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Ty Lawson: Rocket-man?

Creato il 28 luglio 2015 da Basketcaffe @basketcaffe

Chapel Hill, giugno 2008. Una pattuglia della stradale ferma un ragazzo che squarcia la notte del North Carolina con il sound hip-hop di un’autoradio possente.
Scendi! È meglio che ti facciamo l’alcol-test”.
Il giovane si alza e lascia il volante con titubanza: il ritmo avvolgente della musica si perde nel silenzio della notte. Gli agenti non lo riconoscono: non leggono nella scia di AC/DC che segue la sua sagoma il profilo della point-guard dei Tar Heels, non si accorgono della rapidità che guizza fra le palpebre e i polpastrelli del fermato, non immaginano di vivere la profezia e la condanna di un predestinato.
0,3. Sei ben al di sotto del limite: tutto regolare ragazzo, ma abbassa il volume!
No, questo ha 20 anni: non può bere!

Ty Lawson si scuote, ma capisce che qualcosa non funziona. L’asfalto del North Carolina non è il parquet dell’oggi-Dean Smith Center: sul bitume stradale cinque mesi segnano la distanza fra la normalità e il guaio. Mentre le manette gli avvolgono i polsi, la sconfitta in semifinale contro Kansas che lo ha fatto piangere nell’anno da rookie e l’infortunio alla caviglia che lo ha tenuto ai box per quasi tutta la stagione da sophomore si sciolgono nell’orizzonte dei ricordi. Lawson si accorge che l’arresto non somiglia alla delusione cocente di un’eliminazione a due passi dal traguardo: le porte del commissariato si popolano di incubi e proiettano sfumature di oscurità nella corrente elettrica di un cervello concepito per elaborare dati cestistici a ritmi ineffabili.

Rilasciato. Fai attenzione, figliolo: una brutta storia non finisce sempre bene!
Ty sospira e si libera, si allena e apre il gas, disegna assist sul perimetro e scava solchi di rapidità verso il ferro: mentre il fuoco della point-guard infiamma l’attacco di Chapel Hill, Wayne Ellington, Danny Green e Tyler Hansbrough aggiungono imprevedibilità, costanza e rabbia alla marcia dei Tar Heels. UNC vola al Torneo NCAA e stacca un altro pass per le Final Four: l’esperienza trasforma i momenti decisivi nell’area di gloria di Lawson, un fascio di elettroni che ferma la bilancia a 88 chilogrammi e costringe il medico dello sport ad abbassare l’asta graduata fino al limite dei 180 centimetri. Ty vince il titolo 2009 da Giocatore dell’anno della ACC, si aggiudica il Bob Cousy Trophy come migliore point-guard della stagione e convince gli scout dei Minnesota Timberwolves a concedergli il cappellino della diciottesima chiamata assoluta, ma le Twin Cities non sono nel destino del campione NCAA. I Denver Nuggets organizzano uno scambio per assicurarsi la rapidità di un ragazzo capace di apprendere con entusiasmo l’essenza del basket. George Karl lo annusa e scruta nei picchi di un gioco di accelerazioni e sincopi il potenziale di un All-Star, ma tratta Ty Lawson come tutti i rookies che hanno ravvivato la sua lunga carriera di studioso del gioco e icona liberal: gli spazi sono pochi, ma le responsabilità arrivano con progressioni calibrate sulle spalle del giovane.

Lawson non mostra i segni della paura: accelera come un forsennato e sfrutta il miglio d’altitudine per imprimere un ritmo indiavolato ai match del Pepsi Center. Attacca il ferro e costruisce trame, raccoglie il palleggio per aprire il fuoco dalla distanza e assorbe i contatti per esplodere nelle proiezioni verso il vetro, osserva il perimetro per armare i tiratori e si diverte a far volare i lunghi atletici dei Nuggets: all’inizio del 2011 è già una delle pepite più preziose del piccolo-grande tesoro di George Karl, ma sta per diventare l’innesco della “democrazia ateniese” della Mile-High City. Il 22 febbraio Carmelo Anthony finisce ai Knicks e l’arrivo di Danilo Gallinari, Wilson Chandler e Timofey Mozgov apre la strada al sistema del Coach: Denver raggiunge un assetto che regala spettacolo e soddisfazioni fino alle prime rampe della primavera, ma non oltrepassa gli scogli più aspri della post-season. Gli equilibri tecnici esaltano la forza dei singoli, ma l’assenza di un vero “go-to-guy” e gli infortuni che tormentano il roster impongono una zavorra all’insostenibile leggerezza dell’essere di George Karl. I risultati deludono e la proprietà cambia strada: l’esperienza vincente di Brian Shaw solletica il front-office e si accomoda sulla panchina del Pepsi Center.

