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Un biglietto di sola andata

Creato il 02 ottobre 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

COPERTINA UN BIGLIETTO DI SOLA ANDATAdi Riccardo Alberto Quattrini.

a Pinuccia

Ero partito di mattina presto da Como, volevo evitare il traffico, almeno fino al confine.

Avevo fatto il pieno, caricato la valigia, dato le ultime disposizioni alla portiera Ivana che, per qualche inspiegabile ragione mi aveva abbracciato e aveva pianto. Sesto senso? Non lo saprò mai. La giornata era fredda ma limpida, a febbraio era sempre stato così: freddo ma bello. Avrei fatto colazione al primo Autogrill sull’autostrada; colazione, un caffè sarebbe stato sufficiente. Continuavo a pensare se avevo fatto tutto, se non avevo dimenticato nulla, se il notaio Salvioni avrebbe rispettato tutte le disposizioni che gli avevo indicato. Che strano, pensai, mi sto preoccupando di qualcosa che in capo a due giorni non avrà più senso. Era normale, il genere umano, contrariamente alle bestie che vivono d’istinto, ha la razionalità, e questo ci fa pensare, ragionare. Già ragionare. Io mi ero perso nei ragionamenti, nel valutare la situazione, il da farsi. Mesi e mesi, prima di confidarmi con il mio miglior amico, Lupo Mastronardi, avvocato come me, lui civilista, io invece avevo scelto una specializzazione che mi era sembrata più facile, meno impegnativa: divorzista. Mi sbagliavo, forse perché non ero mai riuscito a distaccarmi professionalmente da ogni caso che mi era capitato di patrocinare. Probabilmente era perché il mio matrimonio con Ginevra funzionava a meraviglia. Un innamoramento iniziato sui banchi del liceo, in terza liceo per l’esattezza. Quando entrò in classe, e la professoressa di latino ce la presentò, io ebbi un tonfo al cuore. Bella, mora, i capelli raccolti dietro la nuca, neri come neri erano gli occhi profondi, che se li guardavi finivi per cascarci dentro e ti perdevi in un labirinto senza uscita.

«Questa è Ginevra Di Muzio» disse la professoressa, «viene da Matera il paese dei sassi.».

Subito pensai che fosse un paese terremotato. Per i due anni successivi, fino alla maturità, nemmeno mi degnò di uno sguardo, salvo per le versioni di latino e storia dell’arte, materie in cui ero ferratissimo. Lei si era messa assieme a uno di quinta, un ripetente, un certo Marco o Marzio, non ricordo bene che, essendo più grande, aveva il vantaggio di possedere la macchina. E con quella se la portava dove voleva. Non seppi mai il perché, né mai glielo chiesi, ma il giorno degli esami di maturità cominciò a parlarmi. Si sentiva preparata e mi chiese cosa avrei fatto dopo, quale facoltà avrei scelto. Così cominciammo a uscire insieme e ci accorgemmo di avere delle affinità. Una di queste era il cinema. Lei amava molto la fantascienza, come del resto anch’io, pertanto non fu un sacrificio rivedere tutta la saga di George Lucas. E poi quelli di John Carpenter, il regista del film da me più amato e rivisto: “La cosa. Sarà capitato a molti di avere accanto una ragazza di cui si è pazzamente innamorati, di prenderle la mano nelle scene di maggior tensione. Così, quando anche Ginevra un giorno me la prese e la strinse forte, provai un’emozione che, ancora oggi, non riesco a dimenticare.

All’improvviso l’Autogrill.

Fermai la macchina e ne discesi. Un lieve stordimento mi assalì, posai una mano sul tetto dell’auto, inspirai forte e cercai di scacciare quel pensiero. Il caffè era caldo e gradevole. Le persone al banco sorbivano cappuccini, mordevano brioche e addentavano panini; tutto si svolgeva come fosse compitamente scritto. Silenziosi, consumavano, pagavano e se ne andavano per chissà quale destinazione. Qualcuno si metteva a grattare un cartoncino, o comprava biglietti di una fantomatica lotteria, che magari avrebbe dimenticato in un cassetto o nella tasca della giacca, senza sapere mai se la fortuna gli avrebbe sorriso. Io non credo a quella puttanata della fortuna o del destino. Il destino non influisce nella vita delle persone, per il semplice fatto che non esiste. La verità è che ognuno crea il proprio futuro, ogni giorno, ora, minuto, secondo della vita. Ogni decisione che prendiamo, dalla più importante a quella più insignificante, ci

cambia a nostra insaputa l’esistenza. Il nostro professore di filosofia diceva che ognuno è artefice della propria sorte. Io la sorte, questa sorte, non l’ho mica cercata, mi è capitata. E allora? Parole, tante parole si dicono, poi, quando ti trovi dentro quel tunnel buio, vedi le cose da un altro punto di vista. Destino, sorte, fatalità, non c’entrano un cazzo quando ti colpisce un cancro. Ce l’hai e non lo puoi passare a qualcun altro come nel gioco della Pepatencia.

