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Tutto l’amore che abbiamo potuto. Sul nuovo libro di E. Tonon, di Andrea Sartori

Creato il 19 ottobre 2011 da Fabry2010

Pubblicato da Andrea Sartori su ottobre 19, 2011

Tutto l’amore che abbiamo potuto. Sul nuovo libro di E. Tonon, di Andrea Sartori
Con La luce prima (Isbn Edizioni, Milano 2011), Emanuele Tonon completa il suo personale ciclo trinitario iniziato con le due parti di cui si componeva il romanzo eretico dell’esordio, Il nemico (Isbn Edizioni, Milano 2009). Se quest’ultimo era dedicato alla teologia concreta – operaia e furiosa – del Padre e del Figlio, il nuovo libro è incentrato sul ricordo della madre, Vincenza, trasfigurata dall’elaborazione del lutto in uno Spirito Santo, che non si propaga nel mondo per il tramite fattivo della Chiesa di Pietro, ma per quello biologico di un’esile figura mariana, i cui organi espiantati – dilapidati – danno nuova vita ad altri sconosciuti.
Il romanzo di Tonon è un canto sofferto alla madre scomparsa, una verbigerazione che ripercorre gli istanti della morte di Enza e insieme le circostanze della venuta al mondo di Tonon stesso, allacciando circolarmente inizio e fine, destino e origine. In tal modo l’autore riesce a scrivere – e a ripetere ossessivamente – quell’amore che egli non era stato in grado di pronunciare allorché la madre era in vita. Nel distacco, nell’assenza violenta, emergono il non-detto, la prossimità negata degli affetti e la delicatezza sottaciuta: per timidezza, pudore, imbarazzo. Tonon deve alla madre l’essere entrato nel mondo con una «fame verticale, di cose ultime», e forse è anche per questo che esordio e conclusione dell’esistenza s’inseguono incessantemente nelle pagine del suo personale diario della fine e dell’auspicato ritorno alla Gioia della luce. Non a caso, in ospedale, al capezzale della moribonda, Tonon è l’attore d’una «farsa gloriosa, come solo i bambini e i preti sanno fare», allorché ognuno è bardato «nella recita finale» d’un ridicolo grembiule verde monouso, dotato di copriscarpe: un po’ gioco infantile, un po’ morte.
Tra i motivi che hanno sbarrato all’autore l’espressione dell’affettività nei confronti della madre, v’è il suo stesso essere uomo di lettere, somministratore di quel farmaco ambivalente – la scrittura – che ex post si prefigge la redenzione dal dolore, ma che, quando la storia accade, distoglie lo sguardo dal presente, dal qui e ora, e si rinserra nel proprio riserbo a produrre parole. Sfuggitagli per anni la possibilità d’essere un interlocutore attento, capace di gesti e attenzioni, l’io narrante – identico senza residui all’autore – si fa carico ora del compito più arduo, reso inane dalla vanità della scrittura, che proprio la madre gli ha insegnato – con semplici e nudi sguardi – a ritenere tale: «Io ho bisogno di fare memoria di te, di renderti la vita che mi hai dato, almeno così». È allora un dilagare di ricordi famigliari e di ricostruzioni della giovinezza della madre, ma anche di memorie dei giorni finali – il piccolo pigiama che Enza vestiva prima di morire, ancora ripiegato dove lei l’ha lasciato. In tutto ciò, Dio è il suggello a un tempo terminale, l’esserci di un nulla siderale e lontano: «Un Dio che non salva è inutile». E ancora: «Il tempo è finito, il tempo non conosce redenzione». La morte ricorda pertanto lo scandalo dell’impossibile resurrectio carnis e rende ancora più sola la solitudine del «figlio sbagliato», il quale per errore è venuto al mondo, e con difficoltà vi si adatta.
Enza, d’altra parte, non si è «mai fatta fregare dalle seduzioni del mondo, dalle donne che non invecchiano mai e che si rammendano, dalle donne che sono vecchie da sempre». La madre – alla quale l’autore tributa un culto quasi liturgico, una sequenza di azioni quotidiane, ordinarie, e insieme sacre – era infatti tra le poche creature istintivamente refrattarie all’«ultima possibile mistica popolare», ovvero alla mistica di quei templi funebri che sono i centri commerciali, lì dove è ancora garantita la caricatura d’un accesso al divino, il desiderio delle «sole felicità terrene possibili». Scomparsa lei, restano i suoi segni sparsi intorno al figlio e la nostalgia infinita, il vuoto sensibile della mancanza, dell’appoggio venuto meno. Resta la certezza d’essere ostaggio d’un mondo che non si capisce e non si condivide.
Come Il nemico, la Luce prima è attraversata dalla vis manichea della contrapposizione di luce e buio, giusto e sbagliato, povertà e ricchezza, ma non giunge ai toni antagonisti, quasi da lotta di classe, di quell’esordio narrativo. Qui, a predominare è il chiarore d’una luce ricordata e ancora desiderata, l’impulso d’una rinascita gnostica, che non aspira tuttavia a farsi insurrezione, a divenire palingenetica ri-scrittura delle Scritture, installandosi piuttosto nella dimensione della sola testimonianza. La luce dell’amore non si pratica, non si agisce, si offre ostensivamente, si testimonia. La pagina, anziché tendere come in precedenza all’eccesso barocco delle metafore, all’esplosione dei significati, punta ora a un controllo maggiore, a un fluire piano – di certo non distaccato – al cui termine è dato intravedere il silenzio, il balbettio del figlio appena nato e poi il mutismo della pura luce lasciata risplendere, svuotata di pretese: «La verità appartiene a un altro regno, a un vertice definitivo di silenzio e beatitudine (…). È nello sterminato silenzio che si invera il mondo. In principio era il silenzio, non il verbo».
Ogni tratto dell’esistenza sopravvissuta testimonia di un restringimento delle possibilità, di un nulla in attesa, di una sostanziale mancanza di libertà. Tramite malattia e morte, la natura ci rende servi, ci priva della progettualità e del futuro, modificando ogni avanzamento in un passo indietro, in una regressione all’origine indistinta in cui domina solo un abbacinante chiarore. Qui, nell’assenza di coordinate e di riferimenti, si confondono lo sbarramento della fine e il principio della rinascita. Tonon, da parte sua, riveste lo stupor mortis che lo circonda delle stesse stimmate che invoca per i propri palmi: gli psicofarmaci – mischiati al vino – sono l’ostia e il corpo mistico di Cristo, mentre la scrittura sullo schermo di un computer è la confidenza resa innanzi alla grata di un confessionale. In tal modo l’autore-narratore cerca di praticare un impossibile pertugio salvifico per la propria esistenza, imponendosi di ravvisare il sacro laddove c’è solo prosaica sopravvivenza.
Nessuna redenzione, nessuna salvezza, dunque, resta semmai il pensiero d’una rinascita in virtù dei sentimenti che ci sono stati e che si sono anche appena tentati – inclusi quelli negativi, recriminatori, come quando l’io narrante non riusciva a trattenersi dal rinfacciare alla madre d’averlo creato inabile alla vita e al mondo: «Tutto l’amore che abbiamo potuto, solo questo ci resta».


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