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Un granello di sabbia per ogni visione di Altman

Creato il 13 ottobre 2014 da Oggialcinemanet @oggialcinema

“Un film è come un grande castello di sabbia: lo si progetta e costruisce con cura, poi tutti lo possono guardare e ammirare per qualche ora, finché le onde non lo appiattiscono di nuovo, e non ne rimane che un ricordo.” Robert Altman era un giocatore senza apparenze, un narratore libero, artista onnipotente, visionario anticonformista. Difficile incarnare la profondità del suo sguardo cinematografico, attribuendogli una sola definizione, imponendogli quell’etichetta che il suo arbitrio ha sempre rinnegato. Il documentario a lui dedicato grazie al lavoro del regista Ron Mann è un excursus nella sua vibrante indole, nella dimensione intima e professionale della sua esistenza, scandagliando nel caleidoscopio della sua personalità sfaccettata, la spiazzante originalità rispetto alle convenzioni cinematografiche dell’epoca e l’impatto rivoluzionario delle sua opera magistrale.

“Come sono i tuoi principi morali?”. “Un po’ deboli”. La voce principale che ci guida nella pellicola è quella della vedova Kathryn Reed Altman che rievoca in questo dialogo il loro primo e intramontabile incontro. Un lungo viaggio che conduce fino alla rivelazione scioccante di aver subito un trapianto completo di cuore. Un segreto che venne allo scoperto solo alla cerimonia degli Academy Awards del 2006, quando Altman ricevette l’Oscar alla carriera, un premio “che Robert rifiutò per ben due volte” dice Kathryn, “perché era il premio dei vecchi”. Lo accettò solo quando l’Academy fu d’accordo di mostrare alla cerimonia delle clip del suo ultimo film, Radio America.

Altman Il Film

“Dal mio punto di vista, io vado sempre dritto e continuo a fare sempre la stessa cosa. Ogni tanto quello che faccio piace, e diventa un successo”. Ribelle. Innovatore. Folle. Padre di M*A*S*H, I compari, Nashville, I protagonisti e Gosford Park tra gli altri, Robert Altman è riuscito a imporsi caparbiamente con le proprie opinioni radicali sulla settima arte, distinguendosi a testa alta. Proponendo uno sguardo cinematografico acuto, corrosivo, teso alla rappresentazione del caos che avvolge la realtà fino a renderla irriconoscibile. Refrattario alle regole, tenace, indistruttibile. Seguiamo in questo documentario l’andamento altalenante della sua carriera, fatta di alti e bassi, in un tortuoso percorso di eccessi, a causa del suo sguardo attento e impietoso sulla società e sui comportamenti umani, necessario a fornire ai suoi lungometraggi quello spessore che raramente si incontra in altri film di produzione americana.

Che cosa significa “altmaniano”? A rispondere sono molti degli attori che hanno recitato con il Maestro, ognuno dei quali dà una sua personale definizione dell’aggettivo: da James Caan («colui che decide le proprie regole») a Elliot Gould («cercatore di verità»), da Bruce Willis («Prendere Hollywood a calci nel culo») a Julianne Moore («Mostrarci la vulnerabilità degli esseri umani»), dal regista Paul Thomas Anderson («“L’ispirazione») al recentemente scomparso Robin Williams, indimenticabile Popeye per Altman («Aspettati l’inatteso»).

“Io non posso girare Superman o Indiana Jones. Non posso, e soprattutto non voglio”, diceva negli anni ottanta, lamentando l’infantilizzazione del cinema di cui paghiamo anche oggi le conseguenze. Spettatore disincantato della sua epoca e completamente esterno all’ottica cinematografica hollywoodiana, Robert Altman registra con grande lucidità durante l’intero arco della sua carriera i vizi e le debolezze di una società americana in continuo mutamento. E a chi lo accusava di essere antiamericano, per il suo sguardo fortemente critico della società che amava e in cui era cresciuto, rispondeva: “Rifletto solo quello che vedo e sento”. Il ‘guastatore’ di Hollywood in cinquant’anni di carriera ha guadagnato, perso e riacquistato il favore della critica e del suo pubblico, ha preso a pugni Hollywood, ha inseguito un’autonomia produttiva e affermato la sua identità autoriale, e ha continuato a fare di testa sua.

“La morte è l’unica fine che conosco”. In un epilogo che pare ancora irrisolto, Robert Altman muore a ottantuno anni, pieno di un sentimento ardente per la sua famiglia, per i perdenti, gli artisti, i vinti e per gli uomini banalmente comuni dell’America vera. Muore, lasciandoci con la consapevolezza che un suo film non sarà mai soltanto un film. In prossimità della chiusura del documentario assistiamo al momento della consegna del premio Oscar alla carriera, quando, ultraottantenne, accettò con un sorriso la standing ovation dei suoi colleghi. Accettando la comprensione di un pubblico che finalmente lo aveva accettato per quello che era, fieri che un genio come Altman non poteva e non doveva essere cambiato.

di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net


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