Aprii la portiera e guardai l’autostrada poco oltre il piazzale. Il traffico era in costante aumento, ma non avevo nessuna fretta, nessun orario da rispettare. Quei momenti erano oramai solo un ricordo anche se non molto remoto. Il telefono, allora, era l’oggetto che più odiavo. Magari ero nel mio studio intento a consultare una pratica ed ecco che suonava.

«Avvocato c’è il signor Listorti sulla due» annunciava la mia segretaria Elisabetta, che per brevità chiamavo Betti, anche se a lei non piaceva; le avevano dato quel nome e con quello voleva essere chiamata. Invece non cercai mai un diminutivo per mia moglie. Ginevra era e Ginevra restò fino all’ultimo giorno della nostra vita in comune. Come potevo mai trovare un diminutivo per un nome tanto altisonante e bello: Ginevra. Ti vibrava nella bocca e sul palato mentre lo pronunciavi, e quando ti usciva tra le labbra, pareva d’aver proferito una poesia.

«Mi scusi» disse una voce alle mie spalle. Mi girai e mi ritrovai davanti una donna non giovanissima, con un viso sottile e i capelli rossi raccolti alla nuca da un nastrino nero. Portava occhiali scuri grandi e tondi che le davano un’aria da donna fatale. Indossava dei jeans attillati, una camicetta bianca e un blazer blu.

«Lei se ne intende di auto?» chiese.

«Riesco a malapena ad accenderle» risposi avvicinandomi e sorridendole. «Comunque posso sempre provare.»

Salii sulla vettura e provai ad avviarla. Nulla. Sentivo solo un odore intenso di olio bruciato.

«È sicura di avere l’olio del motore a posto?» domandai mentre con una mano sganciavo il cofano.

Era una vecchia Lancia Ypsilon gialla. Tirai fuori l’astina dell’olio, presi da terra un foglio di giornale e la pulii.

«Mi sa tanto che ha fuso» dissi mostrandole l’astina pulita dopo averla infilata nella scannellatura.

«Che destino! E non è neanche mia. Me l’ha prestata un’amica proprio perché la mia è dal meccanico.»

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p style=”text-align:justify;”>Aveva un viso sconsolato.
«E ora come faccio?» chiese mordicchiandosi un’unghia. «Dove deve andare?»
«In Svizzera.»
«In Svizzera? Ma non mi dica. E dove di preciso?» «Lugano.»
Sorrisi.
«Non ci crederà ma io vado poco più su.»

Avrei voluto mordermi la lingua; per un momento avevo scordato che non andavo a fare una gita. E lei notò la mia espressione pentita.

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p style=”text-align:justify;”>«Che c’è? Non ci va più?»
«No, no. Ci vado. È che per un attimo…» dissi cercando di rimediare. «Ha bagagli?» Lei aprì il baule e prese un piccolo trolley.
«Bene. La mia auto e là.»
«Carina» commentò ironica quando feci scattare le serrature con il telecomando.

Ho sempre avuto la passione per le Porsche. La mia auto, una Cayman S azzurra metallizzata, certamente la sua porca figura la faceva. Ma ora non me ne importava un fico secco.

«È stato un capriccio» dissi sobriamente. «Almeno presentiamoci, Ridolfo Molteni.»

Le tesi la mano, dopo aver sistemato il trolley nel portabagagli.

«Che strano nome: Ridolfo.»

«Colpa di mio padre che aveva una passione per i Templari. Ridolfo Riduzzi de Medici fu uno di questi Cavalieri. Lei è…?»

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p style=”text-align:justify;”>«Gianna Lucchesi, in arte Leyla Zilli.» «Cantante?» buttai lì.
Annuì. «Musica soul.»

Conoscevo poco la musica straniera. Mi fermavo a Mina, Battisti, De André. Di De André amavamo quasi tutto, anche se Ginevra preferiva i brani dei primi anni, quelli del suo esordio, mentre a me piacevano di più quelli della maturità. Mi ricordai di un concerto a Thiene, avevamo provato un’emozione così intensa che la portammo con noi per diverso tempo.

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p style=”text-align:justify;”>Salimmo in macchina. La avviai. Poi le chiesi: «Quindi va a Lugano per cantare?» Annuì e si sistemò meglio sul sedile.
«Ed è molto che canta?»
«Ho iniziato a tredici anni.»