Incroci e bivi, angoli misteriosi e scorci di grandezza, tappeti distesi e buche insidiose. Quando i Nuggets si spengono nell’abbraccio della sfortuna e fra le contraddizioni di una gestione sciagurata, Ty Lawson è chiamato a una prova di leadership: coach Shaw apprezza le cifre offensive che regala allo staff, ma gli chiede un salto di qualità mentale: “Devi essere un leader. Sei il nostro All-Star!
La coperta della democrazia non avvolge più l’elettricità dell’ex-Tar Heel: Ty impugna i comandi, ma sente che il vento aspro di una tarda serata di giugno riprende a soffiare fra le pieghe dell’anima. Le immagini di una minorità mai abbandonata s’imprimono sulle palpebre guizzanti dell’ultima “sensation” dei back-courts dell’Ovest: mentre i tre quarti degli scout NBA sognano l’accelerazione secca e la velocità devastante del #3, Lawson imbocca un sentiero scivoloso.
Bottiglie e bisbigli, vetri e sussurri, suppliche e grida.
Chiedere alla fidanzata di guidare un’auto che non è autorizzata a condurre non gli basta più: la tensione lo tiene acceso e gli ricorda che le responsabilità pesano meno solo quando la mente riesce a dimenticarle. Le reprimende dell’autunno del 2012 si perdono in una bizzarra scia alcolica: i compagni e lo staff si accorgono che gli sprint del razzo del Maryland sono meno ammorbanti sullo spunto e molto più ubriacanti nell’alito che gli esce dalle narici e dal sudore.
Denver lo nasconde, ma i Nuggets lo sanno. Ty Lawson beve. Beve troppo.

Saluta la tarda estate del 2013 con l’ennesimo viaggio in un commissariato di polizia: la fidanzata lo denuncia per violenze domestiche, ma la situazione è talmente confusa che entrambi sono trattenuti per qualche ora in stato di arresto. Qualcosa non funziona: il “regista” non è più in grado di controllare né uno spogliatoio, né una relazione, né i suoi stessi nervi, ma l’opinione pubblica di Denver non ha la stessa forza emotiva della scena newyorkese o angelena. Ty Lawson resiste. Resiste al timone dei Nuggets, ma la squadra si perde nelle nebbie di una stagione anonima.
L’autunno del 2014 conferma le tendenze di medio periodo che l’atleta e l’uomo hanno offerto alla franchigia e alla Lega: le statistiche crescono con la stessa progressione che contraddistingue gli sbalzi di umore e l’intensità degli aromi alcolici. Lawson migliora la propria media-punti e sbaraglia la concorrenza nella classifica degli assist, ma aggredisce Shaw e rompe i rapporti con alcuni compagni: il laser dei passaggi smarcanti incendia la tranquillità dello spogliatoio e ostacola la costruzione di un progetto vincente, ma nessun Nugget ha la forza o il coraggio di far emergere il problema. La profondità di talento che riempie i point-guard spots della NBA 2014/2015 ridimensiona le cifre e le prestazioni di un ragazzo che non riesce a trasformare un gruppo informe in una squadra vincente: Lawson smarrisce la bussola e ritrova sempre più spesso la bottiglia.

