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Tutto sulle spalle di Mirafiori

Da Brunougolini

 

Tutto sulle spalle di Mirafiori

foto:flickr

 

Tutti gli occhi puntati su di loro, i cinquemila operai delle Carrozzerie Fiat. Strattonati da destra e da manca. Sono diventati i protagonisti di una vicenda epica. Davanti a quei cancelli di fabbrica sono tornate torme di cronisti, fotografi, teleoperatori, come nei tempi gloriosi. Sono scrutati come gli eroi di un film angoscioso. Qualcuno scuote le spalle, qualcuno impreca ma c’è anche chi piange. Sulle loro spalle incombe un referendum che appare come una specie di giudizio di Dio. Fiumi di parole si sprecano, per incitarli, spingerli, blandirli. Le loro sorti occupano pagine e pagine di giornali. Discussioni infervorate si susseguono nei vari talk-show televisivi. Dicono che tocca a loro e solo a loro pronunciare un motto e in questo modo salvare o mandare in rovina non solo una delle rare grandi industrie rimaste in Italia, ma anche l’economia intera del Paese. Una responsabilità grande e terribile.
Erano ignorati, fino a ieri. Compassati e dotti convegni celebravano la “fine del lavoro”, irridevano a chi parlava ancora di catene di montaggio alla Charlie Chaplin. Oggi si scartabellano le 78 pagine del maxi-accordo separato. Qui grafici e tabelle misurano la capacità di resistenza dell’uomo-robot, secondo i dettami del World Class Manufacturing, la nuova rivoluzione nell’organizzazione del lavoro. Una rivoluzione da esportare, capace di seppellire cento anni di conquiste. Come sognano gli avanguardisti della nuova dottrina Fiat. Per fortuna non sono in grado di convincere i tanti imprenditori, nei vari settori, che non sognano proprio di arrivare a uno scontro sociale gigantesco.
Pochi, nella marea dei suggeritori, hanno ragionato non sull’immane responsabilità che pesa sugli operai bensì sulla responsabilità di quelli che hanno portato a tale situazione. Mettendo l’uno contro l’altro i sindacati, non scegliendo una politica industriale adeguata, non cercando di suggerire a Marchionne una linea, appunto, “responsabile”. Obama non si è lavato le mani di fronte alla crisi della Chrysler. Ora si attende l’esito delle urne. Come si tradurrà quel pianto operaio? In un massiccio Sì dettato dalla paura o in un forte No dettato dall’orgoglio? Sarà in ogni caso un esito difficile e amaro. Perché in quella fabbrica, tra quei cinquemila, sarà cresciuta non la fiducia, ma il malumore, l’ira, magari la ricerca di forme clandestine di opposizione taciturna e pericolosa ai dettami produttivi. E sarebbe bene sapere che se prevalessero i No l’attuale governo non potrebbe far finta di nulla e non intervenire per riparare i cocci.
Così come, qualunque sia l’esito, quei cinquemila non potranno essere lasciati soli dal sindacato, dalla Cgil e dalla Fiom innanzitutto. Bisognerà stare tra loro, ad ogni costo. Così come tra i loro compagni sparsi in un mondo del lavoro frantumato e sparpagliato, nei rivoli impetuosi del precariato. Per ricostruire un nuovo filo rosso di solidarietà, d’impegno, di speranza.


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