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p style=”text-align:justify;”>«Accidenti.»
«Davvero non mi ha mai visto in tv?»
«Dovrei?»
«Forse no. Pensavo di essere abbastanza conosciuta» disse fingendo un piccolo broncio. «Mi dispiace, ma di musica ne ho sempre masticata poca.»
«Via, scherzavo. Che razza di musica ascolta uno che si chiama…»
«Ridolfo» conclusi per lei. «Di solito musica classica: Chopin, Mozart. Mi rilassa.»

Mentivo solo per sembrare impegnato. La menzogna, che non mi era mai appartenuta, negli ultimi tempi era diventata inevitabile. Mentivo per necessità, quando mi domandavano come stavo. Che altro dovevo dire, che mi restavano pochi mesi di vita? Non speravo in una guarigione che, sapevo, non sarebbe arrivata. Quel film l’avevo già visto. L’avevo già visto con Ginevra. Dapprincipio il terrore, e l’angoscia che ti assale. Nessuno se lo aspetta, anche se ne ha parlato, discusso. Ma, inaspettatamente, accade a

te, alla tua famiglia, alla moglie che ami. All’improvviso una sequenza d’immagini s’impossessò della mia testa. Erano i ricordi di ventisette anni di matrimonio. Dopo la maturità c’eravamo persi di vista. Io preso dall’università, lei coinvolta nel divorzio dei suoi. Ginevra aveva scelto di stare con il padre, che per ragioni di lavoro si era trasferito a Torino. La ritrovai molti anni più tardi, quando ormai avevo messo su uno Studio Legale a Como, assieme al mio amico Lupo Mastronardi; lui civilista io divorzista. Lo studio si era avviato molto bene, il divorzio era oramai legge da più di quattro anni, mentre le cause civili erano all’ordine del giorno: per un nonnulla si ricorreva all’avvocato. Ci incontrammo per caso nel febbraio dell’ottantadue. Ero sceso dallo studio per comprare le sigarette e lei stava osservando una vetrina d’abbigliamento. Mi misi alle sue spalle e la guardai riflessa nel vetro in mezzo a due manichini; pareva Pinocchio tra i due Carabinieri. Mi riconobbe immediatamente.

«Ridolfo!»

Tutti gli anni in cui c’eravamo persi furono cancellati dalla sua voce. «Che ci fai qui?» domandò.

«Ci lavoro. Ho aperto uno studio nel palazzo di fronte. Sono sceso per le sigarette.» Da quel giorno ci ritrovammo e cominciammo a uscire.

Il suono di un clacson mi fece ritornare al presente.

«Non mi ha detto di cosa si occupa. Aspetti, mi lasci indovinare. È un industriale con la sua bella fabbrica che produce… abbigliamento o pentole» rise.

Le dissi che facevo l’avvocato.

«Nello specifico?»

«Divorzi.»

Si stupì, come se non avesse mai pensato che occorreva un avvocato per divorziare.

«Single» disse con sollievo, mostrando la mano sinistra priva della fede ma inanellata con delle pietre vistose.

«Lei, invece, mi dà l’idea di essere sposato. Ho notato la fe…» tacque accorgendosi che ne portavo due. «Mi perdoni, a volte parlo troppo» si giustificò.

«Non si preoccupi, non poteva immaginare.»

«Eravate sposati da molto tempo?»

«Ventisette anni.»

Le sfuggi un sorriso e un commento; lei con un uomo non resisteva più di un anno. «Forse non ho mai trovato quello giusto. C’è forse un trucco?» chiese con un’ingenuità sorprendente.

Risi e scossi la testa.

«Lei che è divorzista, ne avrà viste di coppie scoppiate, non è così?»

«L’incomprensione. La base è di solito quella; mancanza di dialogo, di attenzione ai rispettivi sentimenti ed esigenze. Ognuno fortifica la convinzione di avere sempre la ragione dalla sua parte. I passi verso la comprensione reciproca, avvengono sempre con maggiore difficoltà nel perdurare del legame.»

Anche con Ginevra c’erano stati momenti di forte tensione. Dopo i primi tre anni di matrimonio, era diventata svogliata, persa nei suoi pensieri quando ci si ritrovava alla sera.

«Che c’è?» le avevo chiesto una volta.

Lei aveva alzato le spalle mentre era attenta ai fornelli. Ultimamente era molto diversa, taciturna.

«Che c’è?» avevo ripetuto cingendole le spalle.

Lei le aveva scosse, io le avevo fatte scivolare lentamente lungo i fianchi. Poi si era voltata, e con un viso serio mi aveva detto che aveva bisogno di respirare.

«Che intendi per respirare? Vuoi andartene, ti sei stufata della nostra unione?»

Aveva abbandonato i fornelli per rifugiarsi in camera. La sentivo piangere ma non avevo osato entrare.

«Quindi, vuole dire che i matrimoni falliscono perché non ci si comprende?»

Forse, non avendo trovato la persona giusta, si sentiva colpevole, come se fosse un difetto genetico.

