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tv. b. / 16 (downton abbey)

Creato il 08 marzo 2012 da Albertogallo

downton abbey

DOWNTON ABBEY

Downton Abbey è quella che, con un termine bruttino, in Italia si definisce “miniserie”. Non so fino a che punto un telefilm sia mini e dopo quanto non lo sia più, ma in ogni caso la serie ha una durata di sette episodi, inusuale rispetto a standard Usa che girano intorno ai 20 e al di sotto della già bassa soglia delle dieci puntate di Game of Thrones. Trasmessa dal canale inglese ITV (da noi su Rete4), racconta le vicende di una famiglia inglese della nobiltà terriera dei primi del Novecento, i Crawley, duchi di Downton appunto. Famiglia e località sono immaginarie, e oltre al duca capofamiglia, sposato con un’americana, le vicende girano attorno alle tre figlie femmine e alla servitù.

La serie è stata scritta da Julian Fellowes, premio Oscar per un film bellissimo che di Downton Abbey è quasi paradigma: Gosford Park. Oltre a condividere Maggie Smith, la serie e il film procedono con lo stesso meccanismo dell’“upstairs/downstairs”, raccontando alternativamente ciò che accade ai piani alti (la famiglia nobiliare) e ciò che accade a quelli bassi, invisibili (la servitù).

Gli attori, innanzitutto. Spesso si sente dire in giro che gli interpreti inglesi sono migliori di quelli americani: lontani per tradizione dall’eccessivo “metodo” (Strasberg o Stanislavski) ma molto vicini al teatro, la loro recitazione sarebbe più legata al portamento e alla tonalità di voce. L’inespressività apparente, più che un difetto rappresenterebbe un punto di forza, costituendo una sfida allo spettatore, spinto a indagare ciò che il personaggio sta in quel momento celando, a leggergli dentro. E in effetti sulla parte “segreta” di ognuno sono costruite le cose migliori di questo telefilm. Gli attori di Downton Abbey sono tutti molto bravi, e a voler trovare una crepa nel cast questa forse è nella scelta delle tre attrici che interpretano le figlie (Laura Carmichael, Michelle Dockery e Jessica Brown Findlay), mentre fa piacere rivedere nei panni di Lady Cora Elizabeth McGovern (l’indimenticabile Deborah di C’era una volta in America). Un continuo spasso di snobismo british e battute pungenti è invece Maggie Smith, chiamata a interpretare la “duchessa madre”: straordinaria, in formissima, Maggie qui è l’inglesità fatta persona, tutta cappellini, ventagli, tè e convenzioni. Già presente in Gosford Park in un ruolo praticamente identico, fa davvero impressione vedere come per lei (classe 1934) il tempo sembri quasi non passare mai.

La duchessa madre rappresenta quasi da sola uno dei due cardini principali dell’impianto di Downton Abbey: l’aristocrazia. La serie, al pari di Mad Men, ricostruisce un periodo preciso della Storia e ne mostra la portata rivoluzionaria sulla società. Rispetto alla serie Usa sopra citata, che mostra sì gli anni Sessanta ma li lascia anche piuttosto sullo sfondo, concentrandosi sui personaggi, qui gli eventi del primo Novecento incidono in profondità sulle vite dei personaggi, con effetti irreversibili. Non si tratta solo di mostrare l’utilizzo sempre più massiccio di automobili o elettricità (la primissima immagine della serie, emblematica, è un dito intento a battere un messaggio al telegrafo), ma del simbolismo legato a tutto ciò: la modernità che avanzando inesorabile scardina l’istituto ultratradizionale dell’aristocrazia.

La famiglia Crawley si trova così ad affrontare un mondo che cambia in fretta e ad adeguarsi per non scomparire. Ai due estremi opposti tra conservazione e innovazione stanno i due estremi anagrafici dei Crawley: da una parte la duchessa madre, che con orrore scopre che l’unico erede maschio è un borghese che “lavora per vivere” (un avvocato di Manchester); dall’altra la terzogenita Sybil, sensibile alle rivendicazioni delle suffragette, affascinata dai telefoni, protopaladina dell’indipendenza femminile e attenta al lato umano dei servitori.

Il secondo cardine, in parte legato al primo, riguarda invece l’insieme della servitù. Si fa fatica, inizialmente, a distinguere tra valletti, camerieri e maggiordomi, ma dopo un po’ si entra nel meccanismo e ci si rende conto che è qui, in questo ambiente “downstairs”, che si sviluppano la maggior parte delle trame e delle storie. Su questi personaggi è indirizzata la maggior parte delle simpatie e delle antipatie degli spettatori; tra la servitù si trovano (anche qui, attori straordinari) amori che faticano a sbocciare, segreti inconfessabili e intrighi volti a mascherare, danneggiare e rivaleggiare. Per quanto riguarda i piani superiori tutto inizia con la notizia della morte di due eredi maschi nell’affondamento del Titanic (1912) e da lì in poi la trama si riduce a uno schema semplice: l’apparizione di un possibile erede, la disperata o ridicola ricerca di un marito per una (o forse due) delle figlie e l’incontro/scontro tra una borghesia sempre più presente e la vecchia aristocrazia terriera. Siamo al confine della soap opera, con temi come l’onore, i tradimenti e la dialettica amore/convenienza sociale, ma se tutto questo sistema alla fine non mostra la corda è proprio perché il contraltare, quello che realmente chiama a raccolta gli umori del pubblico, è in mano alla truppa della servitù, solido nucleo di storie.

Se gli stravolgimenti storici in Downton Abbey sono molto sentiti è, probabilmente, proprio perché vengono osservati da due punti di vista così distanti nella scala sociale ma così vicini nello spazio (non va sottovalutata la presenza di alcuni personaggi vicini al socialismo). La prima stagione termina nel 1914, con l’ingresso dell’Inghilterra nella Grande Guerra, e nelle foto che anticipano la seconda stagione alcuni personaggi indossano la divisa da soldato o da crocerossina. Ma al di là della ricostruzione storica, del fascino dell’aristocrazia, degli attori, dell’inglesità e dei costumi, tutti aspetti assolutamente convincenti, Downton Abbey piace e attira soprattutto per una massiccia presenza degli elementi più semplici e basilari da sempre richiesti a una fiction televisiva: suspense e colpi di scena.

Marcello Ferrara



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