Il 23 gennaio 2015 “doppia” i limiti di velocità del Colorado e fa saltare l’etilometro della polizia: la stradale gli contesta un reato automobilistico per la terza volta in otto anni, ma in due di queste occasioni l’aggravante dello stato di ebbrezza complica gli scenari penali. Gli equilibri della stagione NBA gli impongono il ritorno sul parquet, ma non risolvono i problemi della Mile-High City: i Nuggets chiudono senza acuti una delle peggiori stagioni della loro storia recente e Ty perde appeal.
Le point-guard capaci di spostare gli equilibri sono altre: o guadagna troppo, o non incide abbastanza. O è troppo piccolo, o non è abbastanza capace di incidere sul gruppo.
Lawson decide di berci sopra, ma il 14 luglio la polizia di Los Angeles lo ferma un’altra volta: il curriculum degli arresti e degli etilometri stracciati vanta una casella in più. Mentre le autorità gli impongono di sottoporsi a un processo di rieducazione in California o in Colorado, i Nuggets si distinguono per doppiezza: le conferenze-stampa del front-office manifestano affetto e solidarietà, ma le manovre sommerse del GM dimostrano che la franchigia punta tutto sulla loro ultima scelta al Draft, Emmanuel Mudiay.
Una point-guard esplosiva e creativa. Un diciannovenne senza bottiglia.

Anche la proprietà capisce che Ty Lawson potrebbe strappare minuti preziosi al rookie o traviare il ragazzino con gli atteggiamenti poco professionali degli ultimi mesi, ma chi ha il coraggio di accollarsi un giocatore così problematico nel momento più difficile della sua vita personale e professionale? Daryl Morey alza la mano e un’ideale cornetta: “Ty è un razzo e un creativo di natura: è perfetto per noi Rockets!

Welcome to the Rockets @TyLawson3! Excited to see him breaking ankles with @JHarden13 next season https://t.co/5PTQc9s1X6

— Daryl Morey (@dmorey) July 20, 2015

La trade prende forma in poche ore: Houston riceve Lawson insieme a una seconda chiamata al Draft 2017 e si priva di Joey Dorsey, Kostas Papanikolaou, Nick Johnson è una scelta protetta al primo giro del Draft 2016. Secondo Tom Ziller l’intesa sigilla un perfetto accordo “win-win”: Denver si libera di un problema e accelera il progetto di ricostruzione, mentre Houston si assicura un ex e tuttora potenziale All-Star senza perdere pedine fondamentali.
La città della NASA accoglie con grande ottimismo il nuovo “razzo” del back-court e magnifica la futura intesa con i lunghi atletici di Kevin McHale, ma le meraviglie della possibile convivenza con James Harden nascondono diversi lati oscuri: come si integreranno due giocatori che basano la propria forza sulla creatività con il pallone tra le mani e sull’istinto sulfureo degli handlers? Come si svilupperà la convivenza con Patrick Beverley? Lawson accetterà la preminenza di un giocatore molto meno talentuoso di lui, ma imprescindibile per intensità difensiva, dedizione e funzionalità tattica? Beverley sarà disposto a condividere la posizione con un uomo che ha mostrato più segni di squilibrio che volontà di collaborazione con i gruppi tecnici?

Sulla carta, la presenza di un’altra minaccia perimetrale dovrebbe togliere dalle spalle di Harden una parte del fardello che lo ha sovraccaricato nella stagione passata: Lawson avrà diverse opportunità di attaccare il ferro e generare scarichi per la nutrita batteria di tiratori di McHale o linee di scivolamento a canestro per i lunghi verticali, ma potrà anche creare spazi di collaborazione perimetrale con il “Barba”; i giochi a due fra questi generatori di vantaggi tecnici saranno suggestivi e accattivanti, ma costeranno ai Rockets diversi grattacapi difensivi e/o squilibri nella gestione del roster. È difficile credere che Lawson accetti di “sottomettersi” completamente al sistema-Harden e di aggiungere i propri talenti all’energia di Patrick Beverley, ma non si può escludere che la parabola discendente del ragazzo nasconda il bisogno di essere semplicemente “Ty”.

Non un faro. Non un leader. Un membro importante di un progetto vincente.
Se la risposta sarà questa, Clutch City potrà tornare a ruggire con la forza e l’orgoglio degli anni migliori: la Western Conference è sempre più selvaggia, ma i motori dei Rockets sembrano caldi.

 

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