Scossi la testa. «Non è così semplice. Magari fosse solamente l’incomprensione. Subentrano altri fattori: le false e reciproche accuse, i figli.»

«Lei ne ha?» domandò diretta come per abbandonare quel discorso.

«Li avremmo voluti, ma evidentemente…» Un dolore improvviso, insopportabile, che conoscevo ormai da mesi, mi assalì bloccandomi il respiro. Un sudore freddo mi percorse tutto il corpo.

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p style=”text-align:justify;”>«Non si sente bene?»
La mia faccia non trasmetteva un’immagine di salute.
«Devo fermarmi un momento…» dissi facendole notare l’insegna dell’Autogrill.

Mentre lei si recava al bar, andai nella toilette. Lì mi praticai un’iniezione di Hydal. Il dolore lentamente diminuì. Urinai. Andai al lavabo e diedi velocemente uno sguardo alla grande specchiera. Provai un disagio profondo nell’osservare il mio viso. Il mio stato di salute era peggiorato, da un anno, e il mio aspetto era mutato. Avevo la tipica faccia da malato. Malato di cancro. Tutte le cure non erano servite a nulla, tutte quelle promesse, quei vedrà non avevano sortito nulla. Ripercorrevo a ritroso la sorte, e la storia, di Ginevra. Ricordo, come fosse oggi, quando ci avevano comunicato l’esito della prima biopsia. Carcinoma mammario al quadrante superiore destro. Un brivido mi aveva attraversato la schiena. Ginevra non aveva mosso un muscolo, aveva posato una mano sulla spalliera dell’unica sedia del piccolo studio. Il medico ci aveva appena comunicato la sentenza con la stessa inflessione con cui avrebbe ordinato la cena al ristorante. Uscimmo dall’ospedale nell’assoluto silenzio. Che c’era del resto da dire, se non gridare tutta la nostra disperazione. La guardai, come potevo accettare che avesse in corpo quella maledetta cosa. Era meravigliosa come sempre. Aveva indossato gli occhiali neri e con passo svelto si era avviata verso il parcheggio.

«Ginevra!»

Lei si era voltata e l’avevo abbracciata abbandonandomi a un pianto dirotto. Era stata lei a consolarmi.

«Che fai, piangi? Non ti ho visto quasi mai piangere, se escludo la morte di tuo padre.» Non riuscivo a smettere mentre sprofondavo la faccia sulla sua spalla per nasconderla.

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p style=”text-align:justify;”>«Si sente meglio?» domandò Gianna davanti al bancone.
Annuii, anche se sapevo che la mia immagine smentiva quell’affermazione. «Che cosa prende? Io mi sono sorbita il quinto caffè.»

Ne bevvi uno anch’io, anche se non ne avevo tanta voglia. Quando uscimmo sul piazzale, mi afferrò per un braccio, tolse gli occhiali, mostrandomi due occhi verdi meravigliosi, e mi chiese a bruciapelo: «Lei non me la conta giusta. Che cosa ci va a fare in Svizzera?»

Guardai oltre il guardrail, le macchine passavano veloci, ognuna con una sua precisa meta. Anch’io ne avevo una, ma non mi andava di confidarmi con l’ultima arrivata. Non l’avevo fatto, per mesi, con parenti e amici, non potevo farlo con questa sconosciuta. Trovai una scusa. La più banale.

«Devo vedere una persona. Affari.»

La bugia era stampata nei miei occhi, e lei, con facilità, la lesse. Alzò le spalle. «Se non vuole dirmi la verità, ci sarà un motivo.»

Per qualche chilometro restammo in silenzio. Il suo profilo sottile, in controluce, risaltava nel panorama che scorreva fuori dai finestrini. Quando mi voltai verso di lei e incrociai il suo sguardo, mi domandò se sarei andato a sentirla quella sera. Forse voleva sdrammatizzare l’atmosfera che si era creata.

«Vedrò» dissi senza troppa convinzione. Io a un concerto. Figurarsi.

Passammo la frontiera, prendemmo l’autostrada per Lugano, in prossimità del lago lei disse d’avere appetito.

«Conosco un bel posticino, dove si potrebbe mangiare qualcosa di buono. Sempre se le va.»

La fame mi era passata da un pezzo. Avevo perso più di otto chili da quando era iniziata la malattia. Anche Ginevra era dimagrita dopo l’operazione, che era andata bene. Il seno non aveva perso quasi nulla della sua consistenza. Ora il compito sarebbe passato a un oncologo. Dopo aver visto l’esame istologico, ci avrebbe rivelato quale destino attendeva mia moglie. L’asportazione di un carcinoma è un’operazione di routine. Certo, come tutte le operazioni ha i suoi rischi, ma era solo la prima fase. Il primo gradino di una lunga scala che, secondo la sorte, poteva discendere o salire. A Ginevra era capitata quella ascendente. Il tumore era stato sì asportato, ma c’era quella percentuale, dichiarata dal patologo, che la classificava come a rischio. Aveva dovuto sottoporsi a una serie infinita di esami. A ogni accertamento c’era quell’attesa, la speranza che tutto sarebbe rientrato nella norma. Un’attesa estenuante che spezzava ogni volontà, ogni azione futura. Tutto è legato all’oggi, si viveva alla giornata.

