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Tutto per la bellezza

Creato il 23 settembre 2014 da Salone Del Lutto @salonedellutto

La-morte-a-Venezia«La solitudine fa maturare l’originalità, un bello originale e inquietante, la poesia. Ma la solitudine fa maturare anche il contrario, lo sproporzionato, l’assurdo e l’illecito».

Perché scrivere di La morte a Venezia oggi, a oltre 100 anni dalla sua pubblicazione? Innanzitutto perché, su questo blog non è tanto delle novità editoriali quanto di tutto ciò che racconta la morte che voglio dar conto. E poi perché sono tanti i libri “classici” che ho lasciato indietro e che sto tenendo da parte per una fantomatica età della pensione, ma ogni tanto uno di questi lo faccio passar prima. Non si sa mai… E infine perché questo libro mi è stato regalato, in una vecchia edizione Feltrinelli del 1965, da un caro amico che ha messo insieme tre signori titoli di argomento mortifero. Scrivo della morte a Venezia per la stessa ragione per cui lo leggo. Perché è lì, e perché sento che è il suo momento.

La vicenda si riassume facilmente. Gustav Aschenbach è uno scrittore cinquantenne, in cerca di pace, tranquillità e forse anche d’ispirazione. Dopo un breve soggiorno a Pola, comprende che è un’altra la sua destinazione: Venezia è una sorta di calamita, una malìa, che lo attrae per non lasciargli più scampo. Qui, oltre che dalla bellezza decadente e putrescente del luogo, a catturarlo definitivamente sarà l’incontro con Tadzio, un giovane polacco che sta trascorrendo le proprie vacanze nello stesso Hotel des Bains in cui soggiorna l’autore. Tadzio è un’apparizione. È la bellezza, la perfezione. E incanta Von Aschenbach nel profondo, gli entra nelle viscere, lo rende folle, ridicolo a tratti, irragionevole. E lo condanna a morire infetto dal morbo del colera che si è diffuso tra le calli e che miete vittime in un’estate crudele, battuta dallo scirocco. Non c’è molto altro da dire.

A parte il tentare di coglierla, questa morte che serpeggia fra le pagine, fin dal titolo del racconto lungo o romanzo breve, che dir si voglia. Le pagine sono dense di presagi, c’è un sottile malessere lugubre che aleggia fin dall’inizio e che infetta ogni cosa. Così, ad esempio, la descrizione di una gondola: «Chi non deve reprimere un fuggevole brivido, una segreta timidezza e angoscia, quando sale per la prima volta o non più abituato su una gondola veneziana? La singolare imbarcazione, tramandata tale e quale dai tempi delle epopee e così tipicamente nera, come, tra tutti gli oggetti di questo mondo, sono soltanto le bare, fa pensare a silenziose e delittuose avventure nello sciacquio notturno dei canali, e ancor più alla morte stessa, a feretri, a tenebrose esequie, all’ultimo muto viaggio. Ed è già stato osservato che il sedile di una simile imbarcazione, quel divano laccato di un nero funereo e rivestito di gramaglie, è il più morbido, il più voluttuoso, il più sfibrante sedile del mondo?».

Ma i “segnali” sono molti altri ancora: olfattivi, cromatici e relativi a un’umanità assente, distratta, sudicia e poco propensa a parlare. L’assenza di parole mi colpisce forse più di ogni altra cosa. C’è uno scambio, che suscita un profondo disagio, con un gondoliere. Tadzio non parlerà mai. E poi ci sono brevi dialoghi con tutti quelli che sono i messaggeri di una tremenda verità. La prima rivelazione a Von Aschenbach la fa un parrucchiere, dando improvvisamente un senso all’odore dolciastro-farmaceutico, che si sta insinuando in città: «Lei rimane, signore; non ha paura del male». Ma la rivelazione vera e propria, posto che a Von Aschenbach interessi davvero scoprire quel che sta accadendo, tarderà a venire e sarà colta pian piano dalle pagine dei giornali tedeschi, finché un clerk non racconterà all’autore come stanno davvero le cose e non gli consiglierà di partire al più presto, perché «Sembrava anzi che la pestilenza avesse acquistato forze nuove, che la tenacia e la fecondità dei germi si fosse raddoppiata. I casi di guarigione erano rari; l’ottanta per cento dei colpiti moriva, e moriva di una morte spaventosa perché il male si manifestava con estrema violenza e sovente nella sua forma più pericolosa, chiamata il “colera secco”. Il corpo non riusciva nemmeno a espellere l’acqua prodotta in grandi quantità dai vasi sanguigni. Nel giro di poche ore il malato si prosciugava e moriva soffocato dal proprio sangue, fatto denso come la pece, tra spasimi e rauchi lamenti».

Ma il punto è quello: Von Aschenbach non vuole partire. Per lui restare, e morire, è un qualcosa di ineluttabile. Quasi programmato. Perché fino all’ultimo vuole godere della bellezza di Tadzio, cosa che effettivamente farà, e approfittare della gioia della contemplazione… «Ma gli sembrava che il pallido e soave psicagogo, laggiù, gli sorridesse, gli facesse cenno; che, staccando la mano dall’anca, gli indicasse l’orizzonte lontano, lo precedesse aleggiando nell’informe enorme e pieno di promesse. E, come tante altre volte, cercò di seguirlo».

Claude Monet,

Claude Monet, “Ca’ Dario”, 1908

Io La morte a Venezia l’ho letto in un soffio. Perché è in un soffio che se ne va. Facendolo, avrei voluto ascoltare Mahler, in sottofondo perché, secondo l’interpretazione corrente che è quella che Luchino Visconti sposa nell’omonimo film, è a lui che Thomas Mann si è ispirato nel descrivere Gustav Von Aschenbach. Ma alla fine non l’ho fatto, e ho pensato invece a tanti dipinti, allontanandomi anche dall’immaginario creato dall’autore, e da quello del regista. Su tutti, ho pensato a un quadro che, suo malgrado, è l’immagine stessa della morte a Venezia. Lo dipinse Claude Monet nel 1908 ed è una vista sul Canal Grande, ed è un’inquadratura di una casa. Quella casa si chiama Ca’ Dario, e di morti e sciagure ne ha viste innumerevoli. Ed è un po’ come Tadzio. Perché incanta. Perché ha una luce magica intorno. Un’aura. E perché volerla possedere – qualunque cosa significhi – vuol dire anche votarsi alla morte.

di Silvia Ceriani

Thomas Mann
La morte a Venezia (Der Tod in Venedig, 1912)


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