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Un corpo che ha nome e cognome

Creato il 14 luglio 2011 da Ilpescatorediperle
Due giorni fa la Camera dei Deputati ha definitivamente approvato la legge sul testamento biologico. O meglio contro, visto che è costruita apposta per rendere impossibile l'espressione della propria volontà sulla propria vita - o, come è stato detto con lucida crudezza: se sei morto, puoi morire.Tra le tante cose, colpisce che un provvedimento così incisivo sulla nostra vita prenda il via di soppiatto, mentre l'I-tagli-a è incollata agli spread e alle manovre.Ho pensato di riportare una nota che avevo scritto nel febbraio 2009 (non su questo blog, che non esisteva ancora), poco prima della morte di Eluana Englaro. Oggi scriverei in altro modo, comunque sono ancora d'accordo con quello che pensavo due anni e mezzo fa.
Premessa: in questi giorni in cui sto scrivendo la mia tesi mi capita, per una strana coincidenza, di dover scrivere qualcosa su cosa vuol dire nascere, cosa vuol dire agire, cosa vuol dire vivere. Coincidenza, si capisce, con quello che sta succedendo in questi giorni in Italia. Facendo finta che la mia proverbiale pigrizia non c'entri per niente, penso che non riesco a scrivere nulla su questo argomento perché la storia di Eluana occupa quasi totalmente i miei pensieri. Visto che sto preparando una cena e che nemmeno cucinare una zuppa di cereali mi aiuta a distrarmi, e visto soprattutto che per una serie di motivi non posso andare alla manifestazione che adesso inizia a Verona, scrivo alcuni pensieri sulla penombra che stiamo attraversando.
Intanto, stiamo parlando di una persona, con nome e cognome: Eluana Englaro, come tempo fa parlavamo di Luca Coscioni, Terry Schiavo, Piergiorgio Welby, ecc.Una cosa che si dovrebbe sempre fare in bioetica è parlare di singoli casi, non per assoluti. E' proprio questo che ci riesce difficile, se pensiamo all'etica come ad una serie di norme formali che valgono per tutti indistintamente, senza possibilità di chiamarsi fuori. Questa morale ottiene l'universalità alle spese del singolo, e lo fa proprio trascurando ciò che innanzitutto individua ciascuno di noi, il nostro corpo. L'universalità si richiama infatti a tutti i detentori della ragione o delll'anima, senza intenderne nessuno in particolare, come ad enti astratti, e come tale non può incontrare la presenza in essere di ciascuno in carne ed ossa. Di questo particolare non c'è scienza, ci può essere solo la diretta conoscenza che vede, sente, tocca. Di questo particolare oggi dovremmo avere un'immensa nostalgia, perché quello che accade urta profondamente la possibilità di racchiuderlo in una regola generale. Siamo davanti ad un particolare che non ha un universale noto, e come tale, richiede una riflessione. Nessun nostro ragionamento può ricreare né sussumere la concretezza palpabile di una vita che ci sta davanti come sola e irripetibile. Una vita che ha un nome e cognome, e che in questo caso è Eluana Englaro. La lettera di poche righe che Beppino Englaro ha inviato ai presidenti della Repubblica e del Consiglio, invitando a vedere con i propri occhi la sfortunata ragazza, mi è sembrata più significativa di tutti gli editoriali e i commenti che si potessero leggere su di lei. Mi fa venire in mente, per una curiosa associazione, l'invito degli angeli ai pastori di recarsi alla grotta di Betlemme (“Andate e vedrete”) per vedere il Nuovo Nato, come la corsa di Pietro e Giovanni al Sepolcro di Gerusalemme per vedere il vuoto sudario del Risorto. Oggi dobbiamo accorrere al cospetto di un corpo che soffre, che è muto, che è ormai ad un passo dalla morte. Oggi, nella riflessione su quello che sta accadendo, siamo tutti invitati, in presenza di spirito, a frequentare quella stanza di ospedale di Udine, per vedere con i nostri occhi di cosa, di chi, stiamo parlando. Quel corpo ci potrebbe raccontare la storia degli ultimi diciassette anni, che qualcuno, forse per la percezione del tempo che abbiamo in Italia, ha osato definire “fretta”. Diciassette anni.Eluana Englaro è lo scandalo della nostra coscienza perché ci testimonia l'estremo protrarsi di un dolore condiviso da chi la ama, e che per amore, e perché ha assorbito dentro di sé quei diciassette anni, oltre a quelli che, prima dell'incidente del '92, richiamano un'altra Eluana, sta compiendo la sua battaglia.Noi che parliamo dall'esterno, tutti indiscriminatamente, siamo privi di quegli anni, non abbiamo, probabilmente, l'anzianità necessaria per dire la nostra. Beppino Englaro, comunque la si voglia pensare, ha diciassette anni più di ciascuno di noi, sedicenni o novantenni che siamo. Questa età appare una distanza pressoché incolmabile, Achille, per quanto sotto forma di un decreto dal piè veloce, non riuscirà mai a raggiungere la tartaruga che conosce la propria piccola palmo a palmo.