«Ecco! Esca alla prossima.» disse improvvisamente Gianna.

Il ristorante era in riva al lago, con una splendida vista. Amavo il lago più del mare. A Ginevra dicevo che era perché non si agitava troppo. Lei rideva a questa battuta. Avevamo preso una casa in affitto a Lezzeno qualche anno prima della sua malattia. Ci trascorrevamo i weekend estivi. La casa era quasi in riva al lago, con un piccolo porticciolo. Avevamo affittato un piccolo gozzo con il quale avevamo fatto delle splendide e indimenticabili traversate. Colonno, Argegno, Sala Comacina, ma soprattutto Bellagio per i meravigliosi giardini di Villa Melzi. Ginevra li amava, ci avrebbe trascorso giornate intere. Le azalee, i rododendri giganti, le camelie, la facevano impazzire. Fu in quel periodo che le venne l’idea di aprire un negozio di floricultura.

Prima di riprendere il viaggio, facemmo due passi sul lungolago. Gianna, ogni tanto, mi guardava; forse intravedeva la mia sofferenza. A pranzo avevo mangiato come un uccellino. Il cibo non ne voleva sapere di scendere giù. Così era una sofferenza masticarlo al pari di un ruminante.

«Ha mangiato poco» disse in prossimità di un bar. «Guardi» e indicò una locandina. «Quella sono io.»

Mi avvicinai. Il manifesto mostrava una donna con una gran massa di capelli rossi, labbra accese, due enormi orecchini a cerchio e un microfono in mano. C’erano la località e la data del concerto.

«Visto?» disse dandomi una leggera spallata. Volle a tutti costi che entrassimo. Al bancone c’era un ragazzo giovane, mentre una ragazza stava scopando il locale.

«Volete che vi firmi la locandina?» chiese sfacciatamente levandosi gli occhiali. Il giovane smise per un attimo ciò che stava facendo. Anche la ragazza rimase con la scopa tra le mani. Fermi.

«Ma… sei Leyla Zilli!» e uscì dal bancone per stringerle la mano. Anche la ragazza gliela strinse. «Aspetta» disse.

Sparì nel retrobottega e ritornò con un CD. «Qua, mi devi fare la dedica.» Quando ripartimmo, volle farmi ascoltare un suo CD.

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p style=”text-align:justify;”>Cinquantamila lacrime non basteranno perché.
Musica triste sei tu dentro di me.
Cinquantamila pagine gettate al vento perché.
Eterno è il ricordo, il mio volto per te.
Non ritornare, no tu non ti voltare, non vorrei mi vedessi cadere.

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p style=”text-align:justify;”>Dovetti ammettere che mi piaceva molto. «Allora sei una vera artista.» Gianna fece un sorrisetto ambiguo.
«Verrà a sentirmi stasera, allora?» insistette.
Risposi di sì.

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p style=”text-align:justify;”>«Me lo promette?»
Promisi, ma dovetti rigettare il forte dolore che si era ripresentato.

Da Lugano, dove la lasciai, alla mia destinazione c’era ancora un po’ di strada da percorrere. Mi fermai poco dopo e mi feci un’altra iniezione prima di riprendere il viaggio.

Il luogo mi era oramai noto. Una struttura bianca costituita da tre blocchi asettici collegati da grandi tubi di plexiglas; ogni volta che ci passavo, mi ricordavano delle enormi siringhe. Forse l’idea dell’architetto era proprio quella. La trafila era stata lunga. Pur avendo una legge che ammette l’eutanasia, le visite erano state scrupolose. Per prima cosa si accertarono che lo stadio della malattia non concedesse alcuna speranza di guarigione. Poi ci furono diverse sedute sostenute da uno psicologo e un oncologo. Quando tutto fu deciso e stabilito, mi diedero un’autorizzazione. Da quel momento avrei potuto stabilire il giorno del mio viaggio. Loro usavano questa espressione.

Viaggio. Mi ero da subito abituato a quella parola: viaggio. Con Ginevra ne avevamo fatti di viaggi, ma tutti avevano un ritorno. Quest’ultimo era di sola andata.

La signorina che mi accompagnò nella mia camera era di una professionalità sconcertante. Veramente tutti, in quel luogo, lo erano. Non si sentivano voci. Rumori. Nulla. Un silenzio che sapeva già di morte. Nessun odore percettibile. Tutto asettico. Anche nel grande parco che circondava la struttura c’erano pochi uccelli, e quei pochi cinguettavano con discrezione, come se non dovessero distrarre le persone che vi alloggiavano. Il soggiorno non prevedeva incontri, se non con i parenti stretti. La signorina, dopo avermi mostrato la camera, mi chiese se volevo qualcosa per cena e, prima di uscire, m’informò che avrei ricevuto la visita del dottore. Mi distesi sul letto, l’iniezione aveva già esaurito il suo effetto. Tra poco avrei potuto chiederne un’altra. Misi le mani dietro la testa e osservai il soffitto: immacolato come l’anima di un bimbo. Anche le pareti lo erano, eccetto per le fotografie di località Svizzere. Una, in particolare, ritraeva lo Jungfrau. Lo riconobbi subito perché c’eravamo stati, Ginevra ed io, poco dopo il matrimonio. 4.158 metri. Uno spettacolo per gli occhi. E lo stesso freddo di quella sera, quando avevo voluto affrontare l’argomento.

«Ginevra, se c’è un altro nella tua vita, hai il dovere di dirlo. Poi potrai fare ciò che vorrai.»

Lei, come al solito, si era rifugiata in camera. Il giorno seguente, rientrando la sera, avevo trovato un biglietto sul tavolo della cucina.

“Me ne vado. Devo riflettere un poco.”

Il colpo fu davvero forte. Non avevo mai chiesto a Ginevra, quando usciva la sera, dove e con chi andasse. C’era un rapporto di fiducia. Almeno era quello che avevamo stabilito. La mia vita mutò improvvisamente. In studio ero nervoso. Prima, con i nuovi patrocinati, cercavo un ravvicinamento; dopo quella delusione, invece, aprivo immediatamente la procedura di separazione.

Bussarono alla porta. Era l’infermiera di prima che mi domandava se desideravo cenare. Rimasi un attimo a pensare, poi risposi di no. Forse sarei uscito. Lei non fece una piega, anche se indubbiamente si stupì. Non doveva essere molto conforme alle loro procedure che un tizio se ne uscisse la sera prima del suo… viaggio. Comunque decisi di uscire, di mantenere quella promessa, anche se il mio fisico mi sconsigliava di mettermi al

volante. Che mi poteva capitare oramai? Certo, nelle mie condizioni uno si augura che gli capiti un bell’incidente ed è fatta.

Il concerto di Gianna era al Fusion Music Bar a Lugano. I manifesti affissi all’ingresso dicevano molto fin dal titolo: “We love you – Jazz’n soul”. Jazz e Soul suonati da una band di musicisti sopraffini: Leyla Zilli, voce solista; Fabrizio Bosso, Sax e tromba; Gianluca Pelosi al basso; Antonio Vezzano alla chitarra; Marco Zaghi al sax; Nicola Roccamo alla batteria; Angelo Cattoni alle tastiere. La sala era piena ma, grazie a una lauta mancia, trovai un posto. Tavolino quasi a ridosso del palco. Accanto a me erano sedute due ragazze, mi diedero un’occhiata veloce, nella penombra la mia faccia malata non si vedeva. Indossavo anche un paio di occhiali dalla montatura nera; le occhiaie erano sparite dietro le lenti scure. Sul palco, Gianna, con quelle luci e quel trucco non sembrava nemmeno lei. Non che stesse male. Tutt’altro. Aveva un abito verde che ricordava gli anni ’50, capelli sciolti sulle spalle, una gardenia rosa fungeva da cappellino. Le labbra rosse spiccavano come i suoi enormi orecchini a cerchio. Le scarpe erano blu con un tacco molto alto, ma si muoveva con grande disinvoltura.

Dopo diversi brani, cantò quella che mi aveva fatto sentire in macchina. Riascoltarla dal vivo era molto diverso, più coinvolgente. Quando un occhio di bue girò per la sala e m’illuminò, Gianna mi riconobbe Mi salutò con la mano e m’indirizzò un bacio. Poi scese dal palco e mi venne accanto mentre cantava un brano. L’imbarazzo che provai fu fortissimo, dovevo avere in corpo tanta di quell’adrenalina che per un attimo, un solo attimo, le angosce e i dolori sparirono.

«Non scappare» mi sussurrò all’orecchio.

La prima parte del suo concerto finì. Ora sul palco si esibiva un’altra band.

Andò nel suo camerino, dove volle la raggiungessi.

«Mi sistemo. Ho un po’ di tempo prima che inizi la seconda parte del concerto. Ti sono piaciuta?»

Le dissi di sì. Mi presentò gli elementi della sua band e spiegò che, senza di me, il concerto non si sarebbe potuto svolgere.

«Esagerata» mi venne facile dirle.

«Vieni, cerchiamoci un posto tranquillo. Ho voglia di parlare un po’ con te.»

Ero stordito. Di che voleva mai parlare?

Trovammo un angolino riservato in una saletta. Per lei fu facile: era o non era l’attrazione della serata?

«Sono felice tu sia venuto al mio concerto. Oh, scusami, non ti ho domandato se potevo darti del tu.»

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p style=”text-align:justify;”>Scrollai le spalle.
«Il tuo incontro com’è andato?» Sorrisi appena alla sua velata ironia.

«So perché sei qui. Tu vuoi… Lo fece anche mio padre. No, lui non era malato, colpa dei debiti. Aveva perso il lavoro e tutto, in famiglia, andava male. Io ero piccola ma quella scena non me la sono più levata dalla mente. Era riverso sul tavolo della cucina, la testa posata sulle braccia. Sembrava dormisse. Così mi avvicinai e lo chiamai. «Papà, papà!» Era morto, aveva ingoiato una gran quantità di sonniferi e se ne era andato.

Lasciò una lettera in cui ci chiedeva perdono per quel gesto. Prese un tovagliolino dal tavolo e se lo passò sugli occhi, una leggera sbavatura di mascara vi rimase. «Mi sono rovinata tutto il trucco» disse ridendo e tirando su col naso.

Le versai da bere. Quel racconto mi aveva molto toccato, ma dovevo stare attento a non cadere nel patetico. “Mi principia a rodere il verme di una patetica disperazione” ricordai, stranamente, una commedia del Goldoni.

«Sei stata molto brava stasera» dissi cercando di cambiare discorso. «Eri, se posso dirlo, anche molto sexy nei tuoi movimenti. Brava davvero.»

«Lo fai perché hai visto tua moglie soffrire?»

Di nuovo all’attacco. Avevo perso smalto se lei continuava su quest’argomento.

«Una vita senza dolore è impensabile, è lo scotto che paghiamo alla dimensione corporea dell’esistenza. Il dolore è indice della nostra vulnerabilità ma è anche la condizione che ci consente di godere il sapore del mondo. Sei d’accordo?»

Queste ultime parole la costrinsero a riflettere, ed io ne approfittai per assentarmi un momento. Quando ritornai, lei mi rispose così: «Se accettiamo il dolore, allora accettiamo con esso anche la vita.»

Bevvi pensando a una risposta adeguata e lei proseguì: «Tu non vuoi che sia il dolore a sconfiggerti. Hai visto tua moglie soffrire e morire in quel modo. È per questo?»

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p style=”text-align:justify;”>«Non è morta!»
«Come? E… le due fedi?» e le indicò con un gesto.

«Quando ci separammo lei la lasciò su un mobile della camera, me la infilai e da quel giorno…»

Scosse la testa e i grossi orecchini le ciondolarono sul viso.

«Durante la malattia le ero sempre vicino. Ogni giorno tralasciavo il mio lavoro e mi fiondavo a casa per vedere come stava. Via via che i trattamenti si susseguivano, le sue condizioni peggioravano. Quando cominciò a perdere i capelli fu una tragedia. “Ecco, ora non mi amerai più. Ti cercherai un’altra donna” mi disse. Non cercai nessuno, le stetti ancora più accanto. La mattina quando le prendeva la nausea, ero lì a sostenerle lo stomaco, a farle forza.»

«Un calvario» commentò Gianna. «E poi che successe? Perché se ne andò?» Nemmeno lei riusciva a comprendere quella decisione.

«Le mie attenzioni erano cambiate. Ginevra, dopo le cure, cominciò a stare meglio. Riprese a mangiare, il peso aumentò. Anche i capelli le erano ricresciuti più belli di prima. Era come rinata.»

«E dunque?»

«Anch’io ero rinato con lei. Avevo ripreso a lavorare senza sosta, come avevo sempre fatto. Uscivo la mattina e rientravo la sera per cena. Insomma, lo studio, il tribunale e le cause avevano preso il sopravvento. Questo non riuscì più ad accettarlo. Se prima avevo trovato il tempo per starle accanto, non capiva come mai ora non lo trovavo più.»

«È pazzesco» disse.

Allargai le braccia. «Che ti devo dire, forse voi donne siete più complicate di noi. Fatichiamo a comprendervi. E lo posso dire a maggior ragione; ne ho viste di situazioni

strane durante la mia professione. Matrimoni andati a catafascio per delle impuntature senza senso. Capricci, insomma.»

«Lei sa…?» non voleva dire malattia.

«Lo sa» confessai.

«E sa anche che…»

«Questo no. Lo saprà dopo, dal mio notaio.»

Quest’affermazione le creò disagio. Si asciugò velocemente il naso con il tovagliolino di carta.

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p style=”text-align:justify;”>«Zilli!» chiamò uno della sua band. «Tocca a noi.»
Lei alzò un braccio e fece un gesto con la mano.
«Ho capito perché ti sei così interessata a me.»
«Perché?» domandò curiosa posando la sua mano sulla mia.
«Hai visto tuo padre e, da allora, di fronte al suicidio ti senti impotente.»

Gianna scosse appena la testa, i suoi occhi s’inumidirono di lacrime. Incapace di trattenerle, le lasciò scorrere a rigarle le guance. «Perdonami» dissi e le offrii il mio fazzoletto. In quel momento avrei voluto alzarmi e abbracciarla, ma il coraggio non mi era mai appartenuto; i sentimenti avevo sempre preferito tenerli nascosti. Dentro di me. Com’era possibile che una donna, conosciuta poche ore prima, potesse donarti più emozioni di altre che conosci da una vita? Questa volta era diverso, non c’era nulla che non potessi fare. Mi alzai e ci abbracciammo. Una gran voglia di piangere mi assalì, ma la scacciai sentendo il dolore che stava sopraggiungendo con grande vigore.

«Voglio che accetti questo mio regalo» e gettai le chiavi della macchina sul tavolo. «Prendila, non so più che farmene.»

Lei fece cenno di no, e le scappò da ridere mentre gli occhi erano ancora colmi di lacrime.

«Sei matto! Non posso. Non mi conosci nemmeno.»

«È come se ti conoscessi da sempre. Telefonerò al notaio e gli darò le disposizioni. Penserà lui a tutto. Ti prego!» Misi le chiavi nella sua mano e gliela chiusi.

«Sai perché le accetto? Sarà la scusa per conoscere il luogo dove potrò venire a salutarti, di tanto in tanto.»

Vennero a chiamarla. «Arrivo» rispose. «Come farai a tornare… là?»

«Prenderò un taxi. Non ho fretta. Mi fermo ancora un attimo a finire di bere.» Lei s’incamminò, oltre la porta si voltò e mi corse incontro. Mi abbracciò.

«Mi auguro che il tuo sia un buon viaggio… Ciao», e mi diede un bacio sulle labbra.

Mi risedetti e mi riempii il bicchiere. La mia testa cominciava a risentire di tutto l’alcol che avevo bevuto. Pensai a quello che mi aspettava la mattina seguente. Tutto mi era stato spiegato più volte durante gli incontri. Sarebbe venuto un medico e mi avrebbe praticato un’iniezione tranquillante. Poi avrebbe disposto sul comodino una serie di confezioni, ognuna contenente un certo numero di pastiglie colorate. Una mi avrebbe fatto addormentare, un’altra avrebbe lentamente fatto cessare il battito, l’ultima avrebbe fermato la respirazione. Mi ero sempre augurato che la sequenza fosse rispettata.

Mi alzai e mi avviai all’uscita. Era ora di rientrare. Passai davanti al locale mentre suonavano. Improvvisamente la musica cessò. Sentii la sua voce che parlava al microfono.

«Un attimo. Vi prego di ascoltarmi per un momento.»

Scostai i pesanti tendoni e mi affacciai sulla platea.

«Devo comunicarvi una cosa per me molto importante.»

La folla nella sala gremita tacque all’improvviso.

«Questa mattina sono rimasta in panne con l’auto. Se non fosse stato per un signore molto gentile, questo concerto non si sarebbe potuto svolgere.»

Scattò un applauso a macchia di leopardo.

«Non è solo questo che volevo dirvi. A volte nella vita crediamo di conoscere persone che frequentiamo da anni, poi ne incontriamo una, per poche ore, e ci accorgiamo che è una persona speciale, con la quale avremmo intessuto una bella e profonda amicizia.»

Silenzio.

«Questa persona è venuta ad ascoltarmi. Domani intraprenderà un lungo viaggio…» la voce s’incrinò. «Un viaggio che lo porterà lontano, sono certa in un bel luogo. A questa persona prometto che scriverò una canzone speciale. Ora gli dedico questa.» La sua band iniziò a suonare.

«Ciao Ridolfo!»

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p style=”text-align:justify;”>Cinquantamila lacrime non basteranno perché.
Musica triste sei tu dentro di me.
Cinquantamila pagine gettate al vento perché.
Eterno è il ricordo, il mio volto per te.
Non ritornare, no tu non ti voltare, non vorrei mi vedessi cadere.

Uscii e chiamai un taxi. Quando chiusi lo sportello, una stanchezza improvvisa mi assalì come un peso che partiva dalle spalle e sembrava volesse piegarle. La sua voce riempì l’abitacolo, poi più nulla, solo il sibilo del vento contro i finestrini che smorzò le ultime note.

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