vita. Sono sempre stato un ragazzo contenuto nei movimenti e nelle parole, ostacolato dai suoi pensieri che gli condizionano le scelte. Mi son sempre sentito un osservatore, forse proprio per questo mi sono interessato alla scrittura o alla fotografia. Questo mi ha sempre reso infelice, me ne rendo conto soltanto ora. Quando avevo quindici anni erano tempi differenti, così con quella che era la mia comitiva andavo a passeggio nel paese accanto al mio, era quella l’uscita del sabato sera. Sulla strada c’era un piccolo parco giochi, così noi ci fermavamo nell’orario di apertura, quando era ancora vuoto. Tutti i miei amici si toglievano le scarpe e iniziavano a saltellare sui tappeti elastici, per circa mezz’ora tornavano bambini e si lasciavano andare. Io ero quello che nel frattempo teneva i loro portafogli, i cellulari e le monete. Come disse non ricordo chi in quale telefilm, “Anche quando so quali scelte voglio, non le prendo mai”. Io sono sempre stato così, e di questo me ne pento, anche se sono così tuttora. Perché lo sappiamo tutti, e molti di noi forse ne sono vittime: la paura ci fotte la testa. Il fatto è che non so neanche di cosa ho paura esattamente. Credo di essere così, caratterialmente, e basta. E ammetterlo è una sconfitta, perché è come arrendersi all’idea di restare rinchiuso a vita in un guscio che, attraverso uno spioncino, mi permette di vedere gli altri che vivono, che si lasciano andare, mentre io peso ogni singolo passo. Non mi sono mai lasciato del tutto andare, e anche se mi pesa molto, so che sono troppo esigente nei miei confronti perché in realtà si comporta così gran parte delle persone che conosco. Per molti è normalissimo andare a una festa e non ballare, per passare la serata seduti in disparte. Hanno passato la vita ad andare a feste senza mai ballare, senza mai divertirsi. A loro non pesa essere così, anzi, mostrare una persona che non si è significa, per loro, essere sinceri. Reprimono così tanto ciò che sono che, anche se ripudiamo le bugie pubblicamente, finiscono per diventare qualcuno che non sono. Ma la maggior parte ritiene normale non lasciarsi mai andare, essere qualcuno nella nostra testa ma proiettare all’esterno un carattere totalmente differente. Reprimersi. Ciò non è ritenuto ‘mentire’, anche se lo è. Però lo fanno tutti, perché tutti reprimono qualcosa di se stessi, quindi se è la massa a compiere un errore, quello smette automaticamente di diventare un errore.

Ho passato la mia vita a misurare ogni più piccola azione. Ho fatto pazzie, ma erano tutte calcolate, e non le facevo perché mi lasciavo andare. Vorrei perdere il controllo di me, anche se sono ossessionato nell’averlo, sempre. Anche l’estate scorsa, quando mi sono messo a ballare in una festa di paese, l’ho fatto perché nella mia testa avevo fatto un disegno assurdo che mi vedeva vivere qualora avessi ballato in quel cerchio di sedie. E per una volta soltanto volevo vivere, lasciare che la ballerina svampita e il ritmo della musica guidasse il mio corpo come se fossi una marionetta. Così vorrei fare anche nella vita di tutti i giorni, arrivare al punto di fregarmene e ballare come tronco per tutto il tempo che voglio.


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