Capita, però, che quella che in molte altre circostanze sarebbe stata (e dovuta rimanere) una tragedia privata, la cui dignità può solo essere corrotta dalla morbosità di uno sguardo estraneo, diventi una questione pubblica, e come tale, politica. Perché il signor Englaro, invece di scambiare un'occhiata con medici comprensivi nel silenzio, lasciando semplicemente compiersi ciò che poteva accadere diciassette anni fa, ha richiesto un diritto, ha ribadito una pubblica pretesa, quella di poter disporre della propria vita, di essere detentori del proprio corpo, gli unici possibili arbitri di un dilemma insolubile.
In effetti, è proprio il fatto di trovarsi sull'orlo dell'impossibilità di decidere che richiede che a farlo sia, nel dubbio, la persona più vicina ad Eluana Englaro. Siamo di fronte ad una vita spezzata. Una vita, che non abbiamo conosciuto, che ci rimane ignota. Chi può decidere per lei, dopo diciassette anni? Se dentro quel corpo c'è un'anima che ha vissuto, chi può conoscerne meglio i segreti di chi per anni l'ha frequentata giorno per giorno? Chi può, con un esercizio di immaginazione, interpretarne il volere, chi può dare voce ad un corpo muto? Oppure: chi lo ama davvero? E' davvero possibile pensare che sia l'amore a guidare chi quel corpo e quella vita non ha mai nemmeno visto? Ciascuno di noi dovrebbe tacere, e ascoltare chi può davvero parlare per lei, far sentire una voce compromessa per sempre.
Che cosa può significare, in questa situazione, dire “Se io fossi quel padre, farei così?”. Nessuno di noi è quel padre, ha quella figlia: la nostra immaginazione si scontra contro questo dato di fatto insuperabile. Non c'è, in realtà, nessuna possibilità di raccomandare a quel padre alcuna soluzione piuttosto di un'altra. Questo caso non può essere risolto con una legge, se intendiamo la sua prescrizione come l'universale che fa violenza al particolare, che trasforma Eluana Englaro in uno dei tanti corpi, delle tante figlie immaginarie che la legge si incarica di regolare. In un caso limite, proprio perché è un dilemma insolubile e tragico, perché nessuna decisione è di per sé giusta e di per sé sbagliata, in questo caso, nessuno è più degno e credibile nel fare la scelta di chi ha diciassette anni più di tutti noi.
Non sorprende, se tutte le argomentazioni offerte per impedire al signor Englaro di scegliere secondo la volontà di sua figlia, hanno parlato un linguaggio generalizzante: ci è stato detto perché una donna x in una condizione y non dovrebbe essere accompagnata alla morte: nessuno ha saputo, tranne il signor Englaro medesimo, dirci perchè Englaro Eluana, nata … vissuta... da diciassette anni sospesa in un limbo biologico, giuridico, sanitario, deve concludere la sua esistenza in questo o quel modo.
L'amore è un'emozione privata, personale. Esso, di per sé, si pone contro al senso di comunità. Quando si dice “sono disposto a sacrificare tutto per te”, si dice implicitamente che il rapporto tra me e te vale più del mondo, che, per avventura, si potrebbe distruggere ogni cosa su questa terra purché io e te rimanessimo. Questa paradossalità la capisce solo chi ama. Chi non ama, la trova soltanto oscura. Nella maggior parte dei casi, la comunità, cioè il noi, non si scontra con il tu di chi ama, perché nella maggior parte dei casi ci scambiamo idee e pareri tra individui che sanno e possono comunicare, sanno e possono interagire. Cosi, la legge può parlare per tutti, universalmente, perché trattiamo di ciò che possiamo condividere dialogando. Ci sono casi in cui questo non avviene. Nel caso di Eluana Englaro, la legge non ha la chiave per decifrare l'enigma di un corpo muto. La legge deve lasciare il passo all'amore, a chi può dire “tu”. Nessuno di noi, nemmeno il presidente del consiglio, può dare del tu ad Eluana, perché non l'ha mai amata. E' chi può dire tu, oggi, chi può parlare per lei, e, così per tutti noi? La legge dovrebbe in questo caso, fare silenzio, accompagnare e proteggere, rendere possibile ciò che lo è ancora, ossia che chi dice “tu” possa scegliere per chi ama. Ogni tentativo di fare altrimenti è violenza. Fare diventare Eluana Englaro la donna x nella situazione y è violenza. Costringere qualcuno a subire la mera sopravvivenza è violenza. Vivere tanto per vivere, tanto per non minare le certezze granitiche di qualcun altro è violenza. Dire che Eluana è uguale a ciascuno di noi che non siamo in coma irreversibile perché può avere figli (e come? Con la violenza? Con metodi assistiti proibiti per legge da chi ora dice questo?) è una violenza. Usare il parlamento come una fabbrica di leggi ad personam (è andata bene per non essere processato, perché non dovrebbe andare anche stavolta?) è violenza.
Quanto alla Chiesa... sono cattolico e praticante, per quanto a rischio potenziale di scomunica, immagino... Eppure non riesco in questo pathos farisaico per la legge e la regola, in questa volontà di condannare alla passione, per una comunità religiosa fondata sulla morte e rinascita di Dio da una condanna alla passione, non riesco in tutto questo a vedere nessun lampo di misericordia, nessun barlume di amore, nessuno spirito di compassione. Anche questa volta, il sacerdote è passato per via e ha ignorato l'uomo a terra, in coma irreversibile per le botte dei briganti. Anzi, questa volta dei briganti il sacerdote è diventato alleato, nella violenza di far rientrare a tutti costi un corpo che ha nome e cognome nell'astrattezza di un catechismo dogmatico.Al centro del cristianesimo, non è la vita purchessìa, la sopravvivenza biologica nonostante tutto. Al centro del cristianesimo sta la vita vera, la vita che è vissuta nell'ottica della salvezza, che viene solo dall'amore. La vita che molto ama, è la vita che sa andare incontro anche alla morte. La vita cristiana non è fisiologia, non si affatica ad aggiungere un solo minuto a quel che tocca di vivere, non è catturata dalle ristrettezze delle regole. La vita cristiana è la vita che ha significato.Dopo diciassette anni, la sofferenza e l'intercapedine tra i due mondi in cui si trova Eluana non sono più una prova. Non hanno più nulla da insegnare a lei, a suo padre, a sua madre. E, a quanto pare, l'unica prova ancora in piedi, quella che ci inviterebbe ad ascoltare l'amore del padre invece della sordità delle norme, non la sappiamo cogliere. Che l'amore possa aprire le orecchie dei sordi, possa dare ad Eluana la dignità di un corpo, di un'anima, che hanno nome e cognome.da TEMPI FRU FRU http://www.tempifrufru.blogspot.com

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