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Tutti giu' per terra

Da Miwako
L'altra notte ho fatto tardi.
Tardissimo, per la verità.
Albeggiava al mio rientro.
Stando al momento in cui le danze sono finite e i saluti da film in bianco e nero sono stati eseguiti (ovvero frettolosi, sotto la pioggia e davanti ad un taxi), avrei potuto essere a casa per le 3.
E' che poi io mi conosco, lo so come divento in quelle notti in cui mi prude il cuore.
Non dormirei mai.
Leggerei fino a che non mi si annebbia la vista.
Parlerei con le persone fino a che non mi finisce la voce.
Camminerei fino a sentire i tendini che s'infiammano e i piedi che dolgono.
E poi c'è questa pioggia, sant'iddio, questa pioggia perfetta nonostante questo maggio ingiusto che sembra non voler svernare.
E' una pioggia bella, di quelle che ti tengono sveglio, con le orecchie in tiro ad ascoltare ogni goccia che cade, di quelle che rendono le strade languide e nere come capelli orientali, di quelle che andarsene a casa, andarsene a dormire, sembra un sacrilegio.
Allora mi siedo, sopra uno scalino, sotto una tenda, per non bagnarmi e sentire ancora più freddo. Mi siedo e inizio a leggere, con le ginocchia raccolte, il cappotto umido e il berretto cacciato in testa. Leggo per quasi un'ora, fino a che mi si avvicina un ragazzo chiedendomi una sigaretta.
Si siede di fianco a me, e osserviamo lo strascico di questo sabato notte passarci davanti con un drink in mano, con le risate abbracciate di quelli alticci, con un paio di tacchi troppo rumorosi, o con le risate abbracciate di quelli alticci o le urla di quelli che corrono per raggiungere un taxi senza bagnarsi troppo.
Passa un po' di tempo prima che iniziamo a parlarci.
Io guardo le persone, i gesti, i visi deturpati di chi ha bevuto troppo, quei due che si baciano all'angolo della strada, quei quattro che camminano incuranti della pioggia, ridendo sguaiatamente nei loro impermeabili aperti.
E penso che vorrei non sentire il freddo, togliermi tutto e camminare sotto la pioggia; penso che mi sento come se potessi parare i fulmini con le mani, infilare un dito nell'asfalto lucido come lo infilerei nell'acqua, correre scalza e sentire quel poco di dolore che rimane piacere fino a che non incontri un sasso,accarezzare il viso delle persone senza essere percepita, passare come il vento, le stagioni, le cose belle e quelle brutte.
Il ragazzo mi parla, inizia a farmi domande, a raccontarmi della sua vita, di come ha trovato sè stesso in mezzo ad un groviglio di cavi elettrici, troppi computer e le note di un pianoforte.
Ha 31 anni, gli occhi come due scintille di mare, azzurri e luminosissimi. La barba incolta, bionda, e un sorriso che parla da solo. Fa il musicoterapeuta. Anzi, è un musicoterapeuta. Lavora con gli anziani malati di alzheimer, i bambini affetti da autismo e/o ritardi mentali. A volte è la musica a funzionare; a volte i movimenti di un corpo in relazione ad un oggetto e ad uno spazio; a volte i rumori; altre volte i silenzi.
Gli chiedo se non gli si spacca il cuore un po' ogni giorno con il lavoro che fa.
Lui risponde che è dura, ma il momento in cui si stabilisce una qualunque connessione con uno dei pazienti è unn momento magico, irripetibile, che vale tutto il dolore che c'è stato prima e ci sarà dopo.
Io sorrido, annuisco, gli occhi lucidi come la strada.
Poi arriva un altro ragazzo; i suoi, di occhi, sono due crateri scuri colmi di preoccupazione. E' intatta la sua crisalide, il suo corpo, ma si vede che da qualche parte è rotto come un calzino consunto. Da un anno è senza lavoro, vive alla giornata. Per fortuna con la disoccupazizone che percepisce riesce a pagarsi un affitto, ma non è molto e a fine mese ci arriva a stento. Ci racconta che la sua vita è un disastro, al momento. Il lavoro, l'amore, le amicizie, niente che vada per il verso giusto. Si sente abbandonato, tradito, e forse lo è.
Parliamo fino alle sei del mattino, su quello scalino scomodo, con la pioggia che scende e noi, tre sconosciuti, seduti l'uno di fianco all'altro.
Ci salutiamo, pronti a prendere tre direzioni diverse, con un abbraccio sincero, che per un attimo non si sente più il freddo nè la pioggia.
Prendo un taxi e scivolo verso casa, fendendo le gocce in caduta libera fuori dall'abitacolo, osservando i cartelloni pubblicitari con ragazze in costume, famiglie sorridenti che parlano al telefono, sacchetti strabordanti di verdura fatta al computer.
Penso a quanto siamo brevi.
Metto una coperta in più per cercare di scacciare quel gelo che si è infiltrato fin nelle ossa.
Penso a quanto siamo brevi.
Fino a che non mi addormento esausta.

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