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tv. b. / 17 (homeland)

Creato il 12 marzo 2012 da Albertogallo

claire danes in homeland

HOMELAND

È ambientata nel 2011 questa serie tv, ma la sua storia inizia molto tempo prima. Dieci anni, per la precisione, indietro a quell’11 settembre 2001 che ha cambiato la storia americana e che qui non viene mai direttamente citato. Terrorismo, spionaggio, guerre, politica, kamikaze, tradimenti, servizi segreti… Di questo parla Homeland, di questo mondo costruito sulla paura che gli attentati alle Torri Gemelle ci hanno lasciato in eredità. Protagonisti sono l’agente della Cia Carrie Mathison e Nicholas Brody, soldato americano tornato in patria dopo otto anni di prigionia in Iraq.

Capolavoro. Lo dico subito a scanso di equivoci: Homeland (o almeno la sua stagione d’esordio – la seconda è in lavorazione) è una delle serie televisivie più belle, coinvolgenti e stupefacenti che siano mai state prodotte. Dimenticate Syriana, Nessuna verità e tutti i polpettoni medioriental-spionaggistico-noiosi post-11 settembre che il cinema ci ha propinato negli ultimi anni: il piccolo schermo, a quanto pare, ha metabolizzato artisticamente il trauma di quel giorno molto meglio del suo fratello maggiore,* e se stiamo ancora aspettando un film veramente valido sul mondo di oggi visto sotto questo punto di vista, be’, l’analoga serie tv è già invece nelle nostre mani, acquistabile o scaricabile fin da subito. E se ancora non l’avete fatto vi consiglio caldamente di rimediare, per una serie di ottimi motivi.

damian lewis in homeland

I personaggi innanzitutto. Raramente mi è capitato di vedere un prodotto televisivo così profondo sotto il punto di vista dell’analisi psicologica dei suoi protagonisti. A spiccare, in particolare, in tutta la sua drammaticità, è Carrie, personaggio così vivido e ben costruito che rimanerne indifferenti è praticamente impossibile. Interpretato alla perfezione da Claire Danes – che non si sforza grazie a dio di risultare più bella di quanto non sia e che anzi, talvolta, fa della sgradevolezza estetica del suo personaggio uno dei punti di forza della sua interpretazione – questo agente della Cia appassionato di jazz, malato di mente e terribilmente solo è dotato di un’umanità quasi sconvolgente, che sfocia in un finale (gli ultimi secondi dell’ultima puntata) veramente da lacrime. Accanto a lei un altro personaggio molto riuscito, Saul Berenson, capo di Carrie alla Cia: anch’egli solo e depresso, è reso ancora più interessante dalla sua durezza iper-razionale, condizione che lo porta a risultare talvolta simpatico e talvolta molto antipatico agli occhi dello spettatore – o almeno a me è capitato così. Più difficile, invece, dare un giudizio sul sergente Brody: interpretato da quella faccia da schiaffi di Damian Lewis (che già avevo mal sopportato nelle poche puntate di Life che mi è capitato di vedere), si tratta di un personaggio talmente doppio, falso e antipatico, per quanto anche lui estremamente umano e vulnerabile, che non si riesce a capire se sia poco riuscito o troppo riuscito. Sin dal primo episodio non ho desidarato altro che in qualche modo sparisse dalla serie, lasciando spazio all’adorabile Carrie.

Ma ovviamente ciò sarebbe stato impossibile, dal momento che Homeland è proprio basato sulla dualità Mathison/Brody: lei è sola, lui ha famiglia; lei è buona ma nessuno la sopporta, lui è cattivo ma tutti lo amano; lei è monoliticamente convinta di ciò che fa e di ciò che deve fare (salvaguardare con ogni mezzo la sicurezza degli Stati Uniti), lui è internamente dilaniato da un conflitto ideologico e sentimentale (da un lato l’America e la sua famiglia, dall’altro l’Islam e un torto da vendicare). Una fiction bipolare, insomma, come il disturbo che affligge la psiche della protagonista, schizofrenicamente caratterizzata da una cronica mancanza di risposte e certezze: lontana dall’approccio fascisteggiante di 24 (altra recente serie tv di argomento “terroristico”), Homeland non pretende di dividere il mondo in buoni e cattivi. Certo, il punto di vista è fondamentalmente quello americano e la simpatia della sceneggiatura non sta certo dalla parte dei terroristi islamici, ma la scelta, ad esempio, di utilizzare come pretesto di un attentato la volontà di vendicare la morte di un dodicenne (figlio di un membro di Al-Qaeda, Abu Nazir) ucciso durante uno sconsiderato raid aereo americano la dice lunga sul “possibilismo” ideologico della serie – così come il fatto stesso di mettere al centro della narrazione un personaggio ambiguo come Brody, lontanissimo dalle certezze patriottiche a senso unico dell’era Bush jr.

I momenti toccanti (di natura prevalentemente intima) e le scene cariche di suspense sono così tanti da perdere il conto, esaltati da un approccio estetico magari non virtuosistico e particolarmente autoriale (siamo lontanti dall’opulenza di un Boardwalk Empire o di un Mad Men), ma perfettamente funzionale al racconto e mai sciatto o casuale. D’altronde una certa attenzione al dettaglio sarà pur stata fatta se, tanto per fare un esempio, nell’appartamento di Carrie i quadri sono tutti storti. Un prodotto televisivo (basato, come già In treatment, su un serial israeliano – fatto sorprendente, se si pensa a quanto la vicenda di Homeland sia intrinsecamente americana: il riadattamento è stato pensato in modo davvero geniale) di qualità superiore, avvincente e mai banale: dategli mezz’ora di tempo e non potrete più farne a meno.

Alberto Gallo

* E come potrebbe essere altrimenti? L’11 settembre, detto senza alcuna ironia, è stato il più grande spettacolo televisivo di tutti i tempi.



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