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C'è un'immagine di Roma che non potrò mai scordare. Mi trovavo a Battistini, una palazzina di due piani, solo quattro famiglie. La finestra della mia camera dava sulla campagna, ettari di terra uguali, i confini delineati dai pini marittimi, al calar della sera si intravedevano macchie grigie muoversi uniformi per le colline. Non ricordo il nome della via, una strada sterrata chiusa, che sfociava su una provinciale, esattamente dall'altra parte vi era la fermata dell'autobus che portava alla metro A. L'attesa era estenuante. Alle mie spalle il guard rail, oltre il quale la terra scivolava in una profonda depressione per poi risalire e colorarsi di varie tonalità di grigio. Un altro quartiere, altre finestre, altre voci, altri volti, altri tetti. Ricordo soprattutto una manciata di tetti che, da lontano, sembravano sovrapporsi gli uni agli altri come pezzi di un puzzle disposti in modo disordinato, senza badare alla logica del disegno. Ed è questa l'immagine che non riesco a scordare.
In quel periodo leggevo i racconti di John Cheever (una vecchia edizione della Garzanti, talmente vecchia che alcune pagine non solo erano ingiallite ma odoravano di naftalina. Dio solo sa che viaggi ha fatto quel libro!). O almeno provavo a leggere. Perché, a dire il vero, anche quei racconti mi sembravano un po' disordinati, come l'immagine dei tetti di Roma. Sembrava che non ci fosse una logica e che le frasi fossero assemblate per puro gusto estetico e non per una ragione precisa. La storia, poi, sembrava mancare.
Quegli stessi racconti li ho presi in mano oggi (edizione Feltrinelli e Fandango Libri), in questa domenica piovosa, tetra, silenziosa, quelle giornate che andrebbero buttate se non sapessi leggere e scrivere. Dicevo, ho ripreso in mano quei racconti e ora mi appare tutto così chiaro. La lingua levigata, asciutta, elegante. La costruzione narrativa vive un contrastato equilibrio tra inquietudine e saggezza, tra leggerezza e rivoluzione.
Non si capisce fin dove finisce lo sguardo languido e spietato dello scrittore e dove inizia quello disilluso e realista dell'uomo. Da un po' di tempo a questa parte immagino gli scrittori che stanno dietro ai libri. Di John Cheever ho sempre avuto ben salda l'immagine di un ragazzo trasandato, con uno strano guizzo negli occhi e un cappello nero. Il motivo del cappello non lo so, mentre le altre caratteristiche si possono spiegare con la lettura di innumerevoli racconti.
Internet mi ha restituito un'immagine differente: un uomo perbene, in giacca e cravatta, a volte la polo e un maglione, il capello sempre impomatato. Ma il sorriso ironico. E già questo è bastato per tirare un sospiro di sollievo.
Non ero pronta per Cheever, all'epoca in cui stavo a Battistini. Oggi sì. E mi commuovo a leggere la sua umanità e sincerità: "Questi racconti cominciano ai tempi del mio congedo dall’esercito, alla fine della Seconda guerra mondiale e sembrano a tratti storie di un mondo perduto per sempre, quando la città di New York era ancora illuminata dalla luce del fiume, e la radio del negozio di cancelleria all’angolo diffondeva il ritmo della band di Benny Goodman e quasi tutti andavano in giro con il cappello. Sono l’ultimo di una generazione di fumatori accaniti che al mattino svegliava il mondo a colpi di tosse, si sborniava ai cocktail parties e ballava danze fuori moda, ’Il pollo Cleveland’, attraversando l'Atlantico in piroscafo, colma di nostalgia per l’amore e la felicità: e i suoi Dei erano antichi come i miei e i tuoi, chiunque tu